Copertina
Autore Flavio Pagano
Titolo Ragazzi ubriachi
Edizionemanifestolibri, Roma, 2011, Società narrata , pag. 160, cop.fle., dim. 14,4x21x1 cm , Isbn 978-88-7285-666-6
LettoreGiorgia Pezzali, 2011
Classe narrativa italiana , ragazzi
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Pagina 7

Capitolo 1



Mio figlio è uno stronzo. Tutti ci ripetiamo le solite storie. Che è un bravo ragazzo con un cuore d'oro, pieno di qualità... Però ci sono dei momenti in cui francamente mi pare tutta una presa per i fondelli, e che invece l'unica cosa che si possa dire di lui, è proprio questa: che è uno stronzo.

'Stronzo' del resto è una parola con molti significati, e con un numero quasi incalcolabile di sfumature. Il contesto conta molto, e persino il tono con cui la parola viene pronunciata può essere decisivo per coglierne il senso in profondità.

L'amante inaffidabile è uno stronzo, il capo despota è uno stronzo, e anche l'avversario infido è stronzo. E in senso generico significa anche stupido, o autolesionista.

Mio figlio è un po' tutto questo. Dunque, è uno stronzo completo.

Ma io mi aggrappo all'ultimo significato, perché a volte ho la sensazione che il suo unico talento vero, sia quello di fare del male a se stesso. Senza ragione. O con una ragione che io non so vedere.

In effetti 'stronzo' è una parola magica. Vuol dire un mare di cose, un po' come il verbo poièo in greco. Significa ingenuo, simpatico, svampito, persino buono, di quella bontà anzi che ti lascia a bocca aperta, perché confina con la stupidità più incredibile, inconciliabile con un mondo fatto come quello in cui viviamo...

Sì, in fondo è vero: mio figlio è uno stronzo.

Ma uno stronzo speciale. Unico e meraviglioso. E ci vorrebbe un libro intero per spiegarlo.

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Pagina 9

Capitolo 2



Mio padre è uno stronzo. Su questo non ci sono dubbi. O comunque ce ne sono pochi.

Anche ieri doveva venire, e invece non è venuto. Mica ha avvisato nessuno. Poi telefonerà, magari stasera, e racconterà una di quelle storie incredibili che gli capitano. E dirà "ce l'ho messa tutta, mi dispiace...". Io già lo so.

Non racconta bugie. A lui le cose assurde, quelle che alle persone normali capitano una volta sola nella vita, gli capitano tutti i giorni. Da quando me lo ricordo dice "arrivo" e non arriva mai. Non quando tu l'aspetti.

Non ho neanche capito bene che lavoro fa.

Mio padre è strano, l'unica cosa normale di lui, l'unica che mi piace, è che è uno stronzo vero. Di natura. Perché ci sono quelli che fanno gli stronzi. E quelli mi fanno schifo. Invece lui no: lui è uno stronzo de verdad. Questo lo dicono tutti, su questo sono tutti d'accordo. Mia madre, mia nonna, persino sua madre, cioè l'altra mia nonna. In effetti lo dicono soprattutto le donne, e le donne certe cose le sanno.

È proprio stronzo.

Quando scriverò un libro lo spiegherò bene. Ora devo pensare a diventare un pugile. Ma devo fare tutto subito, perché già lo so che a sedici anni morirò sparato da un poliziotto. Però non dev'essere un errore. Deve essere che quel poliziotto vuole uccidere proprio me. Al mio funerale ci saranno tutti.

Ho preparato già la scritta per la mia tomba: "Dopo essere diventato campione giovanile di pugilato, morì sparato da un poliziotto a sedici anni. Il poliziotto voleva uccidere proprio lui. Non fu un errore."

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Pagina 36

Abitavo da solo. Non avevo più voluto una relazione stabile. M'ero pure stancato di flirtare. La solitudine mi piaceva. Sognavo che un giorno mio figlio sarebbe venuto a vivere là con me, che avremmo fatto lunghi discorsi. Però poi mi chiedevo: ma cosa ci diremo? E mi accorgevo che le parole giuste per parlare con lui erano difficili da trovare. Avrei voluto spiegargli tante cose, chiedergli perdono, e fargli capire che gli volevo immensamente bene. Ecco, è quell'immensità che avrei voluto imparare ad esprimere. Ma non con un'iperbole, bensì con parole semplici e chiare, che la esprimessero com'era.

Sono sempre stato convinto che esistano le parole giuste per qualsiasi circostanza. Lo so, il silenzio è superiore, ma è la superiorità della morte sulla vita. E so anche che un gesto, come si dice, vale più di mille parole. Ma cosa potevo fare, a duemila chilometri di distanza? Il problema stava alla radice. La separazione, poi quell'allontanamento enorme. La situazione m'era sfuggita di mano, come la mia vita.

