Copertina
Autore Boris Pahor
Titolo Necropoli
EdizioneFazi, Roma, 2008 [2005], Le strade 134 , pag. 282, cop.fle., dim. 14x21,3x2 cm , Isbn 978-88-8112-881-5
OriginaleNekropola [1967]
PrefazioneClaudio Magris
TraduttoreEzio Martin, Valerio Aiolli
LettoreMargherita Cena, 2013
Classe narrativa slovena , narrativa italiana , storia: Europa , storia criminale , paesi: Italia: 1940 , paesi: Slovenia , paesi: Francia , paesi: Germania
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Indice


Un uomo vivo nella città dei morti
di Claudio Magris                                     7


NECROPOLI                                            19


Nota dell'Autore                                    265
Note                                                267

Nota bio-bibliografica
a cura di Enrico Bistazzoni                         269


 

 

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Pagina 7

Un uomo vivo nella città dei morti
di Claudio Magris



Durante una visita al Lager di Natzweiler-Struthof, nel quale molti anni prima si era trovato faccia a faccia con l'orrore e l'abiezione più inconcepibili della nostra storia, Boris Pahor osserva un carpentiere che sostituisce – nel campo che è ora un luogo di memoria e di pellegrinaggio per ex deportati come lui e per turisti dell'anima più o meno realmente consapevoli di ciò che stanno vedendo – alcune assi marcite di una baracca dove un tempo avevano vissuto (se in tal caso è lecito usare questo verbo) i prigionieri. «Il mio animo», scrive, «si ribellava a quelle toppe bianche frammiste alle assi annerite, dilavate e consunte; non tanto per il colore, perché sapevo che quell'operaio avrebbe ridipinto le nuove assi rendendole uguali alle vecchie; semplicemente non potevo sopportare la presenza di quei pezzi di legno grezzo piallato dí recente. Era come se qualcuno cercasse di inoculare cellule fresche e viventi in un putridume morto, come se qualcuno innestasse una gamba bianca in un mucchio di mummie annerite e appiattite. Ero per l'intangibilità della dannazione. Ebbene, ora non riesco più a distinguere i pezzi aggiunti; il male ha fagocitato le nuove cellule impregnandole col suo putrido succo».

In questa precisa descrizione di un dettaglio, di per sé marginale, c'è tutta la potenza di questo libro. Lo sguardo micrologico dell'autore coglie l'essenziale – l'orrore così difficilmente dicibile – nel particolare apparentemente insignificante e colloca ogni cosa anche minima in una visione globale, nella totalità della vita e dei processi naturali e storici. La pacatezza della descrizione è la forza di non soccombere al male inaudito e di non lasciarsene sconvolgere; è una pacatezza che fa toccare più di ogni urlo «l'abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale».

[...]


In questo senso, la frase di Necropoli citata in precedenza contiene un'espressione inesatta, perché non è stata "la nazione" italiana a opprimere gli sloveni, così come non è "la nazione" slovena o croata o serba responsabile delle violente e indiscriminate ritorsioni compiute alla fine della guerra contro gli italiani né ad esempio dell'eccidio dei domobranci, i collaborazionisti sloveni, e di ustascia e cetnici compiuto dai titoisti nel 1945 e denunciato – oltre che dal grande scrittore sloveno Drago Jancar – in un libro-intervista con Edvard Kocbek dello stesso Pahor (punito per questo col divieto di entrare in Jugoslavia per un anno) che pure era stato consegnato alla Gestapo proprio dai domobranci.

I fascismi e il nazismo scaturiscono certo dai vari nazionalismi, ma non solo da essi bensì da una particolare reazione (etnica, sociale, economica, politica, culturale, talora perfino religiosa) al radicale sconvolgimento che, con la prima guerra mondiale e successivamente, ha distrutto il vecchio ordine europeo. Per disinnescare il loro mortale meccanismo è necessario sfatare ogni febbre identitaria, ogni idolatrica identità nazionale, autentica quando viene vissuta con semplicità ma falsa e distruttiva quando viene innalzata a idolo e a valore assoluto e si vaneggia superiore alle altre. La particolarità, ha scritto Predrag Matvejević , non è ancora un valore, è solo la premessa di un possibile valore che la trascende; quando viene oppressa, va difesa anche duramente ma senza permettere mai – come diceva, in un momento drammatico per la nazione polacca, a Miłosz suo zio Oscar – che essa diventi il valore supremo. La nazionalità è un valore proprio in quanto non è un dato di natura, bensì ciò che si sente e talora si sceglie di essere: Martin Pollack ricorda ad esempio come a Tόffer, una piccola cittadina nella Stiria inferiore, nelle tensioni fra tedeschi e sloveni fra Otto e Novecento, un caporione tedesco-nazionale si chiamava Drolz e un nazionalista sloveno Drolc.

Necropoli è un ritratto a pieno campo e allo stesso tempo stringato – mai patetico – della vita (della non-vita, della morte) nel Lager. Un possente affiato umano coesiste con una nitida e fredda precisione, in una perfetta struttura narrativa che interseca il racconto del passato – della prigionia, rivissuta nel perenne presente dell'orrore – e il resoconto del presente, della rivisitazione molti anni dopo di quegli inferni bonificati e divenuti museo e memento di se stessi, non senza le ambiguità implicite in questo sempre incerto superamento ufficiale del passato.

Necropoli è un'opera magistrale (se è lecito usare giudizi estetici per una testimonianza del male assoluto) anche per la sua limpida sapienza strutturale, per l'intrecciarsi di tempi – verbali ed esistenziali – che intessono il racconto. In un libro in cui non c'è la minima sbavatura vi sono momenti particolarmente indimenticabili: le sequenze cinematografiche della collettiva («multicefala») massa dei detenuti sotto il getto d'acqua delle docce, la rasatura del pube che assimila i prigionieri a cani che si annusino a vicenda, le tenaglie che trascinano gli scheletri su cumuli di altri scheletri, i dettagli del lavoro o delle cure prestate dai detenuti-infermieri come lo stesso autore, le forche per le impiccagioni, gli stratagemmi per salvarsi applicando un cartellino con un altro nome all'alluce di un cadavere, i deliri dei morenti; la bocca sempre urlante dei tedeschi assurta a caratteristica antropologica, il ciarpame di fetida biancheria dei morti purtuttavia preziosa per i vivi, il silenzio del fumo che esce dai camini; l'esigenza di ordine che paradossalmente permane pur nell'esecuzione dell'infame lavoro forzato, il segreto egoismo nell'aiuto prestato a un condannato con il sollievo di non essere al suo posto, i miserabili e benvenuti baratti di cicche e croste di pane fra i prigionieri; l'abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto.

