Copertina
Autore Paolo Pagani
Titolo La scrittura è un aeroplano
SottotitoloL'avventura intellettuale di otto grandi firme del giornalismo italiano
EdizioneLimina, Arezzo, 1997, Fine millennio 4
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe media
PrimaPagina








 

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Indice


Indice
VII Prefazione di Enrico Deaglio 1 Premessa 5 L'agente del cambio Incontro con Gianni Riotta 23 Asia Incontro con Tiziano Terzani 39 La scrittura è un aeroplano Incontro con Lucia Annunziata 57 La signora in rosa Incontro con Lietta Tornabuoni 71 Il genio e il travet Incontro con Ezio Mauro 87 Fuori dal nostro giardino Incontro con Maurizio Chierici 103 L'amico americano Incontro con Furio Colombo 119 Guerra partigiana Incontro con Michele Serra  

 

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Pagina 5

L'agente del cambio
Incontro con Gianni Riotta

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Pagina 7

Il «seminarista», qualcuno lo chiama così, conversa lievemente. Sembra più giovane, ma ha 42 anni. Filiforme, modi morbidi, mani pallide, occhi grandi nascosti da lenti più grandi ancora, timidezza si, ma compensata dalla consapevolezza di un valore intellettuale che ha trasformato in successo precoce l'adolescenza da «secchione». Gianni Riotta è un prodotto non prevedibile, eppure emblematico, di una generazione ambiziosa. Frequentazioni «alternative» e, col senno di vent'anni dopo, «giuste». Molta politica di base nell'età di ogni Bildung; la scelta dell'America, la fortuna, l'incontro con certi maestri-balie del giornalismo italiano all'estero: Ugo Stille, Furio Colombo, Gaetano Scardocchia. Anche adesso è coccolato. Gianni Riotta è un cronista che guarda lucidamente al futuro, suo e del mestiere che fa; è un giornalista-narratore, per di più parla e si muove da radical post-ideologico che più delle piazze ha bazzicato biblioteche. Ama le citazioni, scrive editoriali da prima pagina che mescolano l'erudizione allo snobismo di non sembrare colto: Omero e Roby Baggio qualche volta si incontrano sulle righe del suo computer. C'è molto calcolo, molto studio, nella scrittura e nella piega che ha preso la sua vita.

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Pagina 23

Asia
Incontro con Tiziano Terzani

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Pagina 25

Forse Tiziano Terzani viene quassù perché ha letto André Malraux, che nel romanzo partigiano I noci dell'Altenburg scrive: «La patria di un uomo che può scegliere è là dove arrivano le nubi più vaste». Orsigna è la classica deriva, un Oriente rovesciato, vicino, italiano. Terzani ci arriva una volta l'anno. Prima, quando lasciava la sua Turtle House di Bangkok, la «casa della tartaruga»; d'ora in poi, partendo da New Delhi, India, dove vive e scrive. Lontana dallo stupidario delle redazioni, lontana dalle salmerie vocianti di un giornalismo ordinario e prevedibile, Orsigna è un nido d'aquila sull'Appennino tra Emilia e Toscana. La dice lunga, questa casa, sul carattere, sul "mood" così poco italiano di chi la abita, ancorché saltuariamente. Nubi veloci e fradice strofinano i castagni d'inverno. Una luce chiara e rigida, precisa, molto diversa dall'alito dolciastro e pesante del Tropico, fa scintillare i boschi d'estate. Come in un affresco maestoso.

Giornalista coraggioso, «avventuriero» a mezzo stampa, intellettuale di mezza età (classe 1938), Terzani ha scelto da giovane. Anche di vestirsi sempre di bianco, come adesso e qui. Quasi una divisa di asciuttezza maoista. Da un quarto di secolo è corrispondente dello «Spiegel» tedesco dal Sud-Est asiatico. Collaboratore per il «Corriere della Sera», dopo anni e anni di «Espresso» e «Repubblica». Sulla guerra nel Vietnam ha pubblicato due libri introvabili considerati classici: Pelle di leopardo (1973) e Giai Phong! La liberazione di Saigon (1976).

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Pagina 39

La scrittura è un aeroplano
Incontro con Lucia Annunziata

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Pagina 41

«Patchouli» e filo di perle, bandane sudate e cashmere Armani, dal Nicaragua delle cartucciere ai lunghi pugnali di Saxa Rubra. Lungimirante lo strabismo, e non solo fisiognomico, di Lucia Annunziata, direttore di telegiornale Rai, il Tre, 46 anni, ex inviata di guerra, quattro anni da corrispondente per «Repubblica» a Gerusalemme, intermezzo per un master di giornalismo ad Harvard. Dopo, inviata del «Corriere della Sera» per Cose Italiane. E c'è la tv: la politica nostrana che cerca la Seconda Repubblica, raccontata a «Linea 3» dall'estate del 1995.

