Copertina
Autore Enrico Palandri
Titolo Angela prende il volo
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2000, I Narratori , pag. 136, dim. 142x222x12 mm , Isbn 978-88-07-01570-0
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa italiana
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Pagina 7 [ inizio libro ]

Da questo cielo azzurro che le mattine d'estate chiama lo sguardo lontano, fin dove arriva il mondo e non finisce, Angela è scesa in bicicletta. Cioè, ha preso prima l'aereo, poi è salita in macchina con il padre e si sono infilati nel traffico, tra circonvallazioni e svincoli autostradali che a viverci sono un incubo ma ad Angela sembrano subito belle e moderne, le vene di una enorme bestia; arrivata a Cambridge le hanno prestato una bicicletta e adesso continua a volare con ogni pedalata, come non fosse mai scesa dall'aereo, ancora in cielo, a correre con le nuvole e il vento. Volare bene, verso quello che c'è, via da tutto quello che pensa, teme, crede.

Dal momento in cui suo padre è riapparso con una lettera, verresti in Inghilterra a conoscere la mia nuova famiglia... le sono ritornate in gola le domande che non ha potuto fargli: perché te ne sei andato? era il lavoro? la mamma? ero io che non ti piacevo? Le risposte le conosce, se ne stanno da qualche parte nella loro storia, spiegazioni ragionevoli fino alla banalità; ma Angela non si accontenta di sapere, vorrebbe aprire, iniziare un discorso con lui e non può, le rimane la voce nella bocca per giornate intere e diventa faticoso persino mangiare, respirare, quindi cerca di non pensarci. Meglio lasciare tutto lassù, nella nuvolaglia indistinta che copre il cielo, chissà che non si apra e non torni il sereno!

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Pagina 70

[...] Con gli anni ai ragazzi sognatori e innamorati che eravamo sono subentrati i ragionieri, ed è un disastro. Ci si ricorda tutto, ma da un altro punto di vista. Ci scaraventiamo addosso episodi del nostro passato, quasi volessimo disfarcene. Perché quella volta... perché non me lo hai detto allora? Saltano fuori i contabili della miseria che adesso controllano la verosimiglianza dei castelli in aria costruiti sussurrando all'alba, dopo aver fatto l'amore tutta la notte, e li confrontano con il colore delle bollette e lo sciacquone rotto da un mese. Sono loro adesso che alzano la voce e fanno continuamente i conti, elencano i compiti adempiuti, parlano di soldi, spartiscono le responsabilità. Facciamo conti anche l'uno sull'altro, come se nel matrimonio dovesse esserci una qualche convenienza: contiamo il tempo delle giornate, cosa fai tu e cosa faccio io, barattiamo responsabilità e ambizioni quasi si potesse davvero ridisegnare a tavolino la forma che ha preso la vita comune. Siamo duri: la tenerezza in noi non è morta, si è semplicemente rivolta ai nostri figli e in questo modo ci siamo scoperti improvvisamente adulti, grandi: certamente non più ragazzi. L'illusione amorosa di venire accolti e compresi è stata troncata dai non farmi parlare, ci costringiamo a tacerci a vicenda la nostra infinita giovinezza, ad assumere un tono sempre più distante. L'inconsapevolezza sentimentale, il breve periodo incantato in cui ci si faceva avanti, si provava a dire una parola in più, si è rassegnata all'evidenza sciorinata dai ragionieri.

Se però non si fa posto anche ai ragazzi che siamo per sempre, non c'è nessun amore. L'ho visto in Angela e Thomas oggi pomeriggio mentre tubavano come due tortore sulla panchina in fondo al giardino, appoggiati allo zaino. Una scena che si ripete con mille amanti diversi in tutti i parchi pubblici e le stazioni del mondo, ogni giorno. Prima è stata lei a sussurrargli con voce infantile, guardandolo dal basso in alto, mentre lui rispondeva ai suoi miagolii con un tono baritonale e un'ostentata ragionevolezza. Dopo mezz'ora, quando sono ripassato lì davanti, era lui ad aver steso la testa sulle gambe di lei e a gemere con una voce da tenorino mentre lei gli sorrideva come una madre, un'ottava più bassa. Non capivo cosa dicevano ma non importa, anzi così era anche più chiaro cosa stavano facendo. Chiamavano il bambino che avevano sepolto in sé, ricostruivano nell'altro i genitori, gli archetipi del loro mondo emotivo. L'amore non è tutto così, certo, ma c'è anche un elemento meccanico, ripetitivo, a una certa età tedioso nell'accoppiarsi dei giovani umani.

