Autore Otto Pächt
Titolo Van Eyck
SottotitoloI fondatori della pittura fiamminga
EdizioneEinaudi, Torino, 2013 , pag. 272, ill., cop.rig.sov., dim. 22,5x27,8x2 cm , Isbn 978-88-06-20748-9
OriginaleVan Eyck. Die Begründer der altmiederländischen Malerei [1989]
CuratoreFabrizio Crivello, Maria Schmidt-Dengler
PrefazioneArtur Rosenauer
TraduttoreCristina Spinoglio
LettoreCristina Lupo, 2017
Classe arte , critica d'arte , storia dell'arte












 

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Indice


 VII  Elenco delle illustrazioni
XVII  Nota all'edizione italiana di Fabrizio Crivello
 XIX  Presentazione di Artur Rosenauer

    Van Eyck

  3 Introduzione

    - I pittori dei Paesi Bassi come esponenti dell'arte francese intorno al 1400.
    - «Ars Nova».
    - Colore, luce e ombra: un nuovo utilizzo.
    - Il Maestro di Flémalle.
    - Il problema Flémalle-Campin.
    - Innovazioni rivoluzionarie dell'arte evckiana.
    - La Madonna di Lucca e la Madonna di Jacquemart de Hesdin: un confronto.
    - L'immobilizzazione dello sguardo.
    - Il primato della pittura.
    - La conservazione dello stile proprio delle opere riprodotte.
    - Eterogeneità del Polittico di Gand.
    - L'immagine riflessa per attirare lo sguardo dell'osservatore.
    - Prospettive empiriche.
    - Presupposti regionali e storici dell'arte fiamminga.
    - Carattere di natura morta della pittura di Jan Van Eyck.


 33 I.   Il Maestro di Flémalle

         [...]


 89 II.  Jan Van Eyck

         [...]


129 III. Il Polittico di Gand

         [...]


191 IV.  Il problema di Hubert Van Eyck e il Libro d'Ore di Torino

         [...]


249 Il capolavoro dei fratelli Van Eyck (inserto apribile)
251 Note
257 Bibliografia
261 Nota del curatore dell'edizione tedesca
263 Postfazione di Fabrizio Crivello
267 Indice dei manoscritti
269 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 3

Inroduzione



Con la trionfale vittoria del Gotico, agli occhi di tutta Europa la Francia aveva acquisito in ambito artistico una posizione di supremazia: il dialetto dell'Île-de-France era diventato la lingua universale e, nella sfera artistica, Inghilterra, Germania, Spagna e, fino a un certo livello, persino l'Italia erano diventate province francesi. Ma già nel XIV secolo cominciarono a manifestarsi forze tendenti alla decentralizzazione. Questa fu l'epoca in cui, da un punto di vista socioculturale, si compí un cambiamento di piú grande portata. La Chiesa non fu affidataria ancora per molto delle principali commissioni artistiche: il mecenatismo secolare aveva cominciato a superarla. Certo, si fondavano e costruivano ancora monasteri e chiese grandiose, ma l'avanguardia artistica non si manifestò piú nei cantieri delle cattedrali, bensí negli atelier che furono al servizio dei potenti laici, e dovettero garantire dignità alle residenze di corte. E certamente non fu solo la corte del re di Francia che attirò le forze migliori; nella seconda metà del secolo entrarono in pacifica competizione con Carlo V i suoi fratelli e il figlio, i duchi d'Angiò, Berry, Borgogna e Orléans. Essi crearono nuove metropoli artistiche, in cui presto si respirò un'aria piú fresca che in quella Parigi gravata dalla tradizione.