Momenti sbalzati davanti all'eternità con possente poesia, come quelle due ragazze che incrociano casualmente per strada la fila dei dannati e nemmeno se ne accorgono, li eliminano dal loro sguardo, come se su quella strada ci fossero soltanto la neve e la bella giornata di sole. Oppure il sorriso di un bambino che si affaccia alla finestra mentre in strada passa quella fila di vittime e sorride; un sorriso innocente, ma «anacronistico» al pari del sole che splende alto nel cielo. O, ancora, quel condannato che prima di essere impiccato sputa in faccia ai carnefici – talora basta uno sputo sul viso di qualcuno per lavare lo sporco dal volto del mondo.

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Pagina 29

La porta di legno è coperta di filo spinato, e chiusa, come allora. Tutto è identico; mancano solo le sentinelle sulle torrette.

Anche adesso, come allora, bisogna aspettare davanti alla porta; con l'unica differenza che dalla garitta di legno esce un guardiano che apre la porta e lascia entrare nello spiazzo muto gruppi di visitatori rigorosamente contati. Grazie a questa disciplina, sui ripiani del campo regna il raccoglimento. Il sole di luglio vigila senza tregua sul silenzio; soltanto laggiù in basso, da qualche parte, si spegne di quando in quando l'eco delle parole di una guida, come se la voce di un predicatore risorto dal mondo dei morti venisse ogni tanto interrotta all'improvviso.

Sì, il guardiano mi ha riconosciuto, e la cosa mi ha sorpreso, non pensavo che si sarebbe ricordato della mia visita di due anni fa. «Ηa va?», mi ha chiesto. E questo è bastato a creare una familiarità che ha spazzato via ogni legame fra me e l'andirivieni dei turisti. Il guardiano, capelli scuri, non è un bell'uomo. Θ piccolo, robusto, energico, se portasse in testa un elmetto con lampadina sarebbe íl minatore perfetto. Parla in modo deciso, e tutto lascia credere che sia un tipo rude. In presenza di un ex internato in questo campo quale io sono, dà l'impressione di avvertire un disagio rabbioso per il fatto di doversi guadagnare il pane mostrando il luogo della mia, della nostra dannazione. Così, nel frettoloso cenno di assenso con cui mi lascia entrare da solo nel territorio protetto dal filo spinato, accanto a una amichevole condiscendenza noto anche il lieve desiderio di liberarsi al più presto di me. Dev'essere proprio così. E non ce l'ho con lui, anch'io sarei incapace di parlare a un gruppo di visitatori se ci fosse lì ad ascoltarmi qualche mio compagno del mondo crematorio. A ogni parola avrei timore di incappare in una nota stonata, perché della morte e dell'amore si può parlare soltanto con se stessi o con la persona amata, con la quale formiamo una cosa sola. Né la morte né l'amore tollerano la presenza di estranei.

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Pagina 42

[...] Perciò, una settimana dopo la visita di Jean, mentre mi trovavo in mezzo alla calca che ondeggiava amorfa in quella cassa chiusa che era la nostra baracca, non feci caso al capoblocco che scandiva un lungo numero in tedesco. Già in gioventù ogni illusione ci era stata spazzata via dalla coscienza a colpi di manganello e ci eravamo gradualmente abituati all'attesa di un male sempre più radicale, più apocalittico. Al bambino a cui era capitato in sorte di partecipare all'angoscia della propria comunità che veniva rinnegata e che assisteva passivamente alle fiamme che nel 1920 distruggevano il suo teatro nel centro di Trieste, a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro. Il cielo color sangue sopra il porto, i fascisti che, dopo aver cosparso di benzina quelle mura aristocratiche, danzavano come selvaggi attorno al grande rogo: tutto ciò si era impresso nel suo animo infantile, traumatizzandolo. E quello era stato soltanto l'inizio, perché in seguito il ragazzo si ritrovò a essere considerato colpevole, senza sapere contro chi o che cosa avesse peccato. Non poteva capire che lo si condannasse per l'uso della lingua attraverso cui aveva imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo. Tutto divenne ancora più mostruoso quando a decine di migliaia di persone furono cambiati il cognome e il nome, e non soltanto ai vivi ma anche agli abitanti dei cimiteri. Ed ecco che quella soppressione, durata un quarto di secolo, raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l'individuo a un numero. Eppure, nonostante gli innumerevoli steccati di righe bianche e bluastre, flessibili e ondeggianti, mi trascinassero via come un mare in tempesta, quella catena di fonemi tedeschi gridati dal capoblocco, che aveva generato turbamento nell'atmosfera sorda della baracca, indicava proprio me.

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Pagina 48

[...] Perciò anche la conversazione con Gabriele non si allontanava dall'argomento del forno, e di quanto tempo saremmo potuti restare seduti in quella posizione, preziosa perché lì il corpo poteva stare in pace, senza disperdere calorie. Col suo sguardo perplesso Gabriele sembrava aspettare parole illuminanti da me che ero stato al lavoro fuori del campo, e perciò apparivo ai suoi occhi come un iniziato, un esperto; ma allo stesso tempo vi era in lui lo smarrimento di chi non ha un gruppo a cui legarsi, mentre si accorgeva del senso di sicurezza, leggero ma reale, che a me era offerto dall'appartenenza alla comunità dei deportati sloveni. Eh sì, perché qui, dove avevamo già varcato i limiti della vita, i confini non separavano più noi sloveni, uniti ormai non solo nella lingua comune ma anche nel castigo (inflittoci per aver osato rivoltarci contro i distruttori del nostro popolo), e nella speranza di salvarci. Cercando di adattarsi a questa nuova realtà, Gabriele faceva progetti democratici e parlava di future relazioni di buon vicinato nei nostri territori costieri: intanto il suo sguardo si allontanava da me per dirigersi verso le strisce di stoffa sul tavolo, poi di nuovo tornava a me, come se dubitasse della mia fiducia in quelle sue insolite parole. Riconosco che, mentre lo ascoltavo, quella sua apertura mi risultava strana, e pensavo davvero che quelle espressioni di fratellanza fossero figlie dell'ambiente in cui venivano pronunciate, perché nell'uguaglianza finale di fronte alla fame e alla cenere non era evidentemente possibile restare ancorati a certe prerogative e a certi privilegi difesi fino a poco tempo prima con tanta caparbietà. Per questo mi sembrava fuori luogo che, dopo tanti anni di vita in comune nelle stesse strade e sulle stesse coste, un mio concittadino appartenente all'élite italiana parlasse per la prima volta con un tono di umanità proprio qui dove tutto ciò che è umano veniva negato; era l'uguaglianza dei nostri corpi condannati a rimuovere tutti gli intoppi, e mi ripugnava il pensiero che fosse la comune paura del forno a essere la madrina del varo di una nuova fratellanza. La paura infatti si era impadronita della nostra comunità a cominciare dalla fine della prima guerra mondiale, dai giorni in cui i libri delle nostre biblioteche erano stati accatastati davanti al monumento di Verdi e la gente se la godeva a vederli bruciare. E poi la paura era diventata nostro pane quotidiano quando le nostre case di cultura erano state trasformate in bracieri, quando un fascista aveva sparato al predicatore nel tempio sul Canale, quando il maestro con una tosse sospetta aveva punito con la sua saliva le labbra della scolara che si era azzardata a chiacchierare nella lingua proibita. Non era forse un po' tardivo, di fronte a questo passato, lo sforzo di cercare una parola amica appena arrivato lì nel mondo crematorio? O forse il concittadino italiano ti si avvicina soltanto quando anche lui è minacciato di annientamento?