Appena Angela e Thomas sono arrivati, io ed Elena abbiamo comunque preso al volo l'occasione per uscire dalla freddezza della nostra litigata e scherzare con loro. La voglia di demolire il muro di malumore che ci separa da ore, di aderire all'allegria innamorata di Angela e Thomas, che continuano a toccarsi, baciarsi, guardarsi, ci ha fatto più effetto del vino; comunque questa sera stiamo bevendo tutti parecchio.

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Pagina 82

San Francisco, 5.5.78

Mio caro Olmo,

continui a dire che vuoi lasciare Fisica ma non capisco perché. O forse lo capisco, e con la fisica non c'entra. Ricapitoliamo: c'è un sacco di confusione nella fisica del tempo. Forse è dal 1600 che l'umanità non è stata così confusa su cosa sia il tempo. Ci sono vecchi problemi di sempre (il tempo è nelle cose o nel nostro percepirle?). Ci sono problemi nati con la scienza moderna (con Newton) - per esempio il mondo descritto dalla meccanica non sembra avere nulla che corrisponda all'idea di "adesso", o all'idea che una direzione del tempo (passato) sia diversa dall'altra (futuro). Però ci sono in più una ventata di problemi nuovi, che vengono dalla fisica di questo secolo, che ha fatto passi spettacolari e bellissimi, ma che sono disgiunti tra loro, così che una visione unitaria del mondo non ne è (ancora?) emersa. Se si cerca di mettere insieme i frammenti che abbiamo capito, ne derivano conseguenze strane: sembra seguirne che il tempo non c'è. Cioè che una descrizione del mondo a livello di fisica fondamentale non ha nulla che corrisponda al tempo. Che significa? Nessuno lo sa per davvero.

Alcuni dicono cbe stiamo semplicemente dimenticando un ingrediente nelle equazioni e il tempo ci "deve" essere. Altri, tra cui io, si arrabattano a cercare di dire che si deve poter imparare a pensare il mondo senza tempo. Così come abbiamo imparato a pensare il mondo senza "il centro dell'universo", o senza una nozione di "essere fermo". Questa cosa cbe chiamiamo tempo emerge come effetto complesso solo in certe particolari situazioni (le quali, ovviamente, includono del tutto la nostra esperienza usuale). Fuori da queste il mondo non è organizzato come un fluire nel tempo, ma in qualche altro modo.

Ti mando un po' di cosette, magari c'è qualcosa che ti può interessare. Ciao,

Guido

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Pagina 88

San Francisco, 8.12.78

Caro Olmo,

riprendo al volo dalla mia ultima e molto grosso modo: sappiamo che quando le cose cominciano a esibire un comportamento quantistico si rompe il determiniamo classico. Entrano in gioco leggi probabilistiche. Questo ci porta a supporre che la struttura dello spazio e il flusso del tempo avvicinandosi al cuore del buco nero diventino "incerti", cioè non più univoci, ma "plurimi". Ci possono essere sovrapposizioni di più "tempi" insieme. E l'osservatore può finire per cascare in uno o nell'altro a caso. Laltra cosa che tipicamente si rompe quando si entra in regime quantistico è la continuità. Un pendolo può oscillare con qualunque ampiezza, ma pendoli sufficientemente piccoli perdono questa libertà e possono pendolare solo a certe ampiezze particolari ("quantizzate", da cui il nome meccanica quantistica). Dunque molte quantità fisiche diventano "granulari" nel piccolo. Tempo e spazio devono pure loro essere granulari nel molto piccolo. In particolare il tempo deve avanzare per piccoli balzi, come fossero unità di tempo. Di nuovo, quello di cui ti sto parlando non è ciò che "sappiamo" di questo regime, bensì una vaga intuizione di ciò che sospettiamo possa accadere.