Chi si recava in queste colonie di artisti nelle corti di Angers, Orléans, Bourges e Digione deve però aver ben presto fatto la sorprendente constatazione che la lingua madre della maggioranza di coloro che là creavano non era per nulla il francese. Verificando nei rendiconti di bilancio e simili documenti delle corti dei principi, non può cosí rimanere nascosto un fatto, ovvero che prevalgano nomi stranieri, come Melchior Broederlam da Ypres nelle Fiandre, André Beauneveu da Valenciennes, Claus Sluter e Claus de Werve, suo nipote, da Haarlem, Henri Bellechose dal Brabante, Jacques de Baerze e Jean de Marville dalla regione della Mosa, Jean Maelwael (Malouel) e i suoi tre nipoti, i fratelli Limbourg, dalla Gheldria. In breve, la grandiosa fioritura artistica delle corti principesche francesi nel periodo intorno al 1400 è soprattutto opera di fiamminghi, valloni e olandesi. Però lo stile di quest'arte di corte è notoriamente cosmopolita, una parte del fenomeno che si definisce con il termine di «Gotico internazionale»: quell'uniformazione senza precedenti del linguaggio artistico di tutti i piú rilevanti centri d'Europa, dalla Boemia alla Catalogna, dall'Inghilterra fino alla Lombardia. Non sorprende che artisti originari dei Paesi Bassi non avessero difficoltà ad amalgamarsi al milieu francese, senza dover sacrificare del tutto le loro caratteristiche. L'internazionalizzazione fu parte della tendenza dell'epoca. In ogni caso, la loro opera si adattò del tutto alla tradizione francese: ciò che essi crearono fu nient'altro che una variante dell'arte francese. Tuttavia, nella generazione successiva i talenti dei Paesi Bassi trovarono nel proprio paese un adeguato campo d'azione e, al posto di un dialetto francese, si arriva alla formazione di un linguaggio artistico specifico dei Paesi Bassi. I fratelli Limbourg, sebbene originari di questa regione, rappresentano lo stile di corte francese, e per di piú in una variante molto italianeggiante (fig. 96, p. 159). Però a nessuno verrebbe in mente di considerare il Maestro di Flémalle oppure Jan Van Eyck come esponenti di un Kunstwollen francese, perché hanno dipinto per la corte di Borgogna, per la Borgogna e in Borgogna.

Nella piú antica descrizione del Polittico di Gand, redatta da un umanista di Norimberga di nome Hieronymus Münzer, che nel 1495 viaggiò nei Paesi Bassi e registrò in un diario le sue esperienze e impressioni, incidentalmente viene detto: «E ogni cosa è dipinta in modo meraviglioso e con ingegno cosí artistico, che là vedresti non solo un dipinto, ma tutta l'arte della pittura [...]». Egli aveva esattamente elencato gli oggetti della rappresentazione, e aveva parlato persino delle «octo beatitudines» invece che dell'Adorazione dell'Agnello Mistico. In questo Münzer aveva probabilmente ripreso il commentario colto, oggi si direbbe iconologico, dell'ecclesiastico che lo condusse davanti all'altare. E si affretta poi ad aggiungere ciò che - in base al significato - si potrebbe formulare all'incirca cosí: in questo dipinto non è straordinario ciò che è rappresentato, ma il come. Ogni elemento è raffigurato in modo che, guardando il dipinto, non si vede solo il polittico ma tutta l'arte della pittura. Riecheggia come un'anticipazione di un atteggiamento dell' art pour l'art. Con uno sguardo storico retrospettivo, dobbiamo in ogni caso dire che con la sua osservazione Münzer ha colto nel segno.

Dunque, nel periodo immediatamente precedente al completamento del Polittico di Gand nel 1432, non solo è nato un modo di dipingere completamente nuovo e un nuovo concetto della raffigurazione dipinta, il concetto che da allora ci è entrato cosí tanto nella carne e nel sangue, che lo si considerò a torto, fino alla comparsa dell'arte contemporanea, come l'unico possibile. Allora è stata anche scoperta - e questo fu persino l'elemento determinante - una nuova bellezza, liberata da vincoli ideologici, non fondata in un qualche valore metafisico e ideale religioso, bensí una bellezza ricavata nel modo piú immediato possibile dal mondo visibile, dalle apparenze colorate. Che si fosse davanti a una «Ars Nova» i contemporanei se ne resero subito conto, anche all'estero, e in particolare in Italia: qui i dipinti fiamminghi trovarono rapidamente degli estimatori, benché la creazione artistica locale rispondesse a ideali estetici totalmente differenti, e un pezzo di pittura dei Paesi Bassi si annoverava tra gli oggetti da collezione piú ricercati. Come un pezzo di marmo, anche se si tratta solo di un piccolo frammento, di un torso di una statua greca rivela l'incomparabile arte di uno scalpello greco, cosí bastano un paio di centimetri quadrati di una superficie dipinta da un pennello dei Paesi Bassi per identificare l'unicità incomparabile e inconfondibile della maniera di dipingere, ancora prima di aver visto la composizione o riconosciuto l'oggetto (fig. 52, p. 94).