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Pagina 53

Sì, è il più basso; e subito al di là del reticolato si alza la muraglia dei pini. Ma anche adesso, come allora, non ho la sensazione di trovarmi in presenza di un bosco. Sono ingiusto, lo so, ma non posso fare a meno di considerare quegli alberi come oggetti mummificati, come ruderi che, riportati alla luce, siano stati riordinati e recintati. Mi rendo conto che, per tutto il tempo della mia permanenza qui, non ho guardato neppure una volta al bosco come a una parte della natura libera. Ricordo con chiarezza che l'annientai, lo polverizzai nella mia mente la sera in cui vennero condotti al campo un centinaio di alsaziani, che furono ammucchiati nelle celle di questa baracca. Poi, nella fredda notte di montagna, rosse lingue di fuoco sgusciarono senza interruzione da sotto al tettuccio che copriva il fumaiolo. In quel gruppo c'erano alcuni uomini e anche un prete, ma in maggioranza erano ragazze. Avevano di sicuro il presentimento di dove sarebbero finite: non esisteva probabilmente alcun alsaziano che ignorasse la presenza di un ossario, qui, fra i suoi monti, a quasi mille metri di quota. L'avevano visto in pochi, certo, ma tutti sapevano che c'era, che era fatto a ripiani, che sul ripiano più in basso un fumaiolo fumava senza posa. Le cose di questo tipo si vengono a sapere, come il fatto che sul pendio della morte abbaiavano dei cani lupo. Così anche quelle ragazze dovettero avere il presentimento di ciò che stava per accadere, quando gli autocarri cominciarono a salire su per le curve ripide. Forse avevano qualche speranza, dal momento che gli alleati erano già a Belfort, e dovevano forse fare anche un po' di affidamento sull'aiuto dei partigiani alsaziani; ma in fondo al cuore, là dove l'uomo raramente si sbaglia, quelle ragazze avevano capito: proprio come noi che, dalle baracche silenziose, seguivamo l'arrivo dei camion che scendevano lentamente la ripida strada che fiancheggia i ripiani, e percepivamo nell'aria una vibrazione nuova. Rendersi conto che i nostri padroni si stavano ritirando e che non sapevano cosa fare di quei loro prigionieri fu come una lama di luce che colpisce occhi abituati alle tenebre; e diventammo irrequieti, anche se quell'irrequietezza venne schermata dalla baracca che come una grigia locomotiva senza ruote vomitò fuoco e fumo nel cielo di montagna per tutta la notte, e una corona infuocata restò sospesa sulla cima del fumaiolo come la fiamma del tubo di scarico di una raffineria clandestina. Lunghi mesi ci avevano abituati al fumaiolo e a quell'odore fluttuante nell'aria, ne eravamo saturi, perciò guardavamo come da un cantuccio sicuro le ospiti che provenivano dal mondo dei vivi. Il misero senso di sicurezza che la familiarità con la fine ci offriva contribuì all'improvviso risveglio di un'ottusa rivolta contro la distruzione di quei corpi vivi, sodi e lisci. Era una tensione sorda e immobile, che nasceva dall'impotenza e si perdeva nell'impotenza, una virilità risorta all'improvviso che, davanti alla rivelazione della distruzione di corpi di donne, toccava direttamente il nulla. Eros e Thanatos accomunati con una crudezza terribile; eravamo maschi incatenati ai nostri corpi inariditi e alle baracche di legno, e allo stesso tempo eravamo amanti risvegliati ai quali, proprio nell'attimo in cui riaprono gli occhi, viene rivelata la condanna a un'eterna solitudine. Era la folle consapevolezza che il fuoco ci avesse ucciso la madre prima del nostro concepimento, e l'assurdità dell'esistenza umana procedeva di pari passo con una virilità nata morta di fronte a quel fumaiolo col suo tulipano rosso sangue in cima. Allo stesso tempo la coscienza si ribellava a un'esperienza dell'assurdo così profonda, che minacciava di frantumare il fragile scudo interno alzato contro lo straripare del nulla; ma questo tentativo di ribellione contro l'assurdo era un tentativo sterile, e l'attaccamento alla sopravvivenza finiva per accrescerne le dimensioni, mentre il destino di quei corpi di femmine incrementava la dolorosa, impotente rivolta nei nostri corpi stremati di maschi. Ora lo so che avremmo dovuto balzare fuori dalle baracche, precipitarci giù per le gradinate, assalire tutti insieme la baracca dalla quale un'SS conduceva, a una a una, le ragazze nella baracca col forno, distante venti passi. Le mitragliatrici, sparando dalle torri di guardia a destra e a sinistra, avrebbero falciato la nostra massa zebrata, i grandi riflettori l'avrebbero abbagliata, ma quella fine ci avrebbe salvato dall'angoscia e dall'umiliazione che si erano depositate in noi. Il pensiero, però, in quella moltitudine affamata si era inaridito, se n'era andato insieme al succo vitale che scorreva via dai corpi con la diarrea. Perché quando la pelle diventa pergamena e le cosce si riducono allo spessore delle caviglie, anche i palpiti del pensiero diventano flebili bagliori di una torcia esaurita, guizzi appena percepibili che di quando in quando si levano dall'inerzia prolungata di cellule intimidite, sono bollicine che vagano a lungo sul fondo del mare e poi esplodono non appena raggiungono la superficie. Sì, e anche se in tutto questo il bosco era innocente, quella volta lo rimproverai di offrire, fitto com'era, un nascondiglio alla dannazione. Insieme al bosco condannavo tutta la natura, capace di slanciarsi verso il sole per linee verticali, ma incapace di muoversi nel momento in cui la luce del sole perdeva qualunque senso. Provavo ostilità verso quegli alberi, perché dalla loro ombra sarebbero dovute balzare fuori le schiere dei tanto attesi combattenti che avrebbero impedito il sacrificio di quelle ragazze alsaziane, che si consumava invece nel silenzio. Così io allora proiettavo sul bosco tutta la mia impotenza; ed eccolo qui, ora, muto e rigido davanti a me, come se quella maledizione gli fosse cresciuta dentro finendo per confondersi con la sua più intima realtà.