Diceva: «Troppe le quattro, cinque pagine al giorno di bla bla compiaciuto sulla politica. Tutti i colleghi vogliono stare a Roma, vogliono occuparsi di politica. Così fai carriera. Se scrivi da Potenza, in prima pagina non ci finisci mai. Perché? Perché i giornali non pensano di premiare la provincia oscura? Perché non decidono di valorizzare le cronache dalla periferia senza voce? Chi ci racconta la società italiana?».

Dice: «La politica, eccome se premia. L'Italia ha fame di politica, la politica interna è la mia vocazione, la politica fa audience». Qualcuno ha chiosato: «Un giubilante fraintendimento tende a chiamare carriera la loro ascesa al trono. Mentre tutto lascia credere che si tratti, al contrario, della fine di alcune carriere». Riferimento alle nornine dei tiggì dell'Ulivo, estate 1996: Annunziata e Brancoli (direttore che poi si dimise, in due mesi, dal Tg l). Chi ha ragione?

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Pagina 57

La signora in rosa
Incontro con Lietta Tornabuoni

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Pagina 59

Tutta colpa di Topolino. E di Humphrey Bogart. Quando si dice la dura legge di un mestiere senza leggi: in un vecchio album di Walt Disney (Topolino giornalìsta), qualcuno regala a Mickey Mouse un piccolo giornale di una piccola città e la bestiola bonifica a mezzo stampa la società dai prepotenti che spadroneggiano. Bogart, invece, faceva Hutcheson, il direttore di «Tbe day» (giornale coraggioso nel cui statuto si giura: «Non avremo maì timore di attaccare il male») in un filmone di Richard Brooks del 1952: Deadline Usa (in italiano, L'ultima Minaccia). Nella scena madre finaie, il gangster cattivo Ante Roszic è al telefono col «buono» Humphrey. Promette sfracelli se una certa inchiesta va in edicola. Il direttore mugugna dentro al ricevitore: «Senti?», «Cos'è, cos'è?», fa quell'altro fuori dai gangheri. «E' la stampa, bellezza, La stampa. E tu non puoi farci niente». Il fracasso delle rotative assicura il trionfo della libera opinione, la vittoria dell' hombre vertical, servo dei suoi lettori e basta.

«C'è sempre stato, nel mio modo di lavorare, una specie di punto di vista. Di sguardo particolare: l'idea che il giornalista dovesse essere un difensore civico. Lui ha le maggiori possibilità di accedere alle informazioni. A lui spetta il compito di procurarsele e di passarle a chi legge». Due insegnamenti, fumettaro e cinematografico, dell'adolescenza di Lietta Tornabuoni, editorialista onesta e famosa, con un debole (curioso) per il mondo dello spettacolo. Una cronista che ha sempre inteso «difendere la gente dall'essere gabbata». E a confessarlo adesso ride divertita.

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Pagina 71

Il genio e il travet
Incontro con Ezio Mauro

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Pagina 73

Dio sarebbe tutt'al più un buon vicedirettore se è vero quel che, di Ezio Mauro, spettegolano adoranti e detrattori, e la foga delle due categorie è identica: il mondo gira, Ezio Mauro cerca di essere più veloce per sorprenderlo alle spalle. Intanto, però, minimizza: «La soddisfazione più grande di un direttore», e qua intende dire «leader moderno», «è far crescere in modo definitivo uno di cui si sono intuite le qualità». E' il famoso concetto di «squadra» guidata da un capo, riconoscibile l'interpretazione forte, sabaudo-manageriale: lavoro comune di gente affiatata, e pazienza se le idee sono (anche) diverse. Il giornale esperito e costruito come catena di montaggio quotidiana, ma ad alto valore aggiunto, logicamente ordinato, in una parola: pensato per «famiglie» di temi, spesso e volentieri monografici. Tassello per tassello, in vista di un fine.

Ezio Mauro è un professionista-professionista che teorizza misurando i concetti e definendo i termini. Ha vocina da topo e occhi che, in effetti, pungono. Gli piace stendere il mestiere sul lettino e allora lo rivolta, lo interroga, lo blandisce, lo prende all'arrembaggio. Piccolo dottor Freud della carta stampata, entomologo di se stesso e di quel che da più di vent'anni, adesso ne ha 47, fa. Il disegno si squaderna nitido, la mappa mentale è percorsa da evidenti, abituali ricognizioni private. Calore passionale e freddezza sistematica. Attitudine che rivela ambizione. Studi, ancorché empirici, da professionista programmato per certi spazi geometrici dove c'è solo un posto a sedere: il vertice.