E allora l'unica cosa alla mia portata restavano le parole. Parole che mettessero le ali a quella verità che solo il silenzio sembra poterci offrire.

Ma trovarle era difficile, e per il momento mi toccava rimanere muto davanti a mio figlio, che mi guardava, aggrappato al mio silenzio, a quell'ultimo istante prima di separarci, alla speranza che io facessi qualcosa che rimettesse tutto a posto.

A volte me lo diceva: "Papà, fa' una magia!".

"Quale?", gli chiedevo io. Al principio sorridevo. E sorridevo anche della sua risposta.

Me lo chiese anche quel giorno, di fare una magia, mentre ci salutavamo davanti al portone.

"Quale magia vuoi che faccia?", domandai.

"Scegli tu", rispose Fabio. Mentre mi rispondeva si voltò da un'altra parte. Si teneva con la mano alla mia giacca. Poi si morse un labbro, aveva voglia di piangere. Ma già lottava, lottava per nascondere i suoi sentimenti. Perché gli faceva paura il pensiero di soffrire. Gli faceva paura la solitudine. Aveva sei anni, ma oggi i bambini crescono in fretta. È vero, non perché sanno usare il computer o il telefonino. Ma perché tutto si è rovesciato: a loro si chiede di diventare adulti, mentre gli adulti fanno finta di essere ancora bambini.

Mi ricordai di quella volta che ero rimasto accanto a lui, aspettando che si addormentasse. Non c'era verso. Non c'era favola che lo riuscisse a distogliere dalla realtà. C'era inchiodato dentro. Alla fine dovetti andare, perché avevo il solito aereo. E lui rimase lì chissà per quanto tempo ancora, con gli occhi aperti, come un quarantenne che non riesce a prendere sonno.

La magia che voleva io facessi, sembrava semplice. Mi chiedeva di rimanere, di non andar via. Di non lasciarlo solo. Perché i bambini nelle cose ci credono, e quando li mettiamo al mondo loro poi non s'aspettano che la famiglia vada in pezzi. Che gli si dica che può succedere, che anche separati papà e mamma ti vogliono bene, e che poi arrivi la psicologa di turno a sparare altre cazzate.

Era come se non si rendesse conto che la magia io l'avevo già fatta, ma al contrario. Perché la vita che facevamo, era anche opera mia. Raccontiamo ai nostri figli le favole, li invitiamo a credere che Babbo Natale esiste, poi improvvisamente tiriamo fuori il lato razionale, e si comincia a dire che è meglio una famiglia separata dove non si litiga, che una famiglia unita per finta. Già, come se i genitori separati non litigassero... Sono tutte fesserie. Per i nostri figli sogniamo di poter cambiare le regole del mondo. Li spingiamo ad essere migliori, o almeno cerchiamo di farlo, e in questo modo implicitamente incoraggiamo in loro l'idea che il mondo sia un posto migliore di quello che è. Ma poi la trappola scatta. Poi l'amore non dura, i soldi non bastano, la vita si toglie la maschera e la fata diventa una strega. La mamma vuole rifarsi una vita, il papà pure: perché tutti hanno diritto a una seconda occasione. Il figlio fa parte della vita di prima, di una vita che non c'è più. È l'aborto di un sogno. Non si può neanche dire che sia il passato, perché del passato rimane qualcosa. Invece tutto ciò che rimane di un uomo e una donna che scoprono di non amarsi, è un piccolo tempio di carne, unico testimone di una misteriosa civiltà scomparsa per sempre. È come una tagliola che scatta, dove l'unico che non fa mai in tempo a ritirare la zampina è il figlio.

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Pagina 43

Capitolo 6



Ogni tanto qualcuno mi dice che farò una brutta fine. Però non l'ho ancora fatta. Camilo dice che le persone dicono un sacco di stronzate perché non riescono a stare senza parlare. Ha ragione. Uno è libero di pensare, ma parlare è un'altra cosa. E viene dopo. Cioè le cose vanno fatte nell'ordine giusto: pensare — parlare. Non il contrario. Un'altra cosa che mi dicono sempre è che la scuola viene prima di tutto. Invece per me non è così.