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Pagina 69

«Ecco», dice attraverso l'altoparlante, «la stanza riservata alle esecuzioni; come vedete, il pavimento è leggermente inclinato allo scopo di far scorrere via il sangue delle vittime. In questa stanza morirono, nel settembre del 1944, centootto alsaziani appartenenti al movimento di liberazione». Sta proprio parlando di quel vecchietto novantenne e di quelle ragazze. Io tento di sgusciare verso la porta, perché ora la gente mi dà fastidio; ma quando, fendendo la calca, mi avvicino all'apertura che immette nella stanza accanto, la voce mi è di nuovo addosso con la sua spiegazione. «Questo, come vedete, è il tavolo di dissezione sul quale un professore dell'università di Strasburgo effettuava vivisezioni e prove batteriologiche». Il professore veniva, questo lo so, specialmente quando doveva controllare le condizioni degli zingari, a cui, nella camera a gas, venivano fatte assorbire quantità diverse di gas, e quindi c'era chi agonizzava più a lungo e chi meno.

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Pagina 79

[...] Fu allora che l'infermiere norvegese mi parlò di Tomaž. «Kamerad Jugoslav», disse; il che spesso significava che si alludeva a uno sloveno del Litorale, perché, in un luogo dove tutto è estremamente semplificato, anche le lunghe spiegazioni diventano superflue. E sebbene portassimo una I maiuscola segnata nel triangolo rosso che avevamo cucito sul petto – perché in effetti eravamo stati catturati come cittadini italiani – noi sloveni del Litorale affermavamo ostinatamente di essere jugoslavi. Il cuore e la mente si ribellavano al pensiero di essere eliminati come appartenenti a una nazione che, dalla fine della prima guerra mondiale, aveva sempre tentato di assimilare gli sloveni e i croati. A questo argomento essenziale, coerente, occorre aggiungere il poco conto, il disprezzo, in cui al campo erano tenuti gli italiani. All'origine di questo atteggiamento c'era lo spaventoso furore tedesco contro il popolo che aveva nuovamente tradito, come aveva già tradito in occasione della prima guerra mondiale. E questo disprezzo tedesco si era trasmesso a tutti quelli che, nella lotta per la sopravvivenza, avevano assunto nel campo una qualche autorità sulla folla anonima. In più giocava un ruolo importante anche la differenza fra il carattere nordico, freddo e riservato, e la sensibilità e loquacità mediterranee; tanto che perfino Leif, seppure norvegese e medico, mostrava nei confronti di un italiano un malumore che spesso sconfinava nell'ingiustizia. Come se per lui l'italiano dovesse essere per forza un lavativo che, blaterando e piagnucolando, cercasse di ottenere una compassionevole benevolenza; anche fisicamente, con la sua figura dritta e fiera, Leif provava repulsione per quella gente bassa di statura che parlava troppo col volto e con le mani. Ecco una ragione di più per capire perché tanto lo sloveno del Litorale quanto il croato dell'Istria rifiutassero di spartire la sorte dei cittadini di uno Stato che li aveva annessi contro la loro volontà.