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Pagina 87

Fuori dal nostro giardino
Incontro con Maurizio Chierici

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Pagina 89

Se l'abiezione, l'umiliazione, e persino gli eccessi del dolore, sono forme estreme di santità, può sembrare un diarista-pellegrino che ha scelto, e sceglie, i percorsi crudi di tante cronache poco tranquille. Scrittura drammatica, concisa, qualche volta ermetica, Maurizio Chierici, classe 1936, racconta sul «Corriere della Sera» drammi, sentimenti e problemi di chi non è bianco: in America Latina e in Medio Oriente. Ma anche nelle corsie di un ospedale, qua in Italia. Inviato-testimone, poco protagonista, non pettegolo. La guerra del Golfo gli regala un pestaggio a sangue: due mesi e dodici giorni d'ospedale, ma non ci scrive sopra una riga, preferisce così. Un giornalista non ordinario, di una generazione che, adesso, magari non fa più notizia. Però Chierici è stato il primo a capire (e a raccontare) un tempo di confine. Nell'introduzione a un libro che ha qualche anno, La pelle degli altri, scrive: «... Fuori dal nostro giardino i vivi si moltiplicano con la rapidità delle persone non bene educate... D'ora in avanti il mestiere di chi racconta le loro inquietudini non consiste nel partire e tornare: un'occhiata prima di raccogliere le idee fra i libri delle nostre biblioteche. L'inquietudine degli altri ci ha raggiunto. I problemi e le paure si mescolano nelle città che accolgono le nostre ambizioni... Per chi deve raccontare la storia degli altri cominciano tempi difficili... Non immagino con quale lealtà sarà possibile testimoniare il cambiamento». Profetico.

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Pagina 103

L'amico americano
Incontro con Furio Colombo

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Pagina 105

Come si fa a presentarlo, e poi perché presentarlo se Furio Colombo, il suo volto, la sua firma di «columnist» (ora) per «La Repubblica», li conoscono tutti e piuttosto bene. Parentesi nuova nella ricchezza di una biografia già fitta: le elezioni generali del 21 aprile del 1996 lo hanno trasformato in parlamentare, deputato, eletto con i voti dell'Ulivo nel collegio di Torino. Da trent'anni, sino al qui e adesso, così nuovo, di Montecitorio, c'è però dentro l'America. O, se vogliamo, un lungo passato speso nel pattugliamento del Futuro: Furio Colombo, già manager di invidiabile successo (è stato chairman, il presidente, di Fiat Usa), è un ossimoro involontario: dilettante professionale, un corsaro in doppiopetto, un saggista «caldo», partecipe, e ha perlustrato gli Stati Uniti come si fa solo con le passioni totali, travolgenti.

Giornalista «formato» nell'industria, scrittore di libri (molti, e spesso molto differenti fra loro), attraversatore di frontiere intellettuali, Grande Comunicatore (di massa), uomo di tv, compagno nel viaggio di registi importanti (Michelangelo Antonioni, uno per tutti). Furio Colombo ha sempre provato a spostarsi il più avanti possibile. Una carriera costruita fra e su contraddizioni coerenti, tanti sentieri, tante metamorfosi, un solo linguaggio: la Parola. Gli occhi sono tagliole, qualche volta si chiudono a scatti rapidi, mentre lui cerca la precisione di una dettatura allo stenografo intanto che colloquia e che ragiona ad alta voce, tono morbido ma svelto, da conferenziere. L'atteggiamento è argomentativo, da buon professore di una buona scuola.

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Pagina 119

Guerra partigiana
Incontro con Michele Serra

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Pagina 121

Si adatta a Michele Serra, al suo stile antropologico, al suo ubi consistam culturale, il ghiaccio tagliente di un pensiero di G.B. Shaw: soltanto le parole contano, e tutto il resto è chiacchiera. Gli occhi sempre bistrati da due saccocce nere, barba in controtendenza: sono tanti i volti glabri, lisci come idee che non pungono. Lui invece la sfodera ancora, fa un po' codice fisiognomico. Parla come scrive, precisione canzonatoria, lessico sciolto, a tratti simpaticamente datato, spontaneista e giovanilista, volentieri «cattivista». Michele Serra, autore di satira dismesso (definizione sua), è lo «schierato», è il fazioso di genio, è un professionista dello sghignazzo, però con una vena robusta di moralismo dentro. Non piagnone, per fortuna. «Che tempo fa», 20 righe quotidiane sulla prima pagina dell'«Unità», dimostrano il teorema: parzialissime opinioni affogate in salsa di linguaggio accurato, anzi di più: pignolissimo. Serra non mette le braghe al mondo, ma almeno i bermuda si, e ci tiene.

Michele Serra è famoso, ha scritto libri, adesso fa anche critica & analisi di costume per «La Repubblica», ed è un mammifero pensante sui generis. Ex giovane nel vituperato borotalco degli anni Ottanta, non è più giovane ma rimane un punto di riferimento. Di cosa? Da anti-giornalista, da politico, da moralista («Non è esatto: io sono un artista!»), Serra funge sempre da tenutario di un punto di ritrovo per certa e folta «sinistra esistenziale». E' il noto partigiano della Resistenza Umana, e questo nonostante il domicilio bolognese: Bologna, si sa, ormai eletta patria, o patria eletta , del nuovo nichilismo letterario.

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