Copertina
Autore Patrik Ourednik
Titolo Oggi e dopodomani
SottotitoloDiscorsi di cinque sopravvisuti
Edizionedue punti, Palermo, 2011, Terrain vague 33 , pag. 106, cop.fle., dim. 11,2x16,5x0,7 cm , Isbn 978-88-89987-63-6
OriginaleDnes a pozítří. Rozhovory pěti přeživších
TraduttoreAndrea L. Carbone, Patrik Ourednik
LettoreGiovanna Bacci, 2012
Classe teatro ceco
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Indice


OGGI E DOPODOMANI                    7

Scena I                              9

Scena II                            31

Scena III                           59

Scena IV                            77

Epilogo                            101


 

 

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Pagina 9

Un pavimento di legno grezzo. Al soffitto, una lampadina con un paralume dozzinale. A destra, tre sedie disposte a semicerchio intorno a un termosifone elettrico su cui è posato un portacenere. A sinistra, in primo piano, una tavola su cui si scorgono i resti di un pasto, dei barattoli di conserve ecc. oltre che una radio a transistor antidiluviana con l'antenna spiegata. A sinistra, in fondo, un letto a castello e un appendiabiti di legno curvo, stile Thonet. Una pendola sospesa dietro il letto segna le 11 e 55. Il mobilio nel complesso e le stesse suppellettili dànno l'impressione di un ambiente spogliò. Pure, l'insieme che formano è coerente.

Giovanni e Carlo occupano due sedie. Andrea si aggira per la stanza con una scopa in mano, ma con ogni colpo di scopa non fa altro che sollevare la polvere un po' dappertutto.


CARLO — Lascia stare. Hai già spazzato stamattina.

ANDREA — Rimane quest'angolino qui. (Scopa sotto il letto) Ma che cos'è? (Si china e raccoglie qualcosa) Una penna. Qualcuno si sarà addormentato mentre scriveva. (Pausa) È una pubblicità. C'è scritto su qualcosa.

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Pagina 15

GIOVANNI — (Riprende il filo del discorso) Sei stato tu a voler entrare.

CARLO — Perché la strada finiva qui.

GIOVANNI — Come fai a saperlo? Non abbiamo fatto il giro.

CARLO — Lo so e basta. La strada andava fino al portone, non oltre.

GIOVANNI — Saremmo potuti tornare indietro.

CARLO — Per andare dove?

GIOVANNI — Che ne so? Tornare sui nostri passi.

CARLO — È stupido.

GIOVANNI — Poco fa dicevi che è stupido entrare in un posto che non si conosce.

CARLO — Dicevo in generale.

GIOVANNI — E ora dici che è stupido tornare indietro.

CARLO — Ora parlo in particolare.

GIOVANNI — Vedo.

CARLO — La verità non è mai assoluta. Ci vuole particolarità.

GIOVANNI — Particolarità!

CARLO — Perché? Non si può dire? Tipo andare nei particolari.

GIOVANNI — Il fatto è che la verità che ci riguarda, qui, vale solo nei particolari. Il mondo è scomparso, la gente è sparita, la strada va verso l'interno, ma non verso l'esterno. Siamo qui da tre giorni, e ancora non sappiamo che cosa succede.

CARLO — Ma qua si sta bene! Abbiamo sedie per sederci, una tavola, un letto e un bel po' di provviste. Che altro ci serve?

GIOVANNI — Sapere che è successo.

CARLO — L'hai appena detto. Il mondo è scomparso, e la gente è sparita. Forse siamo chiamati a fondare un mondo nuovo, più giusto e più umano, che ha imparato la lezione dagli errori del passato.

GIOVANNI — Con tre maschi non sarà facile.

CARLO — È vero. (Pausa) Andrea è checca.

GIOVANNI — Sarà, ma non per questo si metterà a sfornare figli.

CARLO — Non volevo dire questo, ma... (Pausa) Io una volta l'ho fatto con una capra.

