Copertina
Autore Flavio Pagano
Titolo Quelli che il rugby...
SottotitoloUn racconto ovale
Edizionemanifestolibri, Roma, 2005, Società narrata , pag. 120, cop.fle., dim. 145x210x9 mm , Isbn 978-88-7285-399-3
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa italiana , sport
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Pagina 17

PROLOGO



                                    Il rugby è un gioco duro,
                   e questa è una delle sue virtù principali.
                                               Lord Wakefield
Spesso io e Lello iniziavamo l'allenamento un po' prima degli altri, e cominciavamo da soli a fare i giri di campo chiacchierando piacevolmente tra noi. Facevamo parte della stessa squadra fin dal minirugby. Praticamente eravamo cresciuti insieme. Io giocavo in prima linea, come tallonatore, lui invece era il mediano di apertura. E il nostro capitano. Non ci frequentavamo molto al di fuori del rugby, ma eravamo amici. Veramente.

Sono passati parecchi anni da allora, e confesso che sono diventato un ex rugbista da manuale. Non ho più i polmoni di una volta. Ho messo su pancia, e le mie partite più avvincenti adesso le gioco a tavola, in un interminabile 'terzo tempo'.

Eppure la voglia di correre non mi è passata mai del tutto. È rimasta dentro di me, nascosta da qualche parte (il posto non manca), come quei fuocherelli che serpeggiano sotto la cenere del camino e all'improvviso si riaccendono.

Sarà la nostalgia, o il desiderio di rimettermi in forma, non lo so, ma fatto sta che certe volte, tutt'a un tratto, qualcosa mi spinge a svegliarmi all'alba, a buttarmi giù dal letto, a mettermi la tuta e a uscire di casa andando incontro all'aria fresca del mattino.

Ai tempi della giovanile tra essere e correre sembrava che non ci fosse differenza. Poteva mancarci tutto, ma non il fiato. Credo che avrei potuto fare anche l'amore mentre correvo.

Adesso, invece, o corro o parlo. Non credo proprio che potrei fare i giri di campo chiacchierando con un amico. Anzi, sto li a ragionare ogni secondo su quanti metri ho fatto e quanti me ne restano. Dopo un po' mi fanno male le caviglie, e al polso non porto l'orologio, ma uno strano aggeggio che conta per me i passi e i battiti del cuore. E poi sudo. Sudo come un dannato anche nelle più gelide mattine di gennaio.

Confesso che ho una piccola debolezza. Sotto la tuta metto ancora la maglia della mia squadra. La nostra vecchia maglia a fasce orizzontali biancorosse. Mi va così stretta di vita, che a volte mentre corro mi si arrotola fino al petto. Eppure quando ne respiro l'odore mentre la indosso, quando sento aderire al petto quella stoffa grezza, robusta, mi pare di star facendo la muta di un serpente al contrario, di rindossare – orgogliosamente – la mia vecchia pelle. Quella vera.

Allora la passione m'infiamma: «Giuro che da oggi si cambia vita! Andrò a correre tutte le mattine!», dico a me stesso, e a quel punto non c'è niente che mi possa fermare. Del resto è la prima cosa che ti inculcano quando giochi a rugby: niente ti deve poter fermare.

Stamattina è stato così. Ho attraversato in auto la città ancora mezza addormentata, e sono venuto sulla litoranea.

Ci sono i gabbiani che volteggiano contro lo sfondo plumbeo del cielo. Il mare è appena un po' mosso. Un paio di barche di pescatori beccheggiano mollemente in lontananza, tra minuscoli ciuffi di spuma.

Lascio l'auto in una piazzola, mi sgranchisco un po', tiro un bel respiro e comincio la mia corsa col trotto pesante di un vecchio rinoceronte.

La strada è deserta, eppure ho come la sensazione di non essere solo.

È difficile spiegarlo, ma quando vengo qui al mattino presto e comincio a correre, ogni volta mi sembra che insieme a me ci sia di nuovo lui, Lello, il mio amico di tanto tempo fa, il nostro valoroso mediano d'apertura.

Rivedo il suo sorriso, e al mio fianco appare la sua ombra. La riconosco dalla falcata elastica, armoniosa, piena di certezze. Subito i ricordi si moltiplicano, e con loro si moltiplicano pure le ombre. Il vento mi sfiora il viso. Dovrei sentire l'odore del mare, ma invece sento l'odore d'erba del nostro vecchio campo di periferia, che ora non c'è più, e il caldo odore di cuoio della palla.

