Copertina
Autore Flavio Pagano
Titolo La finestra sul porcile
Edizionemanifestolibri, Roma, 2006, Società narrata , pag. 160, cop.fle., dim. 14,5x21x1 cm , Isbn 978-88-7285-461-7
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe narrativa italiana
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Indice

1.  Dal tardo pomeriggio di un giorno più importante
    di quanto non sembri, all'alba del giorno dopo    9

2.  Mattino                                          17

3.  Pomeriggio                                       57

4.  Mezza sera                                      117

5.  Notte                                           147


 

 

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Pagina 9

1
DAL TARDO POMERIGGIO DI UN GIORNO PIÙ
IMPORTANTE DI QUANTO NON SEMBRI,
ALL'ALBA DEL GIORNO DOPO



                 Da qualsiasi parte io cominci, là ritornerò.

                    (Parmenide, Il Poema della Natura, fr. 5)



Ho venduto la mia casa. Ho impacchettato ogni cosa, e mi sono presentato al mio nuovo indirizzo. Lì, ad aspettarmi, c'era una di quelle sorprese che ti cambiano la giornata: il proprietario aveva affittato lo stesso appartamento anche a un altro. Costui, arrivato prima di me, pur mostrandosi comprensivo, specie quando ha notato che avevo al seguito un grosso camion giallo (con sulla fiancata l'eloquente scritta 'L'ineffabile – Traslochi'), che conteneva tutti i miei beni terreni, non ha voluto cedermi il posto. A quel punto il mio destino era deciso. Dovevo soggiornare per un po' in albergo. E allora, perché non approfittarne per partire e prendermi qualche giorno di vacanza?


Quando ho notato quell'auto sull'altra carreggiata della statale, ero in viaggio già da un po'.

Stava ferma nella piazzola di sosta. Dentro c'erano tre persone. Una era l'autista. Sul sedile di dietro invece c'erano un uomo e una donna. Tutto è durato un attimo. Il tempo di scorrere con la mia auto davanti alla scena. Andavo piano, perché da un momento all'altro mi aspettavo l'indicazione dove avrei dovuto svoltare. E il fatto di andare così piano mi ha aiutato. Mi ha aiutato a vedere quello che è successo. L'uomo e la donna seduti sul divano posteriore litigavano violentemente. Ho continuato a guardarli con la coda dell'occhio, e a un tratto, proprio quando stavano per uscire dal mio campo visivo, l'uomo ha mollato uno schiaffone alla ragazza. In quel momento l'ho visto bene in faccia, ed è stato allora che m'è parso di conoscerlo. Nello stesso istante la portiera dell'auto s'è spalancata. L'uomo ha buttato la ragazza fuori a calci. Lei ha cercato di resistere. È rimasta aggrappata come un velista che fa da contrappeso fuoribordo alla barca che naviga sbandata di bolina, ma l'auto è ripartita bruscamente e lei è caduta. Ho fatto appena in tempo a vederla.

I copertoni dell'auto in fuga hanno guaito sull'asfalto. Ho sentito un grido. Poi più nulla. Solo il rombo del motore lanciato a tutto gas, che si perdeva nel silenzio desolato della statale.

Istintivamente ho frenato. Ed è stato allora che quel maledetto tir mi è venuto addosso.

L'ho visto un attimo nello specchietto retrovisore. Ho visto il muso rincagnato della motrice. Ho visto la faccia dell'autista in canottiera, seduto sul suo alto trono, dietro il parabrezza piatto. L'ho visto che nell'istante dell'impatto chiudeva gli occhi mentre cercava di sterzare. Ho sentito le sue trombe barrire all'impazzata.

M'ha preso nell'angolo. Nello spigolo sinistro. Non è riuscito a evitarmi. E la mia macchina ha girato su se stessa come una foglia in un vortice di vento. Sono finito con la testa nel parabrezza (non ho l'airbag). Un'incornata micidiale. Poi devo essere svenuto.


