Copertina
Autore Vladislav Otrošenko
Titolo Didascalie a foto d'epoca
EdizioneVoland, Roma, 2004, sírin 32 , pag. 170, cop.fle., dim. 145x205x11 mm , Isbn 978-88-88700-32-8
OriginalePrilozenie k fotoal'bomu. Roman - Dvor prededa Grisi. Desjat' novell i epilog [2000]
CuratoreMario Caramitti
TraduttoreMario Caramitti, Bianca Sulpasso
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe narrativa russa
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Indice


Didascalie a foto d'epoca. Romanzo

Parte prima.   Africa                        11
Parte seconda. Allegorie                     41
Parte terza.   Il bugigattolo                69
Parte quarta.  Il pino d'oro                 87
Parte quinta.  Epoche                        99
Epilogo                                     113

Il cortile del bisnonno Griša. Racconti

Vacche baldracche                           117
Stupido                                     121
I tesori                                    125
La musica                                   129
La visione                                  133
La felicità                                 137
Il furto                                    143
La kikimora                                 147
L'aldilà luminoso                           153
Il canto                                    157
Il cercatore. Epilogo                       161

Isole di parole.
Postfazione di Mario Caramitti              165

 

 

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Pagina 11

PARTE PRIMA
Africa



Quando le basette di zio Semėn s'incendiarono, lui decretò il lutto nella casa, ordinò di stendere del satin nero su tutti gli specchi e indossò un abito nero con il collo di raso e un tale puzzo di naftalina che tutte le zanzare e le mosche che si trovavano in casa volarono via all'istante.

A sera inviò a tutti i fratelli dei telegrammi con identico testo:

METTITI SUBITO IN MARCIA, FIGLIOLO. UN FUOCO INFERNALE HA DIVORATO LE MIE BASETTE. SEMĖN MALACHOVIC.

Non era il più anziano degli zii, Semėn, né le sue basette superavano per lunghezza quelle degli altri: Porfirij Malachovic, il maggiore degli zii, aveva le basette fino alle spalle, e lui stesso era così enorme che attraverso talune porte faceva fatica a passare. Semėn però aveva preso l'abitudine di chiamare figlioli tutti quanti gli zii, forse per il fatto che viveva e faceva da padrone di casa là dove tutti loro erano nati, oppure perché Annuska, che aveva messo al mondo gli zii, amava lui più di ogni altro.

A detta di zio Semėn, lei l'aveva partorito di nascosto da Malach, e difatti mai e poi mai avrebbe potuto essere suo padre quel tronco scimunito e incartapecorito, che sulla faccia della terra non aveva saputo far comparire null'altro che abomini come zio Porfirij, o porcheriole del tipo di zio Iosja, che Annuska, vuoi per svampitezza, vuoi per compassione della sua penosa macilenza, continuava a chiamare "il mio più piccolino", infondendo in quelle innocenti paroline un pizzico di indulgente tenerezza. Paroline che suscitavano in zio Semėn un'irrefrenabile indignazione. Bastava che Annuska le pronunciasse, facendo per un qualsiasi motivo riferimento al povero zio Iosja, per far precipitare zio Semėn in una vera crisi convulsiva. Si fermava all'improvviso nel mezzo della camera e assumeva una posa affranta e pietrificata, come gli avessero calato sul collo una mazza di piombo. Rimaneva lì immobile, ruotando furiosamente i limpidissimi occhi azzurri, del colore del ghiaccio di gennaio sulle gronde, finché lo sdegno che gli attanagliava la gola non arrivava a impossessarsi della lingua, sciogliendosi in elocuzioni inaudite.

"O vecchia ignobile!" esplodeva zio Semėn, rovesciando la testa all'indietro e stendendo freneticamente le dita nell'aria. "O baldracca melliflua!" continuava dopo una breve pausa, ricercando l'intonazione più adatta per la sua veemente tirata, pronta ormai a scaturirgli dal petto, senza più il freno degli indugi che disseminava ad arte un mai sopito istinto istrionesco. "Quante volte ancora dovrò ripeterti, femmina scellerata, chi, quando e in quale successione è saltato fuori dal tuo ventre mai sazio a onta del Creato!"

Di quale onta discettasse zio Semėn non c'era modo di capirlo. Nessuno ormai metteva più in dubbio che proprio lui, tra tutti gli zii del mondo, fosse atteso con trepidazione dal Creato quando, come recluso in cella, languiva nel ventre di Annuska, introdottovi non per capriccio del caso, come tutti gli altri zii, ma per volontà stessa della Provvidenza, e che il Creato avesse esultato quando infine, nei tempi stabiliti, si erano spalancate innanzi a zio Semėn le porte misteriose della carne, e che miriadi di stelle nelle sterminate distese cosmiche avessero fatto eco con bagliori di giubilo al primo grido di zio Semėn tra le pareti della dimora di Malach. Ma cosa avessero a spartire con il Creato gli altri zii e in che modo l'avessero offeso, mai zio Semėn si era degnato di spiegarlo.