Quattordici ombre si sono aggiunte alla mia, puntuali a questo misterioso appuntamento. Le ombre del miei compagni. Li riconosco uno ad uno. C'è Sergio, il pilone sinistro, quello che si doveva far fare le camicie su misura perché aveva il collo troppo grosso. C'è Riccardo, uno dei secondalinea, che invece aveva problemi con le scarpe, perché di piede portava il quarantotto. C'è Alessandro, che sul campo da rugby praticamente c'è nato, e c'è Nicola, l'estremo, con i suoi occhi sognanti, a volte enigmatici.

Ci siamo tutti. È una giovane squadra di rugby al completo quella che corre insieme a me nelle luci dell'alba, lungo la litoranea. È la mia squadra.

Dio, quanto tempo è passato! Eppure mi ricordo perfettamente di quel sabato pomeriggio. La mia ultima partita di rugby con la giovanile. Non saprei dire il mese e il giorno, ma l'anno sì. Che tempi erano quelli: come potrei dimenticare?

Era il 197...

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Pagina 34

Fortunatamente l'azione avversaria si esaurì senza conseguenze. Riconquistammo il pallone e ci portammo nella loro metà campo. Un'ulteriore fase di gioco ci vide varcare la linea dei ventidue metri. E poi avanzare ancora. L'arbitro decretò una mischia chiusa a cinque metri dalla meta avversaria. La palla, lungamente contesa in un raggruppamento era stata giudicata ingiocabile. Noi eravamo la squadra in avanzamento, e la mischia chiusa sarebbe dunque stata a nostro favore. Ero ancora un po' scosso dalla bestialità che avevo fatto poco prima, ma la partita era solo al principio. Avevo ancora tutto il tempo di rifarmi.

Il nostro allenatore urlava qualcosa da bordo campo. Quando strillava a tutta gola, lanciava come degli shrapnel. Parole sostanzialmente incomprensibili, ma letteralmente fiammeggianti, come quei fuochi d'artificio che, raggiunta la massima altezza, si scompongono in altre esplosioni. Schegge taglienti di sillabe piovevano sopra di noi da tutte le parti.

Dovevo assolutamente riuscire a entrare in partita. E dovevo farlo subito. Il problema era tutto lì. Una buona partita di rugby si regge sull'equilibrio di pochi, delicati elementi. Se non entri per tempo in armonia, rischi di restarne fuori fino alla fine. Non te ne accorgi neanche e ti ritrovi a metà del secondo tempo con i piedi appesantiti dalla stanchezza, lo sguardo intontito, la voglia di andare soltanto a fare la doccia. Le energie vanno amministrate bene. C'è tutta un'economia da rispettare. E soprattutto bisogna saper sfruttare il meglio delle proprie forze all'inizio; il giovane, fresco fiato del principio, la lucidità dei primi minuti, per incanalare l'incontro nel giusto binario. Come nella vita.

I pacchetti si schierarono per affrontare la mischia. Dopo un attimo di minaccioso fronteggiarsi, le prime linee si scontrarono. L'ingaggio fu durissimo. Sentivo i respiri pesanti, rauchi. L'odore del sudore s'era fatto adesso più intenso, cattivo. Il profumo dell'erba ne era quasi del tutto sopraffatto. Qualcuno bofonchiava sommessamente, come un bufalo nervoso, ed io ripetevo a me stesso: «Sono un buon giocatore... sono forte... vinceremo questa mischia... sto giocando una partita di rugby... la partita è adesso... non sto pensando alla partita... la sto giocando... ora...».

«Op!», e il mio piede scattò come la lama di un coltello a serramanico. Tallonaggio da manuale. In un lampo la palla era pronta per essere recuperata tra i piedi del terzalinea centro, ma il mediano ordinò di continuare la spinta. Tentavamo l'impresa di arrivare in meta con tutto il pacchetto.

Con perfetta sincronia tutti e otto gli avanti iniziarono a spingere come matti. Spingevamo fino a sentire le vertebre piegarsi. Spremevamo dai muscoli tutta la forza che c'era e che non c'era, fino a sentirci gli occhi schizzare fuori dalle orbite.

I nostri avversari arretrarono di un metro, poi di un altro. Sentirli indietreggiare c'inebriava, rinnovava la nostra energia. Ci sembrava di star compiendo qualcosa di magico, di spostare una montagna invece che aggirarla, ci sembrava di ridisegnare i confini del mondo con la forza della nostra spinta. E la meta si avvicinava.

Avanzammo ancora, ma ad un tratto il pacchetto di mischia avversario tirò fuori quell'energia misteriosa che scopri quando tutto sembra perduto. S'irrigidirono in una resistenza disperata. Si trasformarono in uno scoglio inamovibile. Il nostro pacchetto aveva un certo abbrivio, e riuscimmo a guadagnare ancora qualcosa. Ma non bastava. La meta era lì. Ad un passo. Ne sentivamo l'odore. Ma non riuscivamo più a guadagnare nemmeno un centimetro.