GIOVANNI — Che capra?

CARLO — Erano le vacanze. Si chiamava Bianca. Una capretta, eh, non era una vecchia barbuta. Avevo tipo quindici anni. In origine, vengo dalla campagna.

GIOVANNI — E com'era?

CARLO — Bello. La gente racconta un sacco di cretinate. Alla capra non gli dispiace, allora...

GIOVANNI — A me dispiacerebbe, se fossi una capra.

CARLO — Se fossi una capra, avresti gli attrezzi in un altro modo.

GIOVANNI — Sarà, ma comunque.

CARLO — E vedresti anche le cose in un altro modo.

ANDREA — (Torna) Beh, ho origliato, e in effetti qualcosa l'ho sentito, ma non era qualcuno che bussava, piuttosto direi una sorta di ululato.

CARLO — Vuoi dire dei lupi?

ANDREA — No, non lupi. Come dei fischi.

GIOVANNI — Insomma, un ululato o dei fischi?

ANDREA — Tutt'e due. Una specie di ululato fischiettante.

CARLO — Allora ci sono i lupi e i topi.

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Pagina 19

SIGNORI — (A Giovanni) Il signor Andrea, il signor Carlo, e il signor...?

GIOVANNI — Giovanni. Giovanni Rosati.

SIGNORI — I signori Andrea e Carlo, il signor Giovanni Rosati e il dottor Signori. Amici miei, è molto probabile che siamo gli ultimi rappresentanti del genere umano in questa terra desolata.

CARLO — (Indicando il pubblico) A parte quelli.

SIGNORI — Quelli, come dice lei, sono solo un'illusione. Non dimentichi che siamo in un teatro. E cos'è il teatro se non un'illusione, un miraggio, una chimera, una fantasmagoria? Il teatro è un mondo, il mondo è un teatro, conosce il ritornello. Il teatro, sogno incantatore, il mondo, incubo funesto.

GIOVANNI — Illusione o no, loro almeno possono prendere baracca e burattini e tornarsene a casa. Noi no.

SIGNORI — Perché noi no?

ANDREA — La porta si apre solo verso l'interno. Non si può uscire.

SIGNORI — Capisco. Ecco un problema interessante. Ma lasciamo perdere questa gente (gesto). Se si vuole ragionare razionalmente, bisogna attenersi ai fatti. E i fatti ci dicono che qui, a parte noi, non c'è nessun altro. (Pausa) Non so cosa ne pensiate voi, ma, personalmente, provo un certo orgoglio quando mi dico che gli ultimi testimoni degli ultimi istanti del pianeta Terra sono quattro italiani. (Felice) I signori Andrea e Carlo, il signor Giovanni Rosati e il dottor Signori. Eppure, da un punto di vista puramente statistico, i cinesi (calcola) avevano ventidue volte più possibilità di noi. Gli indiani (calcola) diciotto volte. Gli americani... (calcola, mentre gli altri lo ascoltano interdetti) cinque volte. Quanto ai nostri amici tedeschi, che nei secoli ci hanno dato tanto filo da torcere... più o meno una volta e un quarto. Naturalmente se ci basiamo sul fatto che gli italiani erano cinquantaseimilionicentotrentatremilatrentanove all'ultimo censimento. Ma le statistiche sono una cosa e la resistenza di un popolo un'altra. Noi italiani siamo sopravvissuti a tutto. E la nostra presenza, qui, da un punto di vista simbolico è qualcosa di inaudito.

GIOVANNI — (Si schiarisce la voce) A questo non siamo ancora sopravvissuti.

SIGNORI — Ah beh... (gesto).


Pausa.


CARLO — Quel che ci servirebbe, è una pollastra.

SIGNORI — Eh magari. Ma come facciamo a sapere se è disposta a diventare la nuova Eva.

CARLO — Me ne sbatto del nome. Una pollastra, punto e basta.