Evidentemente il corso di guida veloce che ho fatto vent'anni fa mi ha aiutato. Quando ho ripreso i sensi ero tutto intero. Un po' dolorante, specie alla testa, ma tutto intero. Comunque non sono un tipo che si spaventa facilmente. La macchina sembrava in ordine. È partita al primo colpo. La prima cosa che ho pensato – non che voglia darmi l'aria dell'eroe, ma è andata proprio così – è stata: «E la ragazza? Come starà la ragazza che quel disgraziato ha picchiato brutalmente?»

Un po' più avanti ho trovato uno svincolo per fare inversione di marcia. L'ho imboccato e sono andato alla piazzola per cercarla. Ho guardato dappertutto, ma non c'era più nessuno. Della ragazza nessuna traccia. Dove poteva essere andata, a piedi? Intorno non c'erano che campi coltivati. Sembrava sparita nel nulla. È stato questo a farmi venire il dubbio che m'ero sognato tutto quanto. Che la ragazza non c'era mai stata. E nemmeno l'auto. Che fosse colpa della botta in testa.

Sono anni che certi dubbi mi assillano. Ho avuto la sfortuna o l'onore di assistere all'attentato alle Twin Towers. Ero praticamente lì. Dalla vetta di un grattacielo vicino ho potuto vedere uno degli aerei colpire. L'ho visto apparire nel cielo all'improvviso. Visto così da vicino sembrava immenso. Ho visto le fiamme, l'esplosione delle finestre, la gigantesca nuvola di polvere. I frammenti di vetro e di metallo cadevano in un tripudio di riflessi. La polvere, incorniciata dalle fiamme, si sollevava verso l'alto, ribollendo lenta e maestosa nell'aria, come il fungo di una bomba atomica. Sembrava la scenografia di un colossale fuoco d'artificio. Sembrava la fine del mondo. Da quel giorno, per molto tempo, la gente incontrandosi si chiedeva: «Tu cosa hai fatto, quando hai visto gli aerei schiantarsi?»

E le risposte erano sempre le stesse: ho cominciato a pregare, ho pianto, ho gridato...

Io no. Io non ho fatto niente di tutto questo. Io ho acceso la tv.

Volevo essere sicuro che quello che avevo appena visto, fosse accaduto davvero.

Con una prontezza strabiliante, cento edizioni straordinarie annunciavano al Paese e al mondo che l'America era under bombing. Veniva quasi da pensare che nel moderno mondo mediatico non esistano più semplicemente i 'coccodrilli', cioè quegli articoli preconfezionati pronti a commemorare l'eventuale morte improvvisa di un personaggio importante un po' avanti negli anni. Ma che esistano addirittura coccodrilli preventivi, fatti apposta per i disastri. Veniva quasi da pensare che le tv abbiano già pronto un repertorio di immagini buono per ogni grande sciagura possibile, in attesa che avvenga realmente.

Insomma dopo l'attentato io ho acceso la tv. E guardando mille volte le medesime immagini, ho pensato: «Cristo, ma allora è successo davvero...».

Appena mi è stato possibile sono tornato in Italia. Nella mia vecchia casa. A dire il vero da quando mia moglie se n'era andata rinunciando alla casa e al cane, ma portandosi via nostro figlio), non ci abitavo piu tanto volentieri. Girando per le stanze mi sentivo a Pompei. Mi pareva di visitare le rovine della mia vita.

Quando il cane è morto, ho deciso di venderla ed è stato così che ho finito per rimanere senza casa per quella storia dell'affitto-truffa.

Dopo un po' cominciai a dimenticare l'esperienza spaventosa che avevo vissuto a New York. Ma una sera, in tv, ho beccato Chicco Mentana. È lui che, in un certo senso, mi ha fregato. Lui e Giulietto Chiesa. O che mi hanno salvato. Difficile a dirsi. A Matrix c'era Giulietto Chiesa, un bravo giornalista — ma addirittura superbo, come sosia di Stalin — e s'è messo a spiegare con tutta l'autorità conferitagli dai suoi baffoni grigi, che non è affatto detto che «le cose siano andate come crediamo». Come credevo. E giù tutta una storia sul fatto che le Torri sono implose in una maniera innaturale rispetto all'impatto con gli aerei. Che sono cadute come se fossero state minate nelle fondamenta. O qualcosa del genere.

Come se non bastasse, appena qualche giorno dopo è cominciato l'affare delle lettere misteriose.