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Pagina 192

Sono tornato sulla gradinata, quindi sono salito lentamente fino allo spiazzo superiore. Questi stretti ripiani assomigliano a quelli che si succedono sulla ripida costiera triestina, dal mare fino all'inizio dell'altipiano carsico; lì però i terrazzamenti, nascosti tra le acacie e i fitti roveti, seguono sinuosi la linea della costa; da lì puoi entrare nelle vigne, ora a destra ora a sinistra, dove le vecchie viti fronteggiano il sole costringendolo a nobilitare in neri grappoli il succo color rame della terra. Ma quando mi trovavo qui non mi apparve mai l'immagine delle magnifiche scalette che collegano il mare turchino al cielo azzurro, né i filari sui ripiani lunghi e oscuri. Qui la morte metteva in scena la propria vendemmia in tutte e quattro le stagioni, dato che per inaridirsi e perdere succhi vitali ogni periodo dell'anno era buono. Eppure, quando il mio sguardo fissa i nomi incisi sulle colonnine basse, obliquamente tronche, mi dico che altrove lo sterminio è stato molto più sconvolgente. Buchenwald, Auschwitz, Mauthausen. Le testimonianze provenienti da quei luoghi sono rivelazioni immani anche per chi in un lager ci ha abitato. L'immagine della gradinata nella cava di Mauthausen, per esempio. Centottantasei gradini. Dieci pianerottoli. I corpi zebrati dovevano inerpicarsi sei volte al giorno fino in cima alla gradinata, con una pesante pietra sulle spalle. E quella pietra doveva essere pesante davvero, dato che lassù uno stretto sentiero correva lungo l'orlo di un precipizio, e lì stava un kapò che buttava giù con uno spintone chi a suo giudizio aveva una pietra troppo piccola sulle spalle. Quello strapiombo veniva chiamato «la parete dei paracadutisti». Ma si poteva cadere già sulla gradinata, dal momento che i corpi erano magri e le pietre grandi, e i gradini erano costituiti da sassi diseguali e posti di traverso. Quando poi alle guardie saltava il ghiribizzo, respingevano indietro, dalla cima della gradinata, quelli che si erano trascinati ansimando fin lassù, facendoli rovinare su chi stava sopravvenendo, e così a rotolare giù era un misto di pietre bianche e masse striate. Certo, questo sterminio non era troppo diverso dallo sterminio che si verificava nella nostra cava di pietra, ma il raccapriccio che provoca quella gradinata è particolare anche per chi ha avuto molte esperienze di campi di concentramento. Da tempo mi sono reso conto che le mie vicende sono in realtà molto modeste se paragonate a quelle descritte da altri nei loro ricordi. Blaha, Rousset, Bruck, Ragot, Pappalettera. E poi io collegavo ciò che vedevo con i miei fantasmi giovanili. Un mondo vuoto, il mio, che si popolava di volta in volta con le ombre degli sventurati che seguivo con gli occhi. Solo con gli occhi? Sì, perché non permettevo che quelle immagini mi penetrassero in profondità. E non avevo neppure bisogno di ricorrere alla forza di volontà; credo che fin dal primo contatto con la realtà del campo di concentramento tutta la mia struttura spirituale fosse sprofondata in una nebbia stagnante, che filtrava ogni singolo fatto togliendo efficacia alla sua forza espressiva. La paura mi aveva intorpidito tutto l'intreccio dei recettori nervosi, tutto il reticolo dei capillari più sottili; ma allo stesso tempo la paura mi proteggeva da un pericolo ben più grave, quello di un totale adattamento alla realtà. Ecco il perché della mia mancanza di curiosità, e del fatto che non mi passava neanche per la testa di mandare a mente i nomi dei caporioni o di interessarmi a quale fazione appartenessero i pezzi grossi o di seguire la politica interna del campo. Di tutto questo mi resi conto quando lessi le testimonianze degli altri sopravvissuti. Sia come interprete che, più tardi, come infermiere, rimasi confuso tra la folla, cellula sbigottita di un silenzioso terrore collettivo. Terrore che, senza preavviso, mi si aggrappò addosso già la prima mattina, quando, sbarcati dai carri bestiame, entrammo nei grandi bagni di Dachau. E non era un segno di debolezza: dopo quattro anni di vita militare e di guerra ci si è ormai sbarazzati delle abitudini che si avevano da civili, e non ti sorprendono più né le frotte di corpi nudi, né la rasatura dei capelli, né i fantasmi simili a pagliacci in abiti troppo lunghi o troppo corti. A contatto con la casta dei caporali e dei sergenti, una recluta ha avuto modo di constatare a sufficienza quanto siano astratti il valore della civiltà e quello della cortesia. Ma se la cattiveria dei caporali era generata da ristrettezza mentale o da un complesso d'inferiorità, le urla che risuonavano nei bagni sorgevano da una smania distruttrice, che in quel momento la mia mente non afferrò, ma che il mio organismo assorbì una volta per tutte. Perciò non servirebbe a nulla mettere in rilievo il misero spettacolo del taglio dei peli sotto l'ascella o sul pube e l'insopportabile bruciore provocato dal liquido con cui poi te li disinfettavano. C'era la morte, nell'aria. La respiravi. E non si era ancora fatto giorno che già i nostri corpi rasati, lavati e spalmati di disinfettante stavano nudi nella neve di febbraio. Già, adesso mi pare quasi puerile lo spavento provato in quei momenti, puerile quell'intuizione organica di star subendo un'imboscata tesa alla tua vita: se per mesi e mesi lo spettacolo si ripete, ti ci adatti; se non ci lasci prima la pelle, si capisce. Non è che ti adatti al pensiero che morirai, ma all'idea che tutto è regolato in modo da farti morire in breve tempo con certezza quasi assoluta. La forza di questa presa di coscienza, fatta quando il corpo è ancora sano, è molto più avvilente che non dopo, quando l'organismo si è indebolito e i tessuti si sono almeno in parte atrofizzati. Certo, chi si era già imbattuto nei nazisti sapeva che nei loro campi non c'era da aspettarsi nulla di buono; tuttavia il primo trauma, all'entrata nel mondo crematorio, è decisivo. La stessa economia dello sterminio esige che sia decisivo.

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Pagina 215

Θ vero, Resnais ha saputo far sì che gli oggetti del campo parlassero. Ma il suo Nacht und Nebel, per quanto ottimo, rimane pur sempre troppo limitato. Avrebbe dovuto approfondire questa vita. Cioè questa morte. Avrebbe dovuto viverla. Vivere la morte. Ma chissà se poi sarebbe riuscito a guardarla, guardare dentro la morte, con occhio cinematografico. Insomma, gli uomini sono capaci di tutto. Un tempo si beveva il vino nel cranio dei vinti, o glielo si schiacciava fino a deformarlo o a rimpicciolirlo. L'Europa del ventesimo secolo, invece, ha preteso un teschio sulla scrivania, ma un teschio, va da sé, con una dentatura sana e robusta. Il dottor Blaha racconta che a Dachau pelli umane stavano appese come biancheria stesa ad asciugare. Venivano usate per produrre un cuoio fine adatto a calzoni da cavallerizzo, a cartelle, a ciabatte, alla rilegatura dei libri. Non era raccomandabile, chiosa il dottor Blaha, avere una bella pelle. Il suo libro è una galleria di rivelazioni lunga trecento pagine. Pensavo di saperne parecchio sui campi, ma di fronte a testimonianze come la sua mi sento proprio un novellino. Lo ripeto, quando ero lì non cercavo di penetrare i misteri del lager. Li evitavo come un invisibile raggio letale.

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Pagina 224

Ora la forca è davanti a me e protende avida il suo becco di legno verso il cielo estivo. Sotto c'è una cassetta quadrata il cui coperchio si inclina se si preme il pedale che sta dietro il palo verticale. Se la scarpa preme piano, i piedi dell'impiccato scivolano sul coperchio che si inclina piano mentre, di sopra, il cappio stringe piano il collo. Adesso capisco perché rimanemmo in piedi così a lungo. Era una forma di agonia prolungata; come era un'agonia prolungata il deperimento senza fine degli organismi affamati. A quanto pare al tedesco è necessario il ritmo di un lento, raffrenato sadismo con cui torturare se stesso in espiazione degli antichi misfatti della sua razza. In questa lugubre pazzia aveva una parte importante la deviazione sessuale, visto lo zelo con cui il regime procedeva a sterilizzare e a castrare. Negli esperimenti con il raffreddamento in acqua gelida Himmler insisteva perché il prigioniero intirizzito venisse scaldato col corpo caldo di una prigioniera nuda. Venne di persona a Dachau per assistere, e si divertiva un mondo quando in un prigioniero sopravvissuto alla prova del gelo si risvegliava l'istinto sessuale accanto al calore del corpo femminile. Ma ora mi viene in mente che questo arnese di legno è uguale a quello eretto durante la prima guerra mondiale vicino al Piave, quando venivano impiccati i patrioti cechi catturati insieme ai soldati italiani. Penso alle fotografie contenute nel libro di Matičič Sui campi insanguinati: file di rudimentali forche che il generale Wurm aveva fatto innalzare dal Piave al Tirolo per parecchie centinaia di legionari. Gli scarponi militari degli impiccati quasi toccavano terra, mentre la gente intorno guardava imbambolata; chiunque, infatti, poteva venire a vedere. Macabro spettacolo di avvertimento e di paura. Nel libro di Matičič c'è anche una fotografia in cui si vede un boia che sta aggiustando il cappio attorno al collo di un ceco. Il ceco, con le mani legate sul dorso, è ritto su una cassa, ai piedi di un albero sul quale erano stati inchiodati due pezzi di legno per formare un triangolo. Il corpo robusto e tranquillo; il volto acerbo e raccolto, assente. Le palpebre chiuse nascondono chissà quale solitario pensiero. Forse un volo fino alla patria per un ultimo saluto ai suoi boschi, al viso della moglie; ma i lineamenti sembrano già distaccati; vi si addensa una muta e virile tristezza, un isolamento ribelle. Non avrebbe mai potuto immaginare che il suo puro amore per la libertà si sarebbe concluso dietro il recinto di un frutteto italiano, fra mani rapaci che si sarebbero occupate con fervore del suo collo. Il suo viso è un velo scuro sceso davanti a tutto ciò che è umano. Il mondo che lo circonda non lo tocca più, e non si accorge neppure di quel soldato austriaco che, con la mano destra appoggiata al tronco dell'albero, tiene gli occhi fissi sulla cassa che sostiene la vittima e attende impaziente il momento di sferrare un calcio.

