Copertina
Autore Giulio Palermo
Titolo Baroni e portaborse
SottotitoloI rapporti di potere nell'università
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2012, Report , pag. 284, cop.fle., dim. 14x21x1,4 cm , Isbn 978-88-359-9214-1
LettoreGiangiacomo Pisa, 2013
Classe universita' , sociologia
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Indice


INTRODUZIONE                                                 13

    I.  STORIA DELLA COOPTAZIONE UNIVERSITARIA

1.  LA NASCITA DEL SISTEMA UNIVERSITARIO                     27

    L'università nel processo di unificazione nazionale      28
    Le forme di rappresentanza del potere accademico         31
    Il principio elettivo nel dibattito accademico           34

2.  DAL FASCISMO ALLA REPUBBLICA                             39

    L'università fascista                                    40
    La defascistizzazione dell'università                    45
    L'università repubblicana                                47
    I rapporti tra potere baronale e mondo politico          52

3.  IL SESSANTOTTO                                           55

    Riforma, resistenze conservatrici e istanze
        rivoluzionarie                                       56
    Potere baronale e contropotere studentesco               58
    L'impatto del movimento studentesco sui rapporti
        baronali                                             60

4.  IL SETTANTASETTE                                         67

    Il problema della docenza                                68
    Democratizzazione formale e riaffermazione dei
        rapporti baronali                                    71

5.  L'AUTONOMIA UNIVERSITARIA                                77

    I nuovi rapporti tra ministero e università              78
    L'autonomia nel processo di reclutamento                 84
    Alternanza e continuità tra centro-sinistra e
        centro-destra                                        91

6.  DAL REGNO AL MERCATO                                    101


    II.   I MECCANISMI DELLA COOPTAZIONE

7.  IL PROCESSO DI COOPTAZIONE                              107

    Il rapporto cooptatore-cooptando                        107
    Il concorso di reclutamento                             110
    La cooptazione vista dagli universitari                 118

8.  ASPETTI QUANTITATIVI DEL RECLUTAMENTO PER COOPTAZIONE   123

    Il fenomeno dell'auto-reclutamento                      123
    Le chiavi del successo accademico secondo gli
        universitari                                        126
    L'importanza dei titoli scientifici nei concorsi        128
    L'elezione delle commissioni di concorso                134

9.  I RAPPORTI DI POTERE INDOTTI DAL PROCESSO DI COOPTAZIONE137

    Rapporti di potere verticali e orizzontali              138
    La valenza distruttiva del potere                       140
    Le manifestazioni empiriche del potere                  142


    III.   CONCEZIONI DEL POTERE

10. L'ONTOLOGIA DEL POTERE                                  147

    Concezioni del potere e metodi d'analisi                147
    Potere di agire e potere su qualcuno                    152
    La riproduzione dei rapporti di potere                  154
    Potere interpersonale e coercizione sociale             157
    Strutture e meccanismi coercitivi nei sistemi di potere 163

11. ASPETTI PROBLEMATICI DEI RAPPORTI DI POTERE             167

    I rapporti biunivoci di potere                          167
    Problemi teorici derivanti dalla dinamicità delle
        preferenze                                          169
    Esercizio del potere, abuso di potere e dovere          172
    La misurazione del potere                               175

12. IL DIBATTITO SUL POTERE NELLE SCIENZE SOCIALI           179

    Le tre dimensioni del potere in sociologia e nelle
        scienze politiche                                   179
    L'approccio economico al potere                         182
    La replica marxista                                     187


    IV.   I RAPPORTI DI POTERE NELL'UNIVERSITΐ

13. L'APPLICAZIONE DELLA CONCEZIONE INDIVIDUALISTA
    ALL'UNIVERSITΐ                                          197

    La concezione uni-dimensionale del potere
        nell'università                                     198
    La seconda faccia del potere accademico                 200
    L'università come mercato non concorrenziale            202

14. VERSO UNA CONCEZIONE RADICALE DEL POTERE ACCADEMICO     207

    L'individualismo metodologico e i soggetti esclusi
        dalla cooptazione                                   208
    Preferenze soggettive e bisogni oggettivi nel processo
        di cooptazione                                      212
    L'illusione dei rapporti di potere da mancanza di
        concorrenza                                         215
    La base sociale dei rapporti interpersonali             217