Una donna che non conoscevo aveva cominciato a scrivermi. Mi scriveva per raccontarmi cose dell'altro mondo. Che stava male. Che anche sua figlia stava male. Molto male. Che aveva perduto il lavoro. Che suo marito era un orco, ma era anche un santo. Che era morto, ma che poi era resuscitato, e le aveva raccontato com'è l'Aldilà (il che è già un fatto notevole, poiché vuol dire che evidentemente un Aldilà esiste davvero).

Non so perché scrivesse proprio a me. Mi sembrava assurdo. Alla fine mi sono rotto, e le ho risposto.

«Cara Signora», le ho scritto, «mi dispiace, ma non posso fare niente per Lei. Non La conosco, non posso nemmeno partecipare al Suo dolore. La prego di non scrivermi più. Buona fortuna».

Quella notte ho pianto. Non so perché. Succede, no? In ogni caso, il mattino dopo non me ne ricordavo neanche più. Ma tutta la storia mi è tornata in mente un anno dopo. E ancora una volta, c'era di mezzo la televisione.

In un programma che ora non va più in onda — una di quelle cose che conduceva di pomeriggio Alda d'Eusanio, o forse era un'altra, non saprei - raccontano la storia di una donna. Una storia orribile, di dolore, di violenza, di sopraffazione. Ma anche la storia di un grande amore. E infine di un miracolo. Una di quelle storie che ti possono far diventare ateo. O anacoreta.

Come tutta l'Italia, mi ero appassionato al caso di quella donna e di suo marito, il redivivo. Uno che si ubriacava, la picchiava e la tradiva ma che, queste le parole della donna «infondo l'aveva sempre amata». La donna comunque, in un momento di disperazione, aveva pregato Dio che lo facesse morire. E Dio, forse colto a sua volta in un momento di disperazione, l'aveva quasi accontentata. Suo marito, infatti, era finito in coma. Allora la donna si è pentita, e ha cominciato a pregare Dio che lo facesse vivere. E, pazientemente, ancora una volta Dio l'ha accontentata. L'uomo, dopo essere stato dichiarato clinicamente morto, è tornato in vita. Tutti soffrimmo e gioimmo per quella incredibile storia di solitudine, di morte e di resurrezione. Per quella tragedia convertita in fiaba. Un bel giorno, la donna decise di lasciarsi intervistare, e apparve in diretta. Avevo già dei sospetti, ma quando ha spiegato che nei momenti di maggiore solitudine si metteva a scrivere lettere e che le inviava a destinatari scelti a caso, sperando che qualcuno le rispondesse, che qualcuno le tendesse una mano, facesse qualcosa per lei, ho capito chi era. Io ero uno dei suoi nomi scelti a caso. Una cosa incredibile. Quante probabilità c'erano che scegliesse proprio me, un perfetto sconosciuto che viveva in un'altra città? Più o meno quante ce ne sono di vincere alla lotteria. La mia dose di fortuna l'ho sprecata così. A me non è toccato il biglietto, ma la lettera.

Tuttavia vedendo quella donna in video, e ripensando a quanto avevo seguito con passione la sua storia, mi resi conto con un certo sgomento che quando la sua vicenda era entrata in contatto con la mia vita in privato, attraverso una lettera, m'era sembrato assurdo pensare di poter partecipare al dolore di un estraneo senza avere nessun contatto con la realtà di cui mi parlava. Anzi la cosa a un certo punto mi aveva infastidito. Invece, quando la storia di quella donna era tornata a bussare alla mia porta, ma attraverso la tv, per me aveva avuto tutto un altro valore. Era diventata un fatto della vita, un'astrazione assoluta, impalpabile, e per qualche perversa ragione risultava più persuasiva. Credo che sia su qualcosa del genere che si basa il successo delle televendite.

Bruno Vespa ha scelto proprio bene il nome del suo programma.


Per rimettermi sulla mia carreggiata sono dovuto tornare indietro di alcuni chilometri. Ma quando ho ripreso la direzione giusta, l'indicazione che cercavo non l'ho più trovata. Ero stanco di guidare, e ho lasciato la statale in cerca di un paesino, di un borgo, di una scheggia di case o di un albergo solitario in mezzo alla campagna. Un posto qualunque dove fermarmi a passare la notte. Ma non ho trovato niente.

