Copertina
Autore Alberto Paleari
Titolo Volevo solo amarti
EdizioneVivalda, Torino, 2012, I Licheni 108 , pag. 164, cop.fle., dim. 12,5x20x1,2 cm , Isbn 978-88-7480-176-3
LettoreFlo Bertelli, 2013
Classe narrativa italiana , montagna
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Pagina 13

CAPITOLO I



Cristiano si piaceva; gli piacevano i suoi occhi scuri, mediterranei, che senza aver perso il giovanile sfolgorio erano rimasti col passare degli anni ingenui e sinceri, il naso dritto e grande, gli zigomi spigolosi, i capelli anch'essi scuri, con una leggera stempiatura e un accenno di riccioli già un po' brizzolati e tagliati corti, la barba tenuta lunga di due giorni e persino le orecchie un po' a sventola, che a scuola erano state oggetto degli scherzi dei compagni, e che in seguito tante donne avevano intenerito.

Amava il suo corpo di atleta, magro, muscoloso, alto più di un metro e ottanta, pallido per il contrasto col viso abbronzatissimo, e la pancia piatta, e il cespuglio di peli neri da cui pendeva un pene grosso e tozzo, che aveva esibito orgogliosamente negli spogliatoi ai tempi in cui frequentava le palestre.

Un bel cannone, proprio un bel cannone, pensò quella mattina non per la prima volta, attardandosi nel bagno del suo piccolo appartamento di Chamonix. Ma nell'aprire il rubinetto per lavarsi vide l'orologio appoggiato sul lavandino.

Madonna, già le sette!

Si sciacquò la faccia con l'acqua ancora fredda, non c'era tempo di aspettare che si scaldasse, e senza nemmeno asciugarsi mise l'orologio. Ne controllò l'altimetro; dalla sera la quota era scesa di trenta metri. Bene, pensò, oggi farà bello.

Uscì dal bagno. Indossò un paio di comodi pantaloni da arrampicata e una polo leggera. In anticamera gli scarponi e lo zaino con la giacca a vento e la felpa pesante erano già pronti. Prese al volo la piccozza dall'attaccapanni e corse giù per le scale.

Cristiano Saracino, Chris per gli amici: una quarantina d'anni ben portati, guida alpina italiana di origini meridionali. I suoi erano emigrati a Torino negli anni Sessanta: prima il padre, poi la madre e il primogenito. Lui, terzo di tre figli, era nato in quella città qualche anno dopo.

Ma perché guida alpina? A chi gli poneva questa domanda rispondeva solo «i casi della vita», cioè la compagnia, la poca voglia di studiare, l'amore per il rischio, il bisogno di sperperare energie, il desiderio d'avventura, la necessità di non condurre un'esistenza regolata e convenzionale, in più il servizio militare negli Alpini, battaglione Susa, compagnia esploratori, seguito da tre anni di ferma, congedato col grado di sergente.

Se non avesse fatto la guida non sarebbe diventato ingegnere, come desiderava suo padre, e neppure geometra in un Comune della cintura torinese, come il suo titolo di studio gli avrebbe permesso, ma piuttosto mercenario, stuntman, corridore in moto, spegnitore di pozzi petroliferi incendiati. Se avesse conosciuto il mare sarebbe forse diventato navigatore solitario, e se per disgrazia si fosse messo sulla cattiva strada, spacciatore di droga, delinquente, killer. Per fortuna le montagne non sono distanti da Torino.

Quella mattina l'aria era frizzante, il cielo sereno; dalle cime delle Aiguilles di Chamonix il sole mandava certe sciabolate di luce simili a raggi laser che facevano brillare di riflessi rosati le finestre del grattacielo dell'ENSA. Cristiano non si illudeva: l'aria di Chamonix, come quella di molte località turistiche famose e frequentate, era ormai irrimediabilmente inquinata, ma quella mattina, forse a causa della brezza leggera che spirava da nord, lo era un po' meno del solito.

Abitava sopra il Ruisseau, un piccolo bar senza pretese e un po' sciupato dal tempo come la maggior parte dei suoi avventori, sulla route du Bouchet, proprio davanti all'ENSA. Il suo appartamento era un bugigattolo di due stanze preso in affitto per la stagione, uno studiò come dicevano lì, che costava un occhio della testa, ma a Chamonix una guida può metter da parte dei bei soldi lavorando anche solo poche stagioni.

Il bar era già aperto, era sempre il primo ad aprire. Davanti si era fermato il camion della spazzatura, l'autista e due spazzini stavano bevendo il caffè. Cristiano era troppo in ritardo per fermarsi a fare colazione e le solite due chiacchiere con loro, li salutò con un cenno attraverso la porta a vetri: la bella Sylvie li stava servendo da dietro il bancone. Lei gli fece segno, alzando verso la bocca indice e pollice uniti, come per bere da una tazzina, lui le rispose indicando l'orologio, poi aprì la serratura della bicicletta legata con una catena al palo dello stop e filò, pedalando in piedi, verso la partenza della funivia.