15. L'ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE ACCADEMICO                 219

    Tipi di capitale e rapporti di potere                   220
    Il capitale accademico e le sue trasformazioni          225
    La rilevanza empirica dei tipi di capitale e i rapporti
        di classe                                           233

16. GLI EFFETTI SOCIALI DEL POTERE ACCADEMICO               241

    Cooptazione, potere e pensiero critico                  242
    Selezione sociale, disciplinamento scientifico e
        riproduzione culturale                              244
    La dimensione classista della cooptazione               247
    Cooptazione e meritocrazia                              249
    La cooptazione nell'habitus degli universitari          252


    CONCLUSIONI                                             255

    La cooptazione come modo di governo dell'università     256
    La cooptazione senza concorso                           257
    Gli universitari e la cooptazione                       261
    Teoria borghese del potere e pluralismo democratico     262
    L'università come sistema di potere                     265


    RINGRAZIAMENTI                                          271
    BIBLIOGRAFIA                                            273


 

 

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Pagina 13

Introduzione



In questo libro affronto i rapporti di potere all'interno dell'università e il modo in cui tali rapporti condizionano la produzione scientifica e, più in generale, l'assolvimento delle funzioni economiche e sociali dell'università. Il tema del potere è centrale negli studi sociologici, economici e di scienze politiche. Curiosamente però, nonostante gli sforzi di elaborazione teorica e di verifica empirica compiuti dagli scienziati sociali nei più disparati campi in cui si pongono questioni di potere, non esiste ancora una vera linea di ricerca sui rapporti di potere nell'università, nella sede cioè da cui questi scienziati osservano il mondo e sviluppano le loro concezioni.

Secondo un'interpretazione diffusa, promossa soprattutto dagli accademici stessi, l'università è il luogo dell'autonomia scientifica e della libertà didattica e di ricerca e la gran parte degli universitari non si sente affatto vittima, né tanto meno artefice, di rapporti di potere.

Secondo un'interpretazione opposta, l'organizzazione dell'università, i suoi canali d'accesso alla docenza e il suo modo ordinario di funzionamento sono invece basati su rigidi rapporti di potere sia formali che informali. Non so chi sia stato il primo a ricorrere all'immagine dell'università come baronia feudale, ma si è trattato certamente di una fortunata rappresentazione icastica oggi divenuta d'uso comune, tanto che il vocabolario della lingua italiana Treccani alla voce «barone», fra le altre, riporta questa definizione:

I baroni della cattedra o dell'università, docenti universitari che sfruttano abilmente il loro prestigio e le loro relazioni per esercitare un vero e proprio potere politico sia all'interno del mondo universitario sia fuori di esso.

Secondo questa concezione, l'organizzazione dell'università italiana ricalca una sorta di sistema feudale, governato da potenti baroni che dettano legge nei loro rispettivi feudi e che si confrontano, e talvolta si scontrano, in tutte le decisioni che riguardano l'università: dalla didattica alla ricerca scientifica, dalla spartizione di risorse pubbliche alla gestione dei rapporti con le imprese private, dalle decisioni di ordinaria amministrazione al reclutamento dei docenti universitari stessi.

Il problema non è dunque semplicemente di capire in che misura l'università sia effettivamente regolata da rapporti di potere, ma di spiegare anche come la stessa realtà universitaria possa dare luogo a rappresentazioni diametralmente opposte da parte dei soggetti che ne fanno parte e di quelli che invece la osservano dall'esterno.

Ovviamente, questo non significa che gli universitari la pensino tutti allo stesso modo, né che fuori dell'università prevalga una visione puramente baronale dei rapporti accademici. Tuttavia, il fatto stesso che gli universitari siano così restii a dipingere il loro sistema come regolato da rapporti di potere costituisce in sé un fenomeno da spiegare, e la spiegazione non può che risiedere nei meccanismi di selezione e nell'evoluzione culturale dell' homo academicus. Si tratta dunque innanzi tutto di capire chi è il docente universitario, qual è la strada che ha seguito per accedere alla sua posizione e quali sono le ragioni del suo successo accademico.