Gli scritti piú antichi di storia dell'arte, quelli italiani, avevano dato già prima del Vasari una risposta piuttosto semplice alla domanda in che cosa sia consistita realmente l'«Ars Nova» della pittura eyckiana; in definitiva, una spiegazione materialistica. Essa afferma: Jan Van Eyck è l'inventore della pittura a olio. Una scoperta tecnica sarebbe dunque stata l'impulso alla nuova fondazione della pittura, e avrebbe dato vita a ciò che noi oggi intendiamo con dipingere. Questa tesi è già apparsa insostenibile a Lessing, al grande demistificatore della storia del pensiero. Egli trovò che nei trattati del pieno Medioevo, come in quello di Theophilus presbyter, si parla della mescolanza di colori e olio, e concluse che «la scoperta di Johann von Eyck, per cui il suo nome è stato menzionato con cosí grande fama per piú di duecento anni» andrebbe totalmente contestata. Lo scritto di Lessing, Vom Alter der Oelmalerei, si conclude con le perspicaci parole: «E chi può sapere quanti dipinti, che risultano [quindi] anteriori al 1400, potrebbero già trovarsi ancora nelle vecchie chiese e si dovrebbero ritenere però come autentici dipinti a olio, se solo a questo scopo si potessero formulare esami attendibili!».

Nel periodo seguente le indagini sulla tecnica pittorica tardomedievale, eseguite con il perfezionamento crescente dei metodi delle scienze naturali, hanno provato che lo scetticismo di Lessing era del tutto giustificato. Le oleoresine come agglutinante furono infatti già in uso prima degli Eyck; di conseguenza, la storia del Vasari sull'invenzione della pittura a olio da parte di Jan costituisce perlomeno una rozza semplificazione dello stato di fatto. Per la storia dell'arte di stretta osservanza storico-stilistica essa non fu niente piú che una pia leggenda e un esempio di spiegazione aneddottica della storia. All'inizio del nostro secolo si è tentato ancora una volta di salvaguardare, anche se in parte, l'antica favola della storia dell'arte. Nei Beiträge zur Entwicklungs-Geschichte der Maltechnick, Berger vuole individuare il segreto del metodo pittorico eyckiano nell'applicazione di una tempera a olio. Essa avrebbe consentito una pluristratificazione di colore e vernici protettive. Anche questa proposta non ha affatto convinto, tanto piú che il suo autore non ha potuto richiamarsi a una verifica pratica sulle opere principali della nuova pittura. E poi lo stato di conservazione del Polittico di Gand, diventato estremamente precario a causa dello spostamento subito nel corso della Seconda guerra mondiale, rese necessario un restauro approfondito, e diede cosí finalmente l'opportunità di interrogare l'opera stessa. Il rapporto della commissione di indagine e di restauro, che operò con l'apparato tecnicamente e chimicamente piú avanzato su ognuna delle venti tavole, in merito ai leganti eyckiani riuscí soltanto ad affermare che fosse presente un olio essiccante con un additivo X. Sull'additivo X tuttavia, oggi non si potrebbe piú fare alcuna considerazione. In un punto sembra quindi che l'antica leggenda abbia ragione: Jan Van Eyck ha portato il suo segreto nella tomba.

Nel suo zelo di rifiutare a limine il tentativo di presentare una nuova creazione cosí epocale, come quella della pittura negli antichi Paesi Bassi, come risultato di una scoperta tecnica, la storia dello stile non si è accorta per molto tempo di aver buttato via il bambino con l'acqua sporca. Ha tralasciato un confronto critico con le osservazioni molto piú concrete e irrefutabili alla base della nascita della leggenda dell'invenzione della pittura a olio. La questione che si pone è quella della particolare brillantezza della superficie pittorica delle opere eyckiane e, in generale, dei dipinti degli antichi Paesi Bassi. Già Vasari ha citato il momento decisivo: con la sua miscela di colori a olio, Van Eyck avrebbe ottenuto una tempera molto forte che, essiccata, non solo non soffriva i danni dell'acqua, ma accendeva i colori con tale forza «che gli dava lustro da per sé senza vernice». Quindi colori luminosi in se stessi. Ecco dunque un'indicazione sull'obiettivo che potrebbe essere stato perseguito con misteriosi ausili tecnici.