Anzi la scuola non mi ha mai interessato. Nemmeno un giorno. Sapevo leggere, scrivere e contare, e basta così. Non ci andavo molto spesso, a dire il vero. Mio padre mi ha fatto una testa così con il latino, la storia, fin da quando ero piccolo. A me quelle cose non dispiacciono, ma non glielo ho mai detto. E ne so più di quanto lui non creda. Perché mi piace molto leggere, però mi piace scegliere di testa mia. Quando una cosa mi piace, la imparo immediatamente. Comunque avevo altro per la testa.

Mi ero inserito in un gruppo di amici diversi da quelli che avevo a scuola. Li avevo conosciuti per strada, e ci passavo molto tempo. Qualcuno di loro rubacchiava qualcosa ogni tanto. All'inizio fa un po' paura. Quello che mi piaceva di più era andare a casa dopo, e portare un regalino a mia madre. Perché lei si cagava addosso: "E dove li hai presi i soldi?", mi diceva lei. E io ridevo. Allora lei si arrabbiava, e pensava che glieli avessi rubati a lei. Così poi litigavamo. E se litigavamo di brutto, che volavano le parolacce, lei piangeva. Ma non subito. Prima si chiudeva in camera.

Dopo piangevo anche io, qualche volta. Quasi sempre nel cesso.

I miei amici cominciarono a fare furti più belli. Io non lo facevo per divertirmi o per credermi forte e duro come loro, io lo facevo per sfogarmi. E poi io non mi facevo come loro. Io buttavo giù un chupito, ed ero pronto. Un trucchetto che mi aveva insegnato Fermin, che poi però non l'ho visto più. Qualcuno mi ha detto che è morto. Che ha avuto un incidente. Ma io non ci credo. Non ci voglio credere.

Il chupito va bene sempre. Ti viene coraggio, sei divertente, dici cose strane che fanno ridere tutti, e insomma puoi fare bene tutto quello che devi fare, compreso attaccare con le ragazze. A scuola invece non serve. Infatti Fermin non c'andava a scuola.

Però dopo sei triste. Tanti amici miei quando erano un po' ubriachi, anche le ragazze, prima erano allegri, così allegri e pieni di vita che sembrava che il mondo se lo volevano mangiare. Però dopo un po' diventavano tristi. Il mondo se l'erano bevuto...

Bere è così, sembra che voli, ma le ali non ce l'hai. Sembra di sì però. Poi quando finisce la benzina tu sei lì, solo, lassù in alto. E allora puoi anche cadere. C'è un momento in cui lo sai che stai per cadere. Quello è il momento in cui ti puoi anche fermare. Con un po' di fortuna piano piano scendi fino a terra, e magari ti addormenti. Ma se invece insisti viene un momento che non capisci più niente. E allora quando cadi giù, sbatti che ti fai male.

Certi sembra che tornano invecchiati. Tornano invecchiati dal volo, intendo.

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Pagina 92

[...] Non so perché, ma la mia attenzione si concentrava sempre istintivamente sull'aspetto di mio figlio, ed era di quello che mi servivo per dedurre la sua salute interiore. Mi sembrò che stesse decisamente bene. Il pugilato cominciava un po' a modellargli il viso. Aveva un'aria da duro, che però finiva per esaltare quello sguardo dolce che aveva negli occhi fin da quando era venuto al mondo. Una dolcezza che scorreva dentro di lui, segreta e silenziosa come un fiume sotterraneo. Mi disse che era venuto a salutarmi, perché sapeva che arrivavo, ma che doveva scappare, e che però ci saremmo visti dopo.

Mi mollò in mano una borsa.

"Ma cosa c'è qui dentro?" gli chiesi, "quanto pesa!"

Lui sorrise.

"Sei debole papà... sei vecchio!" Strizzò l'occhio e scappò via. Aveva quell'abitudine di attraversare la strada ignorando il semaforo, che mi faceva venire sempre il cuore in gola. Sull'altro marciapiede lo aspettava Consuelo. Gonna a pieghe, calzettoni, ballerine ai piedi, mollette tra i capelli. Sembrava una ragazzina di Grease. Fabio l'abbracciò di slancio, sollevandola leggermente. Consuelo fece una specie di piroetta intorno a lui, tra le sue braccia. Quasi un passo di danza. C'era una libertà infinita in ogni loro gesto. Persino nel modo di camminare, nella disinvoltura con cui si tenevano per mano mentre sparivano tra la folla, in quella bella giornata di sole. La libertà che si prova non quando ci si sente padroni del mondo, ma quando il mondo intorno a noi è diventato un trascurabile dettaglio, perché siamo innamorati.

Fabio non si fece vedere fino a sera. Non rispondeva al cellulare, non dava notizie. 'Che stronzo!', pensavo, 'che ragione c'è di comportarsi così? Cosa gli costerebbe far solo sapere che sta bene?'