Per questo il nostro studio dei rapporti di potere nell'università deve partire dall'analisi dei meccanismi di reclutamento e di carriera, i quali, per ragioni storiche, sono incentrati su pratiche cooptative, attuate dietro l'apparenza formale del concorso pubblico. La cooptazione genera rapporti interpersonali tutti particolari, apparentemente liberi e spontanei, ma soggetti, al tempo stesso, a regole e norme sociali che condizionano pesantemente i comportamenti individuali. Anche se le procedure concorsuali durano pochi giorni, il controllo del reclutamento e della carriera induce gli universitari e gli aspiranti tali ad intraprendere particolari rapporti e ad assumere particolari atteggiamenti, che finiscono per coinvolgere l'intero spettro dei rapporti accademici.

La prima parte del libro si apre dunque con un'analisi storica del ruolo della cooptazione, volta a mostrare il carattere essenziale, e niente affatto accidentale, di questa pratica di reclutamento. Da qui discende l'esigenza di spiegare scientificamente questo fenomeno e le conseguenze che esso produce.

In senso tecnico, la cooptazione è la pratica attraverso la quale l'accesso ad un certo gruppo è controllato direttamente dai membri del gruppo stesso. Secondo questa definizione, rigorosa ma restrittiva, la cooptazione universitaria si sviluppa pienamente solo con la caduta del fascismo, dopo la seconda guerra mondiale, quando il corpo docente assume saldamente nelle proprie mani il controllo dei meccanismi di reclutamento e di carriera. Negli anni del regno, l'accesso alla cattedra è invece mediato dal potere esecutivo, che gode di ampi poteri nelle procedure di reclutamento. Ma il problema comune delle classi dominanti, dall'Unità d'Italia ai giorni nostri, è quello di governare opportunamente il reclutamento del corpo docente, al fine di garantire un'adeguata formazione della classe dirigente e l'ordinata riproduzione culturale e ideologica, impedendo il rischio di intrusioni esterne. Da questo punto di vista, l'assunzione diretta del controllo del reclutamento universitario da parte dei cattedratici non segna veramente una frattura nel sistema di riproduzione del corpo docente, ma rappresenta piuttosto una nuova fase nell'evoluzione del sistema di cooptazione, inteso in senso ampio come sistema di governo del reclutamento.

Con questa chiave di lettura, la storia del sistema universitario italiano – dal suo ruolo nel processo di unificazione nazionale (capitolo 1), attraverso i processi di fascistizzazione e defascistizzazione (capitolo 2), la contestazione studentesca degli anni Sessanta e Settanta (capitoli 3 e 4), fino al processo di attuazione dell'autonomia universitaria (capitolo 5) – mostra come le forme della cooptazione si siano adeguate all'evolvere degli obiettivi economici e sociali dell'università e dei mutevoli rapporti di forza tra gli attori in campo. Allo stesso tempo però la cooptazione emerge anche come elemento di continuità e di stabilità nei rapporti accademici e come fattore di condizionamento dell'intera vita accademica (capitolo 6).

La descrizione del fenomeno cooptativo prosegue, nella seconda parte, approfondendo i meccanismi attuali di reclutamento e di carriera e i modi concreti attraverso cui il concorso pubblico viene svuotato di ogni valenza reale per divenire un atto dall'esito scontato, a termine del processo cooptativo (capitolo 7).

Dal punto di vista quantitativo, la rilevanza della cooptazione universitaria può essere colta considerando alcuni fenomeni empirici che essa produce, a cominciare dalla tendenza a privilegiare i candidati locali nei concorsi, dalla scarsa rilevanza delle pubblicazioni scientifiche nel determinare l'esito dei concorsi e dagli esiti assai particolari delle elezioni dei commissari di concorso (capitolo 8).

Nelle relazioni interpersonali, il processo di cooptazione produce articolati rapporti di potere, sia formale che informale. La manifestazione più evidente di questi rapporti è data dall'assunzione da parte del cooptando di una serie di incarichi e di doveri di spettanza del cooptatore. Allo stesso tempo, tuttavia, la sottomissione del primo al secondo assicura diversi vantaggi anche al cooptando, conferendo al rapporto di potere cooptatore-cooptando un carattere peculiare di reciproca volontarietà (capitolo 9).