Dunque, il primo caso di limite del nostro sapere, dove tutto può succedere, è il centro del buco nero. Il secondo caso sono i buchi neri piccoli. Un buco nero piccolo è un oggetto che presumibilmente sfugge alla relatività generale perché è troppo quantistico. Presumibilmente irradia energia. Nessuno sa se è stabile o no. Con la tecnologia attuale nessuno si sogna di provare a costruirne uno in laboratorio, ma la cosa non è assolutamente impossibile in linea di principio. Basta concentrare abbastanza energia in uno spazio abbastanza piccolo. Questo crea un campo gravitazionale. Se il campo è abbastanza intenso collassa su se stesso.

Dai buchi neri si può immaginare di uscire ricomposti in un altro tempo. Fa parte appunto del regime di cui non sappiamo abbastanza. Ci sono varie speculazioni in proposito. Una vecchia idea, per esempio, è che quando nel centro del buco nero le cose collassano su se stesse non vengono annichilite in nulla, bensì riappaiono in un altro universo, qualunque cosa ciò possa significare. Mettila così: noi vediamo l'universo intorno a noi con un Big Bang all'inizio, uno scaturire di cose dal nulla. Poi vediamo stelle cbe colassano in buchi neri e sembrano implodere nel nulla. Non è irragionevole pensare che il Big Bang possa essere semplicemente una stella implosa, "vista dall'altra parte" e dunque che a ogni collasso gravitazionale corrisponda un'uscita dall altra parte.

Ciao,

Guido

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Pagina 124

Ho finalmente trovato il tempo di rileggere anch'io le lettere di Guido. Adesso che non mi vergognavo più di dover nascondere al mio amico i trasferimenti di facoltà e non avevo più paura di quello che lui poteva pensare di me, credo di averle capite meglio. Ero sempre pieno di ammirazione per quanto era ampia la base delle riflessioni di Guido, leggendolo mi convincevo senza difficoltà della sua tesi centrale, che il tempo cioè non esiste. Avevo però diverse obiezioni alla sua macchina del tempo. Il progetto rimbalzava su un punto, non capivo bene quale, ma gli ero ostile. Ho pensato che io ed Elena avevamo costruito il nostro tempo: una casa, gli anni, i figli, la nostra storia. Il vero problema della macchina del tempo a cui lavorava Guido era proprio il desiderio di voler fuggire. Siamo noi l'orologio che scandisce il nostro trascorrere, il colore dei capelli, il fiato sempre più corto, la gravità che ci tira in basso e contro cui si battono le nostre ossa e i nostri muscoli fin quando non cedono e cominciamo a cadere. Siamo noi le lancette, i manometri e gli ingranaggi della macchina, costretti ad aderire ai ritmi di oggi, alle mode di cui conosciamo bene la futilità ma che ci portano ugualmente a cambiare insieme agli altri il colletto delle camicie, il taglio delle giacche o dei capelli, le ideologie e le parole. Siamo noi insomma la macchina. Eppure si leggono versi di duemila anni fa e non si va per questo nel passato, né li si porta nel presente. Si legge e si è da un'altra parte. Come quando si sogna, o si ama, e ci si sente circondati da un mondo dormiente. So che la giovinezza di cui non mi sono quasi accorto è passata, ma è anche cresciuta dentro di me. L'avverto quando Angela mi passa vicino, nella lotta per esserci ed esistere che è di giorno in giorno più tenace, nei sentimenti più intensi, nel pensare più a fondo.

Il vero sforzo di Guido era di pensare un mondo in cui il tempo non esiste, fin lì lo seguivo. Inventare invece una macchina per uscire dal tempo accettava la finzione, era semplice tintura per capelli.

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