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Adesso dovrei dirigermi verso l'uscita: invece indugio ancora, come ho fatto giù in basso, quando non riuscivo a decidermi a risalire la gradinata. Mi guardo intorno per il pendio e mi pare già di percepire l'irrazionale nostalgia che mi assalirà quando sarò fuori di qui. Il silenzioso cimitero di cui un tempo ero inquilino mi ha lasciato uscire, ma solo in licenza, e ora sono tornato. Io abito qui; non ho niente in comune con quella gente che si avvia verso il graticcio dell'uscita, e che tra poco sarà di nuovo intenta a enumerare i fatti, dividere le ore e spezzettare i minuti. Questo è il caposaldo di un mondo perduto che si dilata a perdita d'occhio senza poter mai incontrarsi col mondo degli uomini, perché fra i due mondi non esiste alcun punto di contatto. Perciò rimango ancorato qui, proprio come mi è capitato nel deserto del Sahara, dove si diventa fiamma tra le fiamme, eppure si è tanto avvinti al vuoto sconfinato e all'immensità che ti annienta che poi, quando si è lontani, ci si sente scissi e in preda a un solo desiderio: ritornarci... Solo che il fuoco del deserto è puro, i granelli di sabbia innocenti; invece qui mani di uomini attizzavano il fuoco nei forni: la terra di questo mondo è impastata di ceneri umane. Oppure non ce la faccio a dire addio a questi ripiani per il fenomeno opposto: proprio perché sono così racchiusi in se stessi che riesco ad abbracciarli con un solo sguardo. Non c'è lo smembramento di altri lager, nulla che sporga in lungo o in largo. Si vede tutto. Tutto ha un suo ordine giudizioso. All'esigente padrona sono stati delicatamente scavati dei gradini lungo il pendio, così da permetterle di scendere fino alla sua ara incandescente. Non so. Non so cos'è che mi manca. In ogni caso finirò per andarmene anch'io come gli altri dal cancello di legno, e porterò con me questa atmosfera nella banalità quotidiana. E forse la causa della mia esitazione sta proprio nella necessità di prendere con me ancora qualcosa che vada al di là del silenzio di questa atmosfera. Qualcosa che non eliminerebbe l'immagine, ma ne annullerebbe la forza quasi onirica. Ma non c'è niente da prendere. E oltre tutto anche questa mia visita, con la quale ho portato un briciolo di significato nelle mie vuote giornate di uomo vivo, si sta trasformando mio malgrado in un atto pietistico. E sia pure. Sia pure, questo, un omaggio ai Mani dei miei compagni morti. Ma qui non c'è niente di vivo che potrei portarmi via. Nessuna rivelazione. Al massimo la conferma che non può esistere una divinità buona e onnipresente che sia rimasta testimone muta davanti a questo fumaiolo. E davanti alle camere a gas. No, se c'è qualche divinità, è una divinità che non conosce e non può conoscere distinzione tra il bene e il male. Ma questo, di nuovo e ancora una volta, significa che soltanto l'uomo può dare ordine al mondo in cui vive e cambiarlo in modo che sia possibile realizzarvi le idee buone piuttosto che quelle cattive. Così sarebbe possibile cambiare il mondo, almeno su scala umana. L'uomo si avvicinerebbe all'idea di bontà che sogna da quando è diventato cosciente delle proprie capacità. Si avvicinerebbe alla divinità buona che il suo cuore ha concepito. Sì, ma ora devo uscire: non posso proprio prendere niente come viatico da questo cerchio magico di filo spinato che sta arrugginendo.