La terza parte è dedicata alle diverse concezioni del potere esistenti nelle scienze sociali. La nozione stessa di potere – fin qui utilizzata in senso generico, come capacità di condizionare i comportamenti e di governare le strutture all'interno delle quali i decisori prendono le loro decisioni – deve essere specificata in modo scientificamente rigoroso.

A questo fine, costruisco innanzi tutto un'ontologia dei rapporti di potere, in grado di precisare i diversi significati che esprimono i termini legati al potere nelle diverse concezioni teoriche (capitolo 10), evidenziando alcuni aspetti problematici delle diverse nozioni di potere e della loro quantificazione empirica (capitolo 11). Dopodiché, mi soffermo sui dibattiti sviluppatisi in seno alla sociologia, alle scienze politiche e alla teoria economica, i quali sono tutti dominati da una concezione metodologica individualistica, che consente di cogliere solo alcuni aspetti dei rapporti di potere. Questa concezione, che vede il potere come un rapporto essenzialmente interpersonale, empiricamente rilevabile, è poi messa in contrasto con la concezione marxista, secondo cui il potere è invece una relazione sociale, dotata di propri meccanismi impersonali di riproduzione, non necessariamente rilevabili attraverso l'indagine empirica (capitolo 12).

In realtà, non esiste una vera e propria teoria del potere di ispirazione marxista. L'analisi di Marx dei rapporti capitale-lavoro si fonda su categorie diverse – l'alienazione e lo sfruttamento, innanzi tutto – che hanno a che fare solo indirettamente con la nozione di potere. A partire dal contributo marxiano e dalla replica marxista alle teorie del potere di matrice individualista è però possibile individuare alcuni aspetti essenziali di una concezione del potere coerente con il marxismo. Il problema non riguarda semplicemente i rapporti interpersonali, ma soprattutto i meccanismi impersonali di condizionamento dei comportamenti individuali che operano indipendentemente dalle relazioni dirette di potere che possono eventualmente stabilirsi tra due o più soggetti. In quest'ottica, gli stessi rapporti di potere che occasionalmente emergono a livello interpersonale, sui quali si concentrano gli approcci legati all'individualismo metodologico, non sono affatto l'oggetto esclusivo dell'indagine, ma sono solo una conseguenza della struttura generale di rapporti sociali, la cui essenza coercitiva è di natura sociale e non necessariamente interpersonale.

Questa disamina della letteratura sul potere è infine utilizzata, nella quarta parte, per interpretare i rapporti universitari secondo le diverse concezioni teoriche esistenti. Si tratta per lo più di un puro esercizio teorico, poiché, come dicevamo, gli stessi teorici del potere tendono a lasciare fuori l'università dalle applicazioni delle loro concezioni. Quest'esercizio consente comunque di cogliere la portata e i limiti dei diversi approcci teorici. Più precisamente, l'applicazione delle teorie di stampo individualista al contesto universitario permette senz'altro di cogliere alcuni aspetti importanti delle relazioni interpersonali tra soggetti di livello gerarchico diverso (capitolo 13). Ma è solo abbandonando l'individualismo metodologico e muovendo verso una concezione "radicale" del potere che il contenuto coercitivo dei rapporti universitari può essere compreso appieno (capitolo 14). Negli ultimi due capitoli, sviluppo dunque il punto di vista marxista — che costituisce, a mio avviso, l'espressione più avanzata e coerente della concezione radicale — soffermandomi prima sui meccanismi di accumulazione del capitale accademico che regolano i rapporti di potere all'interno del sistema universitario (capitolo 15) e poi sui loro effetti fuori dell'università: sul modo di ottemperare alle funzioni culturali, sociali ed economiche che l'università svolge nel capitalismo (capitolo 16).

La tesi del libro è che i rapporti di potere nell'università non si esauriscono semplicemente nelle relazioni interpersonali, formali o informali, di tipo gerarchico, ma che invece il sistema universitario, nel suo insieme, costituisce un vero e proprio sistema di potere. La sua valenza coercitiva si esprime innanzi tutto nell'asimmetria nei canali d'accesso alla cattedra, nei vincoli e negli incentivi imposti durante il processo cooptativo e nei meccanismi impersonali di riproduzione di questi rapporti intrinseci alla cooptazione. L'effetto complessivo di questo modo di regolazione dei rapporti interni all'università è la riproduzione ideologica e culturale dei rapporti di classe e un forte condizionamento delle linee di sviluppo del pensiero scientifico.