Ma Chris Saracino non era venuto a Chamonix per far soldi.

Prima di trasferirsi sotto il Monte Bianco abitava a Torino e lavorava un po' dappertutto in giro per le Alpi, anche se non stava mai via più di una settimana. Tornato a casa da una escursione in Austria non aveva trovato Lorena, la sua compagna: scappata con le bambine insieme a uno che aveva un'agenzia interinale, un mercante di schiavi, come si definiva lui stesso per scherzo, quel maiale. Amico di famiglia, naturalmente.

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L'enjambée, la première tour, la seconda, la terza, la boîte aux lettres, cioè la buca per lettere, spaccatura rettangolare nella roccia in cui si deve passare contorcendosi — se invece di essere rettangolare fosse rotonda si chiamerebbe trou du canon — è il passaggio più difficile dell'intera via, quinto grado, che Marion supera con una certa eleganza, la quarta torre con la sua placca aerea ed esposta di ruvido granito.

Il bello dell'arrampicata, Marion se ne accorge subito, è che puoi avere tutti i problemi del mondo (il tuo amore ti ha lasciato, l'ansia di vivere ti sta travolgendo, la tua vita è un totale fallimento), ma quando arrampichi essi spariscono. C'è nell'arrampicata una specie di sottrazione, di eliminazione di ciò che non sia arrampicare. Quando arrampichi tutte le difficoltà della vita come per miracolo si riducono a una sola, di una semplicità spaventosa: come faccio a raggiungere quell'appiglio là in alto?

La vita normale di tutti i giorni nell'arrampicata resta alle spalle, dove c'è anche il vuoto che non bisogna guardare. La vita dell'arrampicatore si riduce a quel cerchio di roccia di circa un metro di diametro che gli sta davanti, che gli pone continue domande, vere domande esistenziali. Ma non di natura intellettuale come siamo abituati a pensare delle domande esistenziali, non domande che hanno a che fare col pensiero, qui il pensiero non c'entra: le domande esistenziali dello scalatore sono tragicamente pratiche e hanno a che fare con il corpo, coi movimenti e con la stabilità del suo stesso corpo.

Via via che Marion saliva, lunghezza di corda dopo lunghezza, avendo il suo organismo esperienza di nuovi equilibri e a questi equilibri adattandosi istintivamente, l'arrampicata diventava più fluida e sicura, e di conseguenza meno faticosa. Il suo corpo le sembrava più leggero, quasi che, come il pensiero, stesse anch'esso diventando essenziale: erano mesi che non si sentiva così bene.

Lui, la guida, la guardava senza imbarazzo: ora sì, poteva guardarla, faceva parte dei suoi obblighi professionali, e dentro di sé era contento e l'approvava. Ogni volta che Marion arrivava in sosta su un piccolo terrazzo, lo coinvolgeva in una sfera olfattiva fatta di profumo e sudore mescolati insieme. Quando gli capitava di sfiorarle, nelle manovre, un braccio, o una mano, o di sentire il contatto o solo il calore dei suoi fianchi morbidi, o di vedere, attraverso la cerniera socchiusa del golf l'attaccatura del seno, provava un desiderio fortissimo di accarezzarla, abbracciarla, stringerla, baciarla: da quando non toccava la pelle di una donna?


Raccontano gli storici che il 12 luglio 1926 gli alpinisti Cameré e Dewas, durante la prima ascensione della Cresta Ovest del Peigne, furono allietati dalla compagnia di numerose farfalle portate dal vento del sud. Farfalle che a quell'altezza e in quel deserto di roccia, se non fossero state trasportare dal vento proprio quel giorno, non il giorno prima o il successivo, sarebbero soltanto morte di freddo e fame la sera stessa, e invece, pur morendo ugualmente di freddo e fame la sera stessa, come fanno tutte le farfalle a tremila metri, divennero nello stesso tempo anche immortali, perché la cresta si chiamò da allora, Arête des Papillons.

Così nell'estate del 1905 un certo Beaujard e la guida di Chamonix Joseph Simond furono accompagnati, durante la prima salita del vicino ago roccioso quotato 3487 metri, da due aquile che volteggiarono intorno a loro per tutto il tempo della scalata, e da allora la cima prese il nome di Aiguille des Deux Aigles.

Non si sa quali pellegrini incontrarono gli stessi Beaujard e Simond nella medesima estate del 1905 sulla parete sud dell'Aiguille des Pèlerins, forse i pellegrini erano loro stessi, e il pellegrinaggio era quello di salire le montagne.