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Struthof. Cinquecento metri di strada dal campo di concentramento, giù verso Schirmeck. Poi ancora un breve tratto di sterrata, quasi una mulattiera che si allarga davanti al grande albergo di montagna, lontano parente del Planinski orel di val Trenta. Sono venuto fin qui per il basso edificio sulla sinistra, costruito come un bunker sul lieve pendio; attraverso la porta spalancata le piastrelle bianche delle pareti farebbero pensare a uno stabilimento di bagni in campagna. Ma anche se non sapessi nulla di questa stanza bianca piazzata lì, in mezzo alla radura, basterebbe un'occhiata per rendermi conto che chi l'ha escogitata non l'ha fatto con intenzioni benevole. E anche se non notassi subito l'assenza di docce sul soffitto, trasalirei di fronte all'ondata di vuoto che spira da dentro e avvolge tutto l'edificio, quasi tagliandolo fuori dall'ambiente montano che lo circonda. Davanti a un vero bagno si coglie il ricordo degli zampilli deliziosamente caldi e delle impronte lasciate dai piedi umidi; è un'impressione che si prova anche se si tratta di bagni abbandonati o dissepolti dopo secoli interi passati sotto la cenere vulcanica. Su questa stanza allora non sapevo nulla di preciso; credevo si trovasse chissà dove all'interno del campo. Era circondata da un mistero che non mi intrigava; apparteneva alle immagini da cui istintivamente stavo alla larga. Ora so, dai libri che ho letto, che al professor Hirst vennero consegnati ottanta corpi, donne e uomini, che Kramer, comandante del campo, aveva ucciso col gas fra queste piastrelle bianche dopo averli ricevuti da Auschwitz. Il professor Hirst li custodiva con cura nell'Istituto Anatomico di Strasburgo per studiare su di essi le particolarità somatiche dell'uomo "inferiore". Gli interessavano soprattutto i commissari "ebreo-bolscevichi". Quando gli alleati si avvicinarono a Belfort, tutti questi corpi conservati in alcol a 55 gradi vennero fatti a pezzi e bruciati; così il professor Hirst non poté realizzare i suoi modelli di ominidi, né poté disossare i corpi per ottenere almeno gli scheletri. Berlino sentiva che l'avanzata degli alleati non si sarebbe fermata. Joseph Kramer al processo raccontò che le donne dovevano entrare qui dentro completamente nude; poi Hirst introduceva all'interno del locale mediante un tubo i sali volatili e si metteva a guardare lo spettacolo da un finestrino. Ora questa testimonianza sta appesa al muro, a sinistra dell'entrata. Ciò accadeva nel 1943. L'anno dopo, quando io ero qui, la camera veniva adoperata (almeno per quanto potei constatare) soprattutto per gli zingari. Li vidi nel quinto blocco, quando venni al Revier come interprete di Leif. Prima di allora la camera a gas era penetrata nel territorio della mia fantasia soltanto come un sentore. Nella corrente e negli attriti del fiume degli affamati era rimasta sullo sfondo, molto al di là del fumaiolo e del suo fumo. Sì: quel pomeriggio, quando tornarono nel blocco gli istriani, il male invisibile ci passò vicinissimo. Se quei prigionieri anziani e di bassa statura non fossero tornati fra noi e non ci avessero raccontato la loro avventura, non ne avremmo saputo assolutamente nulla. Non ricordo più dove li avesse raccolti un'SS, forse erano stati prelevati all'interno del blocco. Messi in fila di fronte alla fureria, come animali all'avvicinarsi di una tempesta o di un terremoto avevano sentito un'inquietudine diversa da quella che sale dal vuoto dello stomaco, diversa anche dal lieve tremito che ti assaliva quando ti svegliavano per andare al lavoro. Gli istriani, ancora più disgraziati degli altri sloveni, avevano imparato dalla storia a interpretare tutte le sfumature nella ricca gamma dei presagi. Cominciarono ad agitarsi e a scalpitare come cavalli che sentano odore d'incendio; e l'SS era davvero un vecchio stalliere avvezzo a bestemmiare, a offendere e a picchiare l'animale sulla testa, fra gli occhi, a prenderlo a calci nella pancia. Gridò qualche imprecazione a proposito di zingari della malora; ma loro saltarono su come contadini svegli davanti a un agronomo inesperto. «Noi non siamo zingari», dissero indicando la grande I maiuscola segnata con la matita copiativa in mezzo al triangolo rosso. «Italiener und Zigeuner, gleich!», urlò lo stalliere ricompattando a pedate quei piccoli uomini che avevano sciolto la fila per mostragli l'iniziale che portavano sul petto. Erano lettere storte, tracciate da una mano non abituata a scrivere, ma ben visibili e quindi forse capaci di salvarli. In quel momento, dopo che furono di nuovo allineati e sul punto di essere condotti via, ecco che, come un uccello che presagisce l'inizio del terremoto nelle lontane viscere della terra, uno di quegli uomini smagriti sentì vibrare in sé un nervo nascosto e gridò: «Wir sind Oesterreicher!». Allora lo stalliere si irrigidì come all'ordine di un ufficiale. «Was?», domandò lentamente, pronto ad aggredire quelle creature zebrate. Ma queste ormai stavano già parlando concitate, alla rinfusa, per spiegare la frase miracolosa. Eh sì, parlavano un tedesco che, dalla fine della prima guerra mondiale, si era così deteriorato che l'uomo con gli stivali si ritrovò accalappiato in una matassa aggrovigliata da cui tentava di districarsi nell'unico modo che l'anima tedesca conosce per tentare di risolvere i suoi complessi irrisolti: urlando. Finì comunque col dirigersi verso l'ufficio dell'interprete, un giovane di Lubiana che raggiunse quel crocchio disperato: ma li capiva a malapena pure lui. Visto che non la piantavano più di proclamarsi austriaci, gli venne da alzare la voce, sull'esempio della scuola tedesca. Alla fine, piano piano, riuscirono a spiegare che erano stati cittadini austriaci fino al 1918. Così l'SS li mandò via a calci e poterono tornare da noi al blocco. Questa prova li depresse ancora di più: i loro sguardi saltavano da un volto all'altro, quasi cercassero in noi la spiegazione di ciò che aveva sfiorato la loro fronte come una ventata gelida mossa dalle ali di un uccello notturno. Sì; capii però a quale destino i vecchi istriani erano sfuggiti solo quando vidi nel Waschraum, nel quinto blocco, il primo zingaro disteso sul pavimento di cemento con la schiuma bluastra che gli colava dalla bocca. Non mi chiesi mai dove fosse situata la camera; mi preoccupavo piuttosto dei giovani zingari a cui il professore aveva somministrato una dose minore allo scopo di giudicare meglio l'efficacia del nuovo gas. Mi sembra ancora di vederlo quel giovane, quasi un ragazzo, che pareva un vecchio asmatico per il modo in cui tentava, con difficoltà, di tirare l'aria nei polmoni. Avrei scommesso che si sarebbe accasciato da un momento all'altro, mentre schiudeva la bocca come un pesce fuor d'acqua, o che lo avrebbe schiantato un collasso cardiaco. Invece no, il tormento durava giorni, settimane. Quando passavo davanti al suo giaciglio, il suo bel viso ovale abbronzato mi seguiva sempre. Lo sapeva, certo, che non potevo portargli alcun aiuto, ma con quel suo sguardo implorante forse sperava soltanto di legarmi al suo destino, in modo che si fissasse in me e io lo vivessi in tutta la sua inesorabilità, facendogli compagnia nel suo viaggio verso il nulla.