Prima di entrare nel vivo dell'analisi, devo fare un paio di precisazioni di carattere metodologico.

Innanzi tutto, voglio sottolineare il carattere puramente positivo, e non normativo, dell'indagine. Il tema del potere evoca facilmente giudizi morali: ad esempio, nelle concezioni libertarie, tende ad essere caricato di una valenza morale negativa, come limitativo della libertà e sinonimo di sottomissione; al contrario, nelle concezioni totalitarie, il potere è spesso apprezzato come strumento necessario all'ordine, il quale costituisce, in queste concezioni, un valore sociale in sé. La presente ricerca è estranea a queste concezioni morali del potere. Dal punto di vista scientifico, il potere non va né combattuto, né esaltato, ma compreso come aspetto essenziale e inevitabile dei rapporti sociali. Questo non implica affatto l'accettazione acritica dei rapporti di potere esistenti, ma, al contrario, pone il problema stesso del loro governo cosciente a livello politico.

In campo universitario, poi, si moltiplicano gli studi che vorrebbero prescrivere nuove modalità di funzionamento dell'università, ma che non provano nemmeno a spiegare i limiti del modello esistente, frutto di processi storici e di interessi economici che si sono sedimentati nel tempo e che rispondono a precisi disegni strategici da parte dei soggetti al comando del sistema universitario. Così, anche in molte analisi che si vorrebbero critiche, si degenera spesso in proposte astratte di riforma, a volte ispirate a modelli universitari completamente diversi da quello oggi in vigore in Italia, senza alcuna lettura critica delle specificità di quei modelli e della loro applicabilità al contesto italiano. Il mio obiettivo non è dunque di proporre l'ennesima soluzione normativa e sviluppare la mia concezione dell'università ideale, bensì di combattere la mistificazione che caratterizza il dibattito politico che accompagna il processo di riforma. In modo del tutto paradossale, questo dibattito ha visto l'ultimo ministro politico, prima del governo tecnico di Monti, Mariastella Gelmini, presentarsi addirittura come avanguardia della lotta al potere baronale, mentre, sul fronte opposto, da alcuni anni, si assiste ad un nuovo fenomeno, che porta pezzi importanti del movimento studentesco — l'unica forza storicamente in grado di contrastare questo sistema di potere — ad accettare l'impostazione dettata dai soggetti con maggiori interessi economici e di potere nel governo dell'università. Contro questa deriva, propongo un'analisi critica del sistema accademico italiano, del suo percorso storico, dei suoi meccanismi di funzionamento e delle sue funzioni economiche e sociali come momento necessario, ancorché non sufficiente, per riavviare il dibattito sulle possibilità concrete di riforma dell'università e di sovvertimento degli attuali rapporti di potere.

La seconda precisazione riguarda i termini del rapporto esistente tra uso e abuso del potere nelle università. Spesso, infatti, la questione universitaria è associata al problema degli abusi, degli scandali ai concorsi e ad alcune pratiche nepotistiche commesse da parte di sfrontati baroni universitari: scienziati di primo ordine rigettati ai concorsi da commissioni con titoli scientifici irrilevanti, familiari con la strada spianata dal papà rettore, preside o professore, fondi pubblici gestiti nel solo interesse privato. Su questi temi si è ormai sviluppata una vasta letteratura e, ad intervalli irregolari, interviene anche la magistratura. Questa rappresentazione dell'università suggerisce che la questione universitaria sia essenzialmente un problema di legalità e, in effetti, nella storia dell'università italiana, i casi di malaffare sono una costante sin dalla nascita del sistema universitario nazionale.

Il problema, tuttavia, è che in un sistema di potere ben strutturato, non c'è alcun bisogno di ricorrere a condotte illecite per ottenere determinati comportamenti e realizzare particolari obiettivi; il normale esercizio del potere, all'interno delle regole, è già sufficiente allo scopo. Perciò, prima ancora di interrogarci sulla natura delle distorsioni che portano a rompere le regole, dobbiamo innanzi tutto capire i meccanismi che consentono di condizionare la vita universitaria, senza apparenti violazioni di sorta. Da questo punto di vista, il dato da cui partire non è la trasgressione delle regole scritte, ma il rispetto delle regole non scritte.