Dell'Aiguille du Plan il nome è a prima vista spiegabilissimo, si tratta della guglia che sta sopra il piano, ma ci si perde in un labirinto di specchi quando si scopre che il piano sottostante si chiama Plan de l'Aiguille.

Lui, la guida, tutte queste informazioni sulla toponomastica locale, pur conoscendole per averle lette sulla "Vallot", non volle darle alla cliente quando, giunti felicemente in cima al quarto gendarme della cresta, prima di intraprendere la discesa per il facile Couloir des Papillons, lei gli chiese: «Perché si chiama così?».

Infatti rispose solo: «È per via delle farfalle». Una guida non deve saperla troppo lunga, basta portarli in cima, i clienti, i libri sono capaci di leggerli anche loro.

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Dopo cena Cristiano andò in cucina ad aiutare a lavare i piatti e come al solito Didier, con lo strofinaccio in mano, si mise a filosofeggiare: «L'uomo è una carogna che cammina», disse, «fin dalla nascita combatte con la morte che alberga dentro di lui».

«Ah, stasera siamo allegri», disse ridendo forte Marie, l'aiuto cuoca, con le mani affondate fino ai gomiti nell'acqua saponata bollente.

«Miliardi di microbi e batteri lavorano continuamente per mandarci in putrefazione; la vita è solo questo, una battaglia continua del nostro corpo per vincere quei batteri. Se solo per un momento abbassa la guardia, ecco la malattia: il corpo comincia a decomporsi, è ancora vivo ma già puzza di cadavere».

«Asciuga bene quella tazza, cadavere ambulante, e parlaci per favore di qualcosa di più allegro», disse Marie.

«Va bene, allora questa sera vi parlerò delle deiezioni umane in alta quota», le rispose Didier.

«Noooo, le deiezioni no!». Un coro si levò unanime dalla cucina.

«Invece sì, sento che ormai siete maturi per il discorso sulle deiezioni».

«Ogni giorno, come sapete, le funivie dell'Aiguille du Midi sul versante francese e di Punta Helbronner sul versante italiano del Monte Bianco, scaricano centinaia di persone. Queste persone restano in alta quota mediamente un paio di giorni. In questi due giorni devono, com'è giusto, espletare i loro bisogni naturali. Noi, qui ai Cosmiques, abbiamo gabinetti chimici che vengono svuotati regolarmente in bidoni e portati con l'elicottero nelle fogne di Chamonix, ma la maggior parte della gente i suoi bisogni, liquidi o solidi che siano, li fa in giro, sui ghiacciai cosiddetti eterni, anche se ben sappiamo che eterni non sono neppure loro.

Infatti vediamo continuamente lungo le piste tracciate dagli alpinisti, macchie gialle e marroni, che vengono periodicamente nascoste dalle nuove nevicate, ma che si riformano dopo i periodi anche brevi di bel tempo».

«E allora, cosa devono fare questi poveri alpinisti», chiese Marie sghignazzando, «portarsi nello zaino un bidoncino per farla lì, in attesa di svuotarlo nel gabinetto, a Chamonix?».

«Bella idea», disse Didier, «bella idea, ma lascia che finisca il mio discorso, per farti capire la gravità del problema: non c'è niente da ridere».

«Dunque», riprese Didier, «più in basso, nelle foreste e nei prati, ci sono meno controindicazioni a farla in giro, lì il caldo e la vitalità della natura ci pensano loro a decomporre in pochi giorni i nostri bisogni. Ma qui, in alta quota, dove per il freddo le reazioni chimiche sono estremamente rallentate, dove il clima non permette la sopravvivenza di quei batteri che trasformano i residui della digestione animale nei loro elementi primari, qui, in questo ambiente quasi sterile, le nostre deiezioni sono destinate a rimanere a lungo».

«Ah ah», disse Marie, «tu vuoi dire che il ghiacciaio della Mer de Glace tra un po' dovremo chiamarlo della Merde Glace».

«Certo, se non facciamo qualcosa saremo presto sommersi dalla nostra merda».

Nella cucina regnava l'ilarità generale: «Se non ci fossi tu Didier, come faremmo? Coi tuoi discorsi abbiamo finito di lavare i piatti senza accorgercene».

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La via che dai Cosmiques porta al Bianco è anche detta "Les trois Monts Blancs" perché, prima di arrivare in cima al Monte Bianco vero e proprio, supera le spalle di altri due Monti Bianchi: il Tacul e il Maudit. Una cordata ben allenata, con un paio di digressioni di un'ora ciascuna potrebbe anche raggiungere le cime del Tacul e del Maudit, in questo modo si salirebbero tre Quattromila in una sola giornata. Ma nessuna guida diretta al Monte Bianco con un cliente lo fa mai: è troppo importante la cima vera e propria per sprecare le forze sui due "Bianchi" minori. Semmai al ritorno, se non è tardi e il cliente è in forma, si può aumentare il bottino di montagne, ma ciò avviene raramente.