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Seduto accanto al mio lettuccio, scaldato il latte e imburrata una fetta biscottata, tento di ritrovare il gusto che aveva il bastoncino di margarina spesso un dito: ma il profumo del latte dei Vosgi che sfuma nel pentolino ha scacciato i bagliori del passato. Ho lasciato che li scacciasse. Mentre bevo il latte caldo però mi torna davanti agli occhi la malga sotto il Krn, dove sorseggiavamo il succo tiepido e appena munto delle Alpi Giulie. Forse ci sbagliavamo, ma ci sembrava che sapesse di nigritella, e sentivamo che con la linfa dei nostri monti ci rafforzavamo nella lotta conto il terrore nero. Non potevamo neanche lontanamente immaginare con quali montagne avremmo dovuto sostituire le cime intorno a Tolmino. Sì, sono di nuovo là. Penso ad André. Ho comprato il suo libro all'edicola davanti al campo. Ed è stata così incredibile la sorpresa di ritrovarmi fra le mani la testimonianza di un caro compagno che non ho provato dispiacere a tornare nella valle. Ma sotto la fotografia in cui André è ritratto in uniforme zebrata il giorno della liberazione di Dachau, ho scorto una piccola croce con l'indicazione dell'anno 1954. Te ne sei andato, André, dopo essere sfuggito tante volte ai passi silenziosi dell'inseguitrice invisibile. Nove anni. Ti è stato destinato un periodo troppo breve per poterti impregnare dello splendore delle tue campagne, non hai fatto in tempo a soddisfare l'avidità che colma i nostri sguardi inquieti dal momento in cui si ritrovano nel regno dei colori e della natura che si rinnova. Perché non risposi a quel tuo biglietto con cui mi invitavi a Sens? Me lo mandasti al sanatorio di Villiers: un minuscolo pezzo di carta, di quelli che voi medici usate per scrivere le ricette. Da uomo pratico, mi avevi senz'altro risposto sul foglio che avevi sotto mano; ma lo avevi fatto su carta intestata, per ribadire la tua vittoria sull'anonimato della notte e della nebbia. Ed è così che hai intitolato il tuo libro: N.N. Nacht und Nebel. Le iniziali che portavi sulla schiena, tracciate con pittura a olio rossa. Come all'inizio solo i norvegesi e gli olandesi, poi anche i francesi e i belgi. Due grandi N sulla schiena; significava che non potevate andare al lavoro fuori dal campo e che la vostra fine doveva avvenire nel territorio circondato dal filo spinato. Probabilmente, dici nel libro, le due parole simboliche sono state tratte dall'opera di Wagner. Nacht und Nebel gleich!. E nel punto in cui c'era una persona apparve una colonna di fumo. Non so, bisognerebbe verificare. A ogni modo, so per esperienza quanto piaccia ai tedeschi unire il mostruoso alla musica. La fanfara a Dora, l'orchestra sui nostri ripiani morti. Le note agiscono su di loro come un narcotico particolare. Una specie di hashish, che prima suscita visioni fantastiche, poi eccita l'organismo fino al furore e alla pazzia. Si dovrebbe ricercarla davvero l'origine di questa disumanizzazione, perché le spiegazioni economiche e sociologiche non bastano; e neppure la teoria delle razze di Gumplowitz o i libri di Friedrich von Gagern. Tu, André, per esempio, nelle prime pagine del libro citi come motto le frasi di Nietzsche secondo le quali non può essere grande chi non sente la volontà di infliggere una grande sofferenza. Sì, ogni donna sa soffrire, e anche ogni schiavo; ma la prima condizione di grandezza è, dice, di non piegarsi agli assalti dell'avvilimento interiore e all'angoscia del dubbio quando, infliggendo sofferenza, si ode gridare. I creatori sono inflessibili, dice, e occorrerà raggiungere la beatitudine dell'inflessibilità se si vuole imprimere un proprio sigillo che duri millenni. In queste frasi c'è il germe di tutto il mondo crematorio, benché forse Nietzsche, con la sua élite, col suo tiranno-artista aristocratico, non pensasse a eroi simili a quelli che furono generati dal nazismo. Bertrand Russell sostiene però che a Nietzsche non passò neanche per la testa che il superuomo può essere un prodotto della paura: chi non teme il proprio vicino non prova nessun bisogno di distruggerlo. Θ qui che forse sta l'embrione della giusta spiegazione riguardo alla folle estasi a cui si sono abbandonati i tedeschi. Una paura primordiale. Nell'élite, paura di mancare il momento storico in cui far valere le proprie qualità. Nella folla, paura dell'élite, una paura che si trasforma presto in adorazione dell'autorità, dell'ordine impeccabile, della disciplina assoluta. Perfino l'irrazionalismo e Rosenberg si possono spiegare con la paura: la paura del capitale tedesco di non riuscire a ritagliarsi uno spazio, dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale, nella lotta per le zone d'influenza e per i possedimenti coloniali. Perciò tu, André, hai torto quando nella prefazione domandi al lettore se non sarebbe il caso di annientare una stirpe che ha prodotto Nietzsche, Hitler e Himmler, nonché milioni di esecutori delle loro idee e dei loro ordini. Hai torto perché, senza accorgertene, sei influenzato dal male che ti ha contagiato. Non ti comporti da medico, nella tua santa collera. Θ vero che il chirurgo elimina le parti colpite dal tumore per impedire la metastasi, e si sforza poi di tagliare via anche il tessuto circostante perché potenzialmente nocivo; ma quando abbiamo a che fare con la società umana dobbiamo andarci molto più cauti. Occorre modificare l'ambiente, e non dare il colpo di grazia all'assassino che è stato guastato dall'ambiente. Per questo l'uomo del dopoguerra è rimasto deluso non da chi non ha distrutto il popolo tedesco (che idea mostruosa), ma da chi per attuare piani di conquista rende possibile che si perpetuino le vecchie perversioni, da chi affida a gente infetta la creazione di una nuova società europea, da chi consente lo svolgimento di processi da operetta che sono una presa in giro, pubblica e giuridicamente infiocchettata, per dieci milioni di europei ridotti in cenere. Come dice il dottor Mitscherlich, nemmeno uno degli imputati ha pronunciato in propria difesa la semplice frase: «Mi dispiace». Certo, André: l'esperienza del mostruoso flagello ti ha scosso così profondamente che vorresti soffocare all'origine la possibilità che si ripresenti; hai assorbito il fetore della decomposizione, del marciume e della diarrea in mezzo a cui lavoravamo e dormivamo, e con tutto te stesso ti ribelli alla pietà per una razza che ha a tal punto avvelenato e ammorbato l'Europa e il mondo intero. Ti capisco; ma allo stesso tempo so che sei fuori strada, e mi dispiace che tu non ci sia più, altrimenti domani verrei al tuo ambulatorio, anche per via della quarta edizione del tuo libro. Tu per me sei anche André Ragot, medico a Sens; ma soprattutto rimani quel giovane con gli zoccoli, con l'uniforme zebrata, quasi uno studente con la tua camicia sbottonata, un medico altruista che non ha paura del tifo, amante della propria patria e della libertà dello spirito. Mi sei più vicino tu di quelli che mi stanno accanto fisicamente, ma che rimangono fuori dal nostro mistero.

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