In altri termini, il problema non è quello dell'invenzione della pittura a olio, ma quello dell'emergere della coscienza che luce e ombra sono un coefficiente di ogni manifestazione colorata. Gli studi hanno da tempo constatato che nella pittura medievale non esiste una sola figura che proietti un'ombra. Queste nozioni non erano note al pittore italiano che, intorno alla metà del XIX secolo, restaurò gli affreschi di Giotto nella cappella Bardi e che, come è stato dimostrato, ha completato lacune molto considerevoli. Cosí, fino a poco tempo fa, la raffigurazione della sepoltura di san Francesco e quella della miracolosa apparizione del santo mostravano evidenti ombre portate, che la storia dell'arte credette di dover registrare come l'esempio piú precoce di una resa di questo fenomeno a partire dall'antichità. Nel de-restauro realizzato alcuni anni fa le ombre portate si rivelarono tuttavia come un'aggiunta del restauratore, che aveva inconsapevolmente reso Giotto il vincitore dell'assenza di ombre del Medioevo.

Da allora per noi è diventato chiaro che Masaccio in Italia e, contemporaneamente, i fondatori della pittura degli antichi Paesi Bassi nel Nord hanno fatto della resa dell'ombra portata un obbligo necessario alla raffigurazione; si può quindi affermare che solo allora i tempi per questa scoperta fossero maturi. Uno degli affreschi di Masaccio nella cappella Brancacci ha come oggetto la scena dagli Atti degli Apostoli in cui Pietro, passando, risana dei paralitici con la sua ombra (At. 5,15). Giustamente, è stato osservato che «la pittura del periodo precedente non avrebbe potuto rappresentare l'evento in modo percettibile». Nell'Annunciazione sulla parte esterna del Polittico di Gand, all'interno del dipinto vediamo cadere in obliquo sul pavimento triangoli d'ombra; essi possono provenire soltanto dai listelli della cornice che dividono le singole tavole dell'altare (fig. 110, pp. 184-85). Qui persino la sorgente d'ombra non cade insieme nella sfera della rappresentazione, ma si trova all'esterno del mondo della figurazione: viene rappresentata soltanto l'ombra, la manifestazione ottica concomitante.

L'ombra è un fenomeno complementare della luce. Nello stesso momento storico in cui si passa alla resa dell'ombra portata, non si è potuto fare a meno di rendere evidente anche il suo opposto, la luce, e viceversa. Per la prima volta dall'antichità, gli oggetti ora non sono visibili per cosí dire da se stessi, ma lo diventano perché su di essi cade una determinata luce, esistono - almeno per l'occhio - in virtú della luce. Ciò significa che d'ora in avanti deve essere rappresentata insieme la rispettiva situazione di illuminazione di una scena. Tuttavia non si deve ritenere che la pittura in precedenza non avesse affatto conosciuto luce e ombra come puri motivi oggettivi. Nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi si può vedere, su una delle pareti dipinte dal senese Pietro Lorenzetti, un precoce esempio di un trompe l'oeil, una panca che proietta un'ombra portata sulla parete. Per fingere che la panca sia realtà, non una raffigurazione, non una mera apparenza, viene eccezionalmente chiamata in causa l'ombra. La logica richiederebbe che, se al contrario la panca fosse stata pensata come contenuto figurativo, la resa di un'ombra non sarebbe stata necessaria. Come l'ombra nell'esempio di Assisi, cosí per una volta in un dipinto del Trecento fiorentino, l'apparizione dell'angelo ai pastori di Taddeo Gaddi (Firenze, Santa Croce, cappella Baroncelli), è rappresentato un fenomeno luminoso. Poiché deve adempiere a una precisa funzione narrativa, il giallo sulle vesti dei pastori eccezionalmente non è il colore del tessuto, ma luce riflessa; il resto del mondo della figurazione ne viene appena toccato. Nella nuova pittura del XV secolo ogni colore è un colore illuminato.

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