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Pagina 50

[...] Tuttavia la fotografia stessa, preparata da Kikiani già il giorno successivo e subito consegnata con un corriere espresso (da Jacques e Claude le foto pasquali giungevano nel migliore dei casi tre o quattro giorni dopo la domenica in albis), non soltanto era piaciuta a zio Semėn, ma era anche diventata col tempo oggetto ricorrente dei suoi entusiasmi e di sognante contemplazione. Se ne possono immaginare due cause: in primo luogo zio Semėn trovava, tra l'altro non senza fondamento, che in quella foto il suo aspetto fosse di accecante magnificenza; né poi poteva lasciarlo indifferente un'osservazione di grande importanza, per non dire una scoperta sensazionale, fatta il giorno del compleanno di Serafim da zio Pavel. Quest'ultimo, sfogliando davanti a una tazza di caffè il ponderoso album fotografico, rivestito di panno verde scuro e decorato, chissà perché, dalla figura in rilievo di una ballerina (un fotografo con i baffi, il gilet e l'immancabile cappello di paglia sarebbe stato molto più consono), fece notare a voce alta che in quella foto zio Semėn era straordinariamente simile al suo focoso genitore.

Non c'è bisogno di sottolineare quanto peso possa aver avuto agli occhi di zio Semėn questa osservazione, sia perché pronunciata nel momento di una cebrazione familiare, quando tra i suoi figli si trovava l'immortale, sia perché zio Pavel era l'unico, oltre ad Annuska e a una nuora svampita, ad aver visto con i propri occhi il greco, e quindi in grado di confermare che lo sfavillante greco, quel greco ispirato, oh, è ora, certo, è ora di citarne il nome: Antipatros, che Antipatros "inventato da Semėn dalla testa ai piedi", come assicurava a tutti gli zii Annuska, capace di mandare al manicomio il figlio segreto con la sua furbesca smemoratezza, effettivamente era esistito. Non c'è neppure bisogno di dire come questa osservazione abbia messo le ali ai piedi a zio Semėn, eccitandone l'immaginazione e toccandolo al punto che era pronto a perdonare, seduta stante, tutte le sue offese al maldicente zio Pavel, che in più occasioni in presenza di Annuska e di Malach aveva smentito sue precedenti altrettanto focose testimonianze, affermando di non essersi mai incontrato con il misterioso greco né sotto la tenda del circo ondeggiante al vento, intessuta tutta di stelle favolose, né nel giardinetto davanti alla Cancelleria, dove le chiome dei pioppi primaverili scintillavano dei soffusi barbagli di luce provenienti dalla finestrella del sotnik di guardia fino al riecheggiare dei primi risoluti colpi di ramazza o del quieto tram a cavalli del mattino, né in alcun altro luogo. "Poiché il greco" giurava zio Pavel sulla Santissima Vergine, "è un personaggio impossibile e sommamente fantastico..."

Va tuttavia aggiunto che la felicità di zio Semėn fu comunque offuscata da una spiacevole circostanza. Il fatto è che l'evocazione del greco non poteva ormai né indignare, né sconvolgere, e neppure turbare l'immortale. Era ormai un'epoca in cui, pur non essendo ancora privo dell'udito, Malach non possedeva più l'abilità di distinguere i suoni delle parole da altri, meno ricchi di significato e non altrettanto intriganti (dal ronzio di una mosca al cigolio di una porta) e conseguentemente, ahimè, neanche la capacità di esprimersi in maniera compiuta. Dell'enorme mole di parole che un tempo gli erano note, e che tutte aveva dimenticato, conservava nella memoria solo il dolce fruscio di 'giraffa' e l'incomprensibile a tutti 'eccheche'. Per zio Serafim, in realtà, non comportava eccessive difficoltà l'interpretazione di questo curioso 'eccheche'. Com'era capitato, ad esempio, a Natale, quando ci si preparava all'arrivo del perennemente cupo Kikiani o dei sempre festosi e chiassosi Jacques e Claude con particolare eccitazione, che andava aumentando man mano che si accentuava, facendosi sempre più distinto e turbinoso, quel tripudiante, composito profumo natalizio che dal mattino riempiva la casa e nel quale si distinguevano in alternanza gli assolo degli aghi d'abete estenuati dal calore delle stanze, quelli delle bollenti torte di mele, del parquet lucidato con mastice al pistacchio, dei mandarini umidi e freschi. Malach, estratto solennemente dal bugigattolo già al mattino presto, e da tutti dimenticato per un po', aveva afferrato a un tratto per la manica zio Serafim, che si affrettava verso il luogo dello scatto (la parte occidentale della sala esagonale) per dare una qualche "fondamentale" disposizione e, indicando l'alto abete dalle lunghe, piatte zampe sospese, aveva esclamato:

"Eccheche!!"