Cristiano teneva un passo lento e regolare, molte cordate come al solito lo sorpassavano, ma lui sapeva che prima o poi le avrebbe raggiunte quasi tutte: a quella quota era importante risparmiare le forze, non andare in debito d'ossigeno. Più in alto l'aria sarebbe stata ancora più rarefatta e per chi, come Marco, non era perfettamente acclimatato, ogni sforzo inutile sarebbe stato pagato caro.

Il versante nord del Tacul non è difficile e normalmente c'è una traccia nella neve, come se fosse un sentiero, però è pericoloso perché alla sua sommità si trovano numerosi seracchi che ogni tanto cadono. Il Tacul è forse il Quattromila più frequentato delle Alpi, e capita quasi tutti gli anni che qualcuno muoia sotto il crollo di questi seracchi.

Sembra incredibile che non si faccia niente per evitare queste morti. C'è del fatalismo nel continuare a seguire un percorso che si sa essere pericoloso. È anche vero che non ci sono alternative: se si vuole andare in cima al Tacul o al Maudit o al Bianco per la via più facile, bisogna passare sotto quelle seraccate la cui caduta è imprevedibile. Lo sanno tutti, le guide, i clienti, gli alpinisti: per fare il Tacul occorre restare un paio d'ore in salita e poco meno di un'ora in discesa, sotto il tiro dei seracchi. Forse correndo si riuscirebbe a starci un quarto d'ora di meno, ma cosa cambierebbe?

«Andiamo pure adagio e non consumiamo energie», disse infatti Cristiano, «tutta la strada che facciamo di notte è guadagnata, l'importante è arrivare sotto la spalla del Maudit col primo sole, essere là prima servirebbe solo a prender freddo».

Infatti arrivarono all'alba alla crepaccia terminale della spalla del Maudit; come al solito c'era la coda per superare il piccolo strapiombo ghiacciato che immetteva sul pendio superiore. Mentre aspettavano il loro turno bevvero il tè caldo e zuccherato del thermos e mangiarono una barretta energetica ciascuno.

Cristiano sapeva che la maggior parte degli abbandoni avviene tra la spalla del Maudit e il Colle della Brenva, intorno ai quattromilatrecento metri: se si supera quella quota si arriva quasi sicuramente in cima, anche se spesso a fatica. In quel punto c'è una lunga traversata leggermente in discesa, spesso ghiacciata; qui la guida raccomandò al suo cliente di piantare tutte le punte inferiori dei ramponi nel ghiaccio, non solo la fila di punte che sta verso la montagna. Per il momento Marco stava bene ed eseguiva con diligenza le manovre richieste. Al Colle della Brenva, orlato di immense cornici di neve, Cristiano gli disse che ce l'avrebbero fatta.

Salirono faticosamente il ripido Mur de la Côte, passarono di fianco ai Petit Rochers Rouges: ormai erano a più di quattromilaseicento metri, l'andatura era lentissima ma regolare. Alcuni alpinisti procedevano a scatti, facevano pochi metri e si fermavano ansanti con la testa appoggiata alla piccozza, loro invece continuavano a camminare a passi brevi e lenti, cercando di abbinare la respirazione ai passi: un passo un respiro, un altro passo un altro respiro, e così via. Dei più di cento alpinisti partiti al mattino dal rifugio solo una ventina erano arrivati fin lì, quasi tutti con la guida, gli altri erano disseminati lungo la via, chi seduto, chi stravaccato per terra, molti già in discesa, dopo aver rinunciato per il mal di testa o di stomaco o per quel senso di sfinimento e abulia che in alta quota prende coloro che non sono acclimatati.

Arrivarono in cima alle otto del mattino, sotto di loro il versante francese era ancora blu scuro, già oro quello italiano, il vento sollevava fili rosa di tormenta. La vetta li sorprese all'improvviso, cupola di neve rosa impastata di fatica ed emozione, quando ormai Marco non ci sperava più e pensava che fosse solo una delle tante gobbe da superare e che dietro ne avrebbe trovata un'altra. In cima non c'era niente, solo neve: Cristiano notò per l'ennesima volta che il panorama non era bello, una distesa infinita di montagne più basse, che sfumavano all'orizzonte nello smog della pianura che nascondeva il verde dei campi e l'azzurro dei laghi.

Piccoli, quasi invisibili siamo nell'immensità del paesaggio, e malgrado ciò siamo riusciti a rovinare tutto.

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