Ero incazzato nero, perché sapevo di essere parte anch'io di quel trascurabile dettaglio, e avevo voglia di rimproverargliela la sua felicità, come fosse una specie di colpa.

Gli innamorati sono piccoli dèi, capaci di realizzare la felicità solo per se stessi. E questo che li rende soli, perché il mondo non glielo perdona.

Sognare la felicità è un diritto di tutti, ma viverla no. Viverla apertamente sembra quasi un'offesa. E invece l'amore lo fa. Perché è sfacciato, brutale, e quando la sua forza s'incontra con l'eruzione dell'adolescenza, trascina la vita alle sue origini più tempestose. Il desiderio degli innamorati ha la violenza esplosiva della Creazione, il calore abbagliante di un magma incandescente. Il sentimento prende forma, si scolpisce, assurdo e magnifico, nel nulla dell'esistenza, e i pensieri si animano, diventano animali enormi che si aggirano in una foresta lussureggiante di emozioni, facendo tremare la terra sotto i loro passi.

Una delle stranezze del destino umano è che ciascuno di noi sembra ripercorrere, nel corso della sua esistenza, l'intera storia del mondo. Ma il tempo, per un ragazzo e una ragazza innamorati, non esiste. Ai piccoli dèi è concessa l'eternità. O l'illusione, che può essere un bene più grande, di averla conosciuta.

Però dopo cresciamo, e inizia la ricerca disperata dell'ordine segreto che governa le cose, e che nasconde invece l'inganno vero. Con l'età si comincia ad aver paura di amare, anzi un po' ci si vergogna. Vita e amore appaiono inconciliabili. Tutto sembra una trappola. E allora l'unico modo per sfuggire alla disperazione, è fingere che il senso della vita non sia nelle sue illusioni, ma nella sua realtà concreta. L'amore è una follia... Cambiare le regole non è possibile... Già, allora tutto ciò che resta da fare è scopare, arraffare, fottere il prossimo, inventare idoli, professare mediocrità, e mentre l'esperienza prosciuga la speranza di cambiare davvero le cose, aspettare che la morte rimescoli le carte, insegnando pazientemente ai ragazzi che nella vita ci vuole misura, e soprattutto fiducia nell'aldilà, perché la vita è una valle di lacrime, un posto strano voluto da un buon Dio, dove per sopravvivere devi far fuori qualcun altro.

Ma l'adolescente innamorato non ha paura neanche di questo. È un tirannosauro, e niente lo abbatte. Sbrana tutto quello che incontra, e la sua forza, ciò che lo rende indistruttibile, è che non immagina neanche che un giorno avrà un orario in una catena di montaggio, o una ventiquattr'ore incatenata al polso.

L'amore è l'unico mito che esiste davvero. L'unica prova che tutto potrebbe essere diverso, anche al di qua dell'utopia.

Ma, come tutti i miti, è destinato ad una vita anfibia tra memoria e fantasia. Il fiume di energia da cui era scaturito, si frammenta in mille rivoli. Diventa passione, fede, avidità.

Tutto discende dall'amore, vissuto o negato che sia. Anche quella forza oscura e primordiale che lega i genitori ai propri figli: un amore impossibile, il cui frutto maturo è il distacco, non l'unione.

Un amore che nasce al servizio della specie, indispensabile per la sua conservazione, ma che di solito diventa conservazione di sé. L'amore dei genitori, è un amore che uccide.

E quello degli innamorati non è meno crudele. Ti cancellano con un sorriso, ed è una maniera imperdonabile di dirti "ti voglio bene, ma...".

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Pagina 127

Anche mio figlio aveva due lati, lo sapevo. Mi sembrò in quel momento che tutto il dualismo filosofico originasse dal fatto che è la nostra stessa natura ad essere duplice. Che il Bene e il Male esistono davvero in sé, al di là delle parole. Ma che il confine che li separa è così sottile da sembrare illusorio, per cui bisogna abituarsi a vivere in un mondo reso ambiguo da noi stessi, e che l'esistenza — almeno quella umana — non è che il rinnovarsi incessante di una lotta tra due verità forse indimostrabili, ma comunque di pari rango.

Senza di noi, la Natura si consumerebbe fedele ai suoi princìpi, nel silenzio e nell'armonia sanguinaria delle proprie leggi. Ma lo sguardo inconsapevole dell'uomo a volte sveglia il drago, nasce il dubbio, e ci tocca affrontare il contrario di ogni cosa. Giustizia e ingiustizia, odio e amore, verità e inganno... Tutto ciò che inventiamo genera il suo contrario. Compresi i nostri figli. Compresi noi.

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