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Pagina 75

Fu allora che con uno spintone spalancò, in preda a un eccesso di rabbia (o era un attacco di furente curiosità?) una porticina dai cardini arrugginiti, tutta corrosa dalle tarme e nascosta in una bassa nicchia muschiosa di una sala piuttosto insignificante, quella stessa porta — o trionfo del caso! — dietro la quale si trovava il bugigattolo di Malach.

Nel bugigattolo, appena lo ebbe illuminato con la lampada a cherosene, zio Serafim vide il mantello di lana con le mostrine da campo con il quale, un tempo, nelle sere d'inverno Malach era solito vagare per le camere meridionali non riscaldate, vide il suo alto cappello screziato di agnello di Persia, docilmente adattatosi a convivere con i più sudici stracci, e qualche istante dopo, esaminando alcuni quadri pieni di crepe, sui quali erano per lo più rappresentati invulnerabili cavalieri con baffi favolosamente floridi e cosce monumentali, che facevano strage di fanti con magnifiche daghe, chi con allegra baldanza, chi con cupa ferocia, chi con sprezzante eleganza, si imbatté in Malach in persona.

L'immortale dormiva di un sonno inaccessibile e profondo ma, come sembrò a zio Serafim, tutt'altro che insensibile. A tratti si accigliava, turbato o tormentosamente deluso da qualcosa, a tratti mostrava stupore e paura. Quei sogni mutevoli, che dovevano però essere assai nitidi, gli si svolgevano davanti in un inesauribile corteggio, senza lasciare neppure un piccolo spiraglio per un risveglio improvviso o per la lenta irruzione della maestà del nulla. Attiravano con insistenza Malach nelle loro vicende di ingannevole molteplicità, astutamente intricate; lasciando intravedere un esito felice, lo trattenevano nel loro flusso travolgente ed esiguo, serrato minacciosamente tra due imponenti rive, i possedimenti della vita e della morte; gli promettevano, forse, di colmare munificamente tutto il suo essere, in un punto qualsiasi, appena oltre la prima ansa, di un'inesprimibile beatitudine che non si può provare su nessuna delle due rive, privilegio esclusivo delle evanescenti visioni. Ma tutto faceva pensare che in quei mutevoli sogni qualcosa di mesto e opprimente insorgesse con ben maggiore intensità della forza effimera, fluttuante e misteriosamente inebriante che in un primo istante faceva sussultare l'impotente sognatore, e poi destava in lui un sorriso estasiato, che illuminava improvvisamente il suo volto coperto di spenta peluria arruffata e spariva poi senza lasciare traccia, come la vampata d'argento trasparente di un pesce che sguscia nelle acque scure di un sonnolento laghetto...


Solo in prossimità dell'alba zio Serafim riuscì a svegliare l'immortale. Malach non lo riconobbe. Sembrava quasi non si sforzasse neppure di riconoscerlo, sebbene lo fissasse con uno sguardo accigliato e ostile, muovendo con rimprovero un sopracciglio, impunemente esplorato da un intraprendente ragnetto. Con questo sguardo ostile sembrava voler spaventare o, quanto meno, confondere Serafim. Questo, al contrario, guardava il genitore ridesto con allegra, accentuatamente benevola cordialità, "senza dar mostra di imbarazzo alcuno", come avrebbe poi raccontato ad Annuska, anche quando una cupa inquietudine si impadronì a tal punto di Malach che, "credetemi, mammetta!", cominciò addirittura a ringhiare... O diavoli immondi! Si mise a ringhiare contro zio Serafim, che da parte sua era tutt'altro che completamente tranquillo, era anzi agitato, e anche molto, trovandosi però in quella particolare disposizione nella quale nessuna forza, racchiudesse pure tutta la furia e la ferocia dell'inferno, avrebbe potuto privarlo del suo equilibrio, e dunque non poteva certo essere un ringhio a spaventarlo, allarmarlo o suscitare in lui il pur minimo turbamento. Insomma, zio Serafim era già stato colto da un attacco di mirabile imperturbabilità. Nella speranza che il genitore notasse qualcosa almeno un po' familiare nel suo aspetto, socchiudendo gli occhi con tenero pudore, ora sollevava sopra la fronte gli occhiali, sottili anch'essi e, si sarebbe detto, pure loro socchiusi, ora li rimetteva a cavallo del naso arrossato, si spettinava i capelli, si stuzzicava un baffetto sottile, si girava animatamente, mostrandosi da tutte le angolature... Ma in nessun modo scompariva, non si dissolveva, né mutava ciò che, evidentemente, teneva in apprensione l'immortale: le immagini della realtà, che all'improvviso avevano nascosto a Malach il mondo prodigioso delle fluttuanti visioni, e ancora a lungo avrebbero continuato a stupirlo per la loro insolente persistenza e banale chiarezza.