SIGNORI — La speranza è l'ultima a morire, naturalmente. Si può ancora sperare, si può ancora credere in una ripresa inaspettata. È più comodo, e più gradevole. Poco probabile, ma gradevole. Non pensare e sperare. Pensare fa soffrire, la fede dà forza.

CARLO — A me pensare non mi fa soffrire.

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Pagina 38

Tranne Giovanni, tutti spalmano marmellata sui biscotti e bevono tè. Andrea ha preso per sé a mo' di tazza il vasetto di marmellata vuoto.


GIOVANNI — (Sorseggia il tè ma non mangia) Che gli è successo?

SIGNORI — A chi?

GIOVANNI — Al mondo.

CARLO — Il mondo è scomparso.

GIOVANNI — E alla gente.

SIGNORI — La gente è sparita.

GIOVANNI — Le sembra normale?

SIGNORI — Difficile a dirsi. (Mangia un biscotto e riflette) A voler essere conseguenti, sì. (Pausa) In fin dei conti, non è escluso che non sia la prima volta. Che tutte le fini del mondo via via predette ci siano state davvero, nel Novecento, nell'Ottocento, nel Seicento, nel Trecento, nell'anno Mille eccetera. Forse ci sono state, ma nessuno se n'è accorto, ecco tutto. E magari nessuno si accorgerà neppure di questa fine del mondo, voglio dire, nessuno a parte noi. Quanto a noi, sarebbe un po' difficile non accorgersene, dato che siamo gli ultimi esseri viventi su questo pianeta che un tempo fu chiamato Terra. Ma forse tutto ricomincerà senza di noi, altrove, dall'inizio alla fine, e nessuno se ne accorgerà, ancora una volta. Forse addirittura tutto ricomincerà proprio qui, e magari noi ne faremo parte, ma nel frattempo avremo dimenticato di essere stati testimoni della fine del mondo, e ci convinceremo che il mondo è questo, questa stanza, questa tavola, questo letto, queste tre sedie e questa porta che non vuole aprirsi, almeno verso l'esterno. E forse dimenticheremo cosa vuol dire la parola porta, e la parola aprire, cosa vuol dire uscire, essere fuori ed essere dentro. (Pausa) Un mondo nuovo, sgombro del ricordo di quello vecchio. L'amnesia è chiaramente condizione della rinascita. Abbeverarsi alla fonte del Lete è pur sempre un bene. (Pausa) Oppure, forse, nessun mondo è mai esistito, forse non era altro che una proiezione delle coscienze, un modo per riempire, al contrario, le nostre memorie. Riempire, farcire, condire, imbottire. Radura dell'essere, o nulla dell'essere. La memoria aborre il vuoto, e forse in realtà ha inventato una radura nel nulla.

CARLO — Ah beh non lo so cosa s'è inventato la sua, ma io ho una memoria perfetta. La radura non mi serve. Anzi, per dirla tutta, non so neppure che cos'è una radura.

SIGNORI — Una radura? Un'apertura, un varco, un transito. Una particella di chiarore in una selva oscura. Una presenza calorosa. Il paradiso dei coleotteri termofili. Un raggio di sole sull'humus della vita. Humus, humanus, all'inizio erano la stessa cosa.

CARLO — Io mi ricordo cose di quando ero bambino che ha dimenticato perfino mia madre.

GIOVANNI — Lascialo parlare.

CARLO — Ma non la finisce più. Sai che me ne sbatte a me, del nulla. Siamo qui, no? E ci stiamo bene, no? (Pausa) La fine del mondo non c'entra niente col nulla, o che so io. La fine del mondo, è come la fine di un film in tv. Vedi scorrere i titoli di coda, spegni il televisore e ti dici: «Era una merda, ma forse il prossimo sarà meglio».

SIGNORI — È un'idea intrigante.

CARLO — (Compiaciuto) Eh, sì. Basterebbe una sola gattina.

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