Il nostro terzalinea centro, ultimo uomo della mischia, aveva la palla ancora tra i piedi. Il mediano finse di raccoglierla e di partire all'interno, ingannando il diretto avversario. Fu invece il nostro terza centro a prendere la palla ed a lanciarsi dalla parte opposta. I1 terzalinea ala avversario lo placcò d'incontro. Un placcaggio basso, perfetto, spaventosamente efficace, che in pratica rispedì il mio compagno al mittente. Caduto rovinosamente a terra lasciò il pallone, e subito intorno a lui, come le piastrine su una ferita, coagularono gli altri giocatori. Si formò un raggruppamento. Eravamo a due tre metri dalla linea di meta. Non di più. Riprendemmo ad avanzare facendo girare la maul. La lotta era serrata, ma gli avanti avversari resistevano. I loro trequarti si erano disposti sull'ultima linea bianca del campo di gioco, dove sorgeva muta e carica di significati, la grande H dei pali. Era l'estrema linea di difesa. Alle loro spalle c'era ormai solo l'area di meta. L' horror vacui. Se fossero indietreggiati ancora, noi avremmo segnato.

Il pallone era pronto per essere giocato. Il nostro mediano, con calma sovrumana, guardò prima a destra poi a sinistra, osservando attentamente lo schieramento avversario. Stava per chiamare la palla, quando il pilone la raccolse dalle mani del compagno e si staccò dal raggruppamento tentando di sfondare quell'ultimo diaframma.

Noi volammo tutti dietro di lui, dentro di lui. Diventammo come una cosa sola, ma ancora una volta c'infrangemmo contro l'impenetrabile muraglia della difesa. Un pilone avversario gli si parò davanti, lo placcò, lo sollevò come un fuscello, e letteralmente lo ribaltò all'indietro. Era un giocatore che avevamo imparato a conoscere bene, uno che sapeva farsi rispettare. Aveva un capoccione enorme, disegnato senza compasso, e un collo così largo e grosso che gli sporgeva ai lati delle orecchie. Lo scontro tra i piloni (un paio di quintali e mezzo in due, a occhio e croce) fu una scena da brividi, che in qualche modo ricordava la preistorica lotta tra due dinosauri.

Cadendo all'indietro il nostro pilone perse la palla, ma un secondalinea la raccolse con una mano sola e cercò di tuffarsi in meta. Gli avversari lo afferrarono al volo. C'erano tante di quelle braccia che lo tiravano da tutte le parti, che lui — pur avendo virtualmente oltrepassato la linea di meta — non riusciva più ad atterrare. Rimase per aria, proteso in avanti nel suo surreale tuffo incompiuto. Poiché s'era tutto irrigidito in quella posizione orizzontale, sembrava che noi, spingendo dietro di lui, lo stessimo usando come un ariete contro le mura di un invisibile castello. Ma lo sfondamento non riuscì. Alla fine cadde, e intorno a lui si formò una nuova mischia.

Ormai eravamo praticamente sulla linea di meta. Sarebbe bastato fare meno di mezzo metro. Forse soltanto venti centimetri. La maul ribolliva, sembrava gonfiarsi come un magma incandescente. Il terza centro riprese il pallone e tentò ancora di passare, ma ancora una volta sbatté inesorabilmente contro l'eroica difesa. Venne respinto, e cadendo perse il controllo dell'ovale. Mille mani guizzarono per acchiapparlo, e la più veloce fu quella di un avversario. Qualche attimo dopo, il loro mediano d'apertura — piazzato in mezzo all'area di meta — calciò in touche. Gli corsi incontro alzando le braccia nel tentativo di intercettare il tiro. Ma la palla volò alta nel cielo, verso la linea laterale, parecchio oltre il limite dei ventidue metri.

Il calcio produsse un rumore simile a quello di una schioppettata lontana, rimbombando seccamente nel piccolo stadio.

L'assedio era fallito. I difensori avevano resistito. Leggevamo nei loro occhi il senso di liberazione senza fine che gli procurava l'aver finalmente calciato lontano il pallone, e con lui noi.

L'azione aveva avuto non so quante fasi. Eravamo stremati. Mi fermai un istante a riprendere fiato. L'alternanza di sforzi aerobici e anaerobici taglia le gambe. Sentivo già il primo morso della stanchezza, ma la partita era solo al principio. E poi il rugby è una dolce storia d'amore tra Desiderio e Fatica.

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