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IL CORTILE DEL BISNONNO GRISA



Stupido



Il bisnonno Grisa non andava mai a dormire perché da tempo immemorabile non distingueva il giorno dalla notte, il sonno dalla veglia e da tempo aveva perso il conto dei suoi anni: verso la fine dimenticò pure il suo nome. Gli capitava di sonnecchiare, ma soltanto seduto al tavolo della sua casetta quando, girellando qua e là per il cortile, ci capitava dentro per caso. Si sistemava su uno sgabello, appoggiava i pugni sul tavolo, ci sprofondava la fronte e rimaneva seduto così per ore. Poi andava di nuovo in cortile, di filato dalle api, dove si metteva a trafficare un po', le affumicava con la pipa da apicoltore, esponeva i favi alla luce. Entrava nell'alveare senza bardature: niente cappello con la retina. Le api lo pungevano sul collo, sulle orecchie, sul naso, e lui non sentiva le loro punture: ma brave, divertitevi, divertitevi pure...! Estraeva dall'alveare le celle foderate di scuri grappoli in movimento, le sollevava e guardava il sole attraverso i favi, colmi di luminoso ben di Dio. Qualche volta in quei momenti ero lì vicino (non sempre mi riusciva di intrufolarmi nell'alveare attraverso la macchia di rose tea che deflagravano, ostili di schegge ronzanti e ambrate), e allora il timoniere mi contemplava sorpreso, chiedendosi a lungo che pennuto fossi, e sbucato da dove, se dal covile, dal pollaio o direttamente dell'uccelliera. Io ero sbucato cinque anni prima dall'abisso, sul cui bordo stava lui, in piede. Mi guardava mentre mi risvegliavo dal sopore uterino e scrutavo punti casuali dell'universo sfuggente: le macchie luminose degli alveari variopinti, le api corpulente coi loro stivaletti gialli vellutati di polline, le libellule eleganti e le lucertoline timide e tenere, le rose fragranti, la camera da letto fresca (cos'altro?), la polpa calda e profumata della resina sul tetto della cantina, i cumuli di sabbia davanti al portone. Queste isolette serene e splendenti gettavano luce sull'oscurità del caos imperscrutabile. E io guardavo lui, il mio punto cardinale, la divinità errante, sprofondare lentamente nel baratro del non essere. Guardavo la sua enorme testa calva, coronata ai lati da due gomitoli di capelli che da lontano somigliavano a dei cornetti, mentre da vicino ci potevi scorgere impigliati come in una ragnatela, api, tarli, formiche, libellule, e altri insettucci frammisti a fiorellini, foglie e ogni genere di pattume. Quando il timoniere è morto, seduto al suo tavolo nella posa di sempre, quest'universo ha seguitato a brulicare ancora per un po' tra le sue ciocche canute, vivendo di vita propria. Č morto sul far dell'alba, colto da un'improvvisa sonnolenza. Ricordo che la bisnonna Anis'ja entrò nella casetta e ne riuscì subito di corsa. Ricordo che, dopo qualche tempo, ci entrò nuovamente e iniziò a farfugliare qualcosa di indistinto, ciabattando alle spalle del bisnonno e voltandosi di continuo dalla sua parte. Alla fine si fermò e iniziò a scrollare il capo svelta svelta, quindi, sporgendo in avanti la testa a ogni fiato, sbraitò, gracchiandogli proprio sulla nuca:

"Stupido! Stupido! Sei morto! Ah ma che stupido!"

A un certo punto si voltò e uscì nell'ingresso, dove rumoreggiò a lungo sbatacchiando secchie e porte. Poi di scatto gettò un'altra occhiata nella stanza. Il bisnonno era ancora lì, seduto al tavolo, la fronte affondata tra le mani. Si precipitò verso di lui e con voce ancora più ferma ripeté:

"Stupido!"

Il primo venticello del mattino scompigliò le ciocche sulla testa del timoniere: i capelli avevano perso l'elasticità e se ne andavano da ogni parte per conto loro. Dalla finestra aperta incedeva, volteggiando, una processione di api. Turbinavano, disegnando con l'ombra sul suo capo un'aureola vivente. Sedevano a turno sulla calvizie abbrunita (ma brave, divertitevi, divertitevi pure...!) e poi, dopo aver piroettato una danza tortuosa, volavano fuori, e si levavano nel cielo, dove biancheggiava triste l'esile luna.

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