Ho pure finito la benzina, e mi sono ritrovato in mezzo a una strada desolata senza sapere cosa fare. Non ero lontano da casa. Ma avevo perso l'orientamento. E poi s'era fatto tardi.

La sera è venuta giù come una saracinesca. Sono sceso dalla macchina, e lo spazio intorno a me si è come improvvisamente dilatato a dismisura. Mi sembrava di stare in mare aperto. Tutt'intorno solo campi. E un bosco, ma lontano. A perdita d'occhio, appena svelato all'orizzonte — verso l'ombra lontana delle colline — dall'ultima eco del tramonto. Non sapevo che dalle mie parti ci fossero pianure così grandi e desolate.

Ho provato un momento di malinconia respirando quell'aria fresca che mi carezzava la pelle. Il mio cervello ha ruttato fuori un paio di ricordi. Ho pensato a certe cose della mia vita. A qualcuno che mi manca. A mio figlio, che non vedo da tanto tempo. Ma poi la malinconia se n'è andata. Con un brivido. Ho preso la borsa dal sedile posteriore, ho chiuso la macchina, e mi sono messo a camminare. Camminare non mi spaventa. Una ventina d'anni fa ho fatto un pellegrinaggio di duecento chilometri.

Finalmente ho visto l'insegna di un albergo, o locanda, o postribolo di campagna, o come lo sí vuol chiamare. Un discreto cesso. Ma era meglio di niente.

Il tizio che mi ha accolto alla ricezione (alle sue spalle, appeso alla parete, c'è un cartello con su scritto 'Vietato fumare' ma lui ha sempre in mano non so che razza di cannone), mi ha dato una camera che sembra una cella. Il bagno è così piccolo che quando ci sono entrato per pisciare mi è sembrato di andare in castigo. E il sapone liquido sembra sperma.

Ma la cosa più allucinante è che non c'è nemmeno una finestra.

Del resto sono così stanco che ho voglia solo di buttarmi a letto.

Ho dormito come un sasso fino al mattino seguente. Quando mi sono risvegliato, ho avuto un solo pensiero: andarmene via subito. Ma proprio in quel momento ho notato un'ombra sulla parete, davanti al letto.

In realtà era una piccola tenda. Probabilmente non l'avevo vista prima perché è dello stesso colore con cui è pitturato il muro. Mi è parso ci fosse un'evidente intenzione mimetica in quella scelta, e la prima cosa che mi è venuta in mente è che la tendina servisse a coprire un contatore, o un quadro elettrico. Invece no. La tendina copriva l'ultima cosa che mi sarei aspettato di trovare nella mia camera: un televisore. Incassato nel muro. Come una cassaforte.

E con tanto di telecomando.

Credo che quel tale che trovò una lattina di coca-cola in cima all'Everest dovette sentirsi più o meno come me.

Il fatto che in una camera che non ha neanche una finestra, abbiano pensato a mettere a disposizione dei clienti una tv sulle prime mi disgusta. Dunque la televisione è più importante dell'aria?

Ma sono abituato a guardare il lato positivo delle cose, quando c'è. E in questo caso forse c'è. Pensandoci una tv è proprio quello che mi serve ora. Non so esattamente dove mi trovo, non ho impegni, sono intontito. Sono in un momento della mia vita che somiglia parecchio a quello della convalescenza dopo una malattia. Il cellulare staccato e praticamente non esisto. Sì, una mezz'ora di tv è proprio quello che mi serve. Un po' d'elio puro nel cervello, per volare via.

Credo sia per ragioni del genere che mettono la tv negli aeroplani. E che la fanno vedere ai pazienti sottoposti a piccole operazioni chirurgiche in day-hospital. Perché la tv ti estrae dalla realtà, a qualunque profondità tu sia. Ti estrae, e ti distrae. Come nient'altro al mondo.

Non averla, in carcere, è la punizione più temuta. La televisione olia il tempo. Sì, credo proprio che sia un'ottima idea. Partirò più tardi, con tutta calma. Per il momento, ho bisogno di riposare ancora un po' e di non pensare a nulla.

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