Una volta spiegati i meccanismi normali di funzionamento e riproduzione dell'università diventa peraltro possibile anche capire meglio la natura degli illeciti, delle distorsioni e degli abusi. Questi sono infatti la conseguenza di una concezione di università largamente condivisa dagli universitari, basata su rapporti di potere sostanziali, anche se non necessariamente formali, caratterizzati da zone d'ombra, contratti impliciti e scambi di favori, che caratterizzano la vita quotidiana degli universitari e che prendono la forma di scontri aperti nei tribunali solo quando il sistema entra in crisi. In questo quadro, le distorsioni stesse smettono di apparire come frutto di abusi di singoli individui e possono invece essere spiegate come effetti generali del sistema di potere universitario e dei meccanismi attraverso cui esso persegue i propri obiettivi interni ed esterni.

In questo libro non mi occupo dunque degli atti illeciti, più o meno gravi e diffusi, che ricevono attenzione da parte di giornalisti e magistrati. Ma di tutti gli altri: quelli che riguardano il normale funzionamento dell'università e che non sono mai veramente affrontati in sede scientifica, né tanto meno politica. Il problema dell'università non sta nelle sue distorsioni, ma nei suoi meccanismi ordinari di funzionamento e di riproduzione. Il fenomeno da spiegare non riguarda l'abuso di potere, ma l'uso del potere.

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In tema di reclutamento, la riforma Moratti resta però solo sulla carta. A smantellarne l'impianto e ad azzerarne le scelte, dopo la breve parentesi governativa del centro-sinistra (che non ha tempo di mettere mano alla materia), provvede, in barba a ogni coerenza politica e culturale, il terzo governo Berlusconi: il nuovo ministro Mariastella Gelmini modifica infatti nuovamente le procedure di reclutamento, senza che un solo concorso a professore sia stato celebrato secondo i meccanismi idoneativi nazionali introdotti cinque anni prima dalla collega di partito Moratti.

La riforma Gelmini fa parte di un severo processo di smantellamento del settore pubblico, attraverso tagli alla spesa e riduzione del turn over del personale, avviato nel 2008 come risposta politica all'aggravarsi della crisi economica e finanziaria. La drastica riduzione delle dotazioni organiche in tutti i settori dell'intervento pubblico si accompagna all'irrigidimento del trattamento economico, delle pensioni e dei diritti dei lavoratori e alla restrizione dei canali d'accesso a rapporti lavorativi a tempo indeterminato. In campo universitario, la riforma compie un passo decisivo nel processo verso l'autonomia avviato dal centro-sinistra, attribuendo alle università la facoltà di trasformarsi in fondazioni – cioè non più istituzioni pubbliche, ma soggetti privati, dotati di autonomia gestionale, organizzativa e contabile in deroga alle norme dell'ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, a cui vengono ceduti gratuitamente tutti i beni patrimoniali pubblici appartenenti all'università, che ora viene privatizzata – con semplice delibera del Senato accademico.

Sul fronte studentesco, la legge Gelmini cancella il «diritto allo studio», sostituendolo con il «fondo per il merito». L'accesso a «premi di studio», «buoni studio» (di cui una quota dipendente dai risultati accademici conseguiti deve essere restituita al termine degli studi) e prestiti d'onore è slegato da ogni parametro riguardante le condizioni economiche dello studente ed è invece riservato ai vincitori delle così dette "prove nazionali standard" (a pagamento). Anche sul piano formale, lo studio cessa dunque di essere un diritto – che è compito dello Stato rendere sostanziale, attraverso l'eliminazione delle barriere di natura economica – e diventa invece un premio riservato ai "più meritevoli", con un prevedibile effetto redistributivo di carattere regressivo, che toglie ai poveri per dare ai ricchi.

La riforma accentua inoltre i rapporti gerarchici negli atenei, aumentando il potere del rettore e del consiglio d'amministrazione (i cui membri sono scelti dal rettore per le loro competenze gestionali, con una quota riservata a personalità esterne ai ruoli dell'ateneo, in rappresentanza del mondo imprenditoriale, cui spetta anche la presidenza qualora questa non sia assunta dal rettore), a scapito degli organi di natura scientifica, come il senato accademico. Nel campo della didattica e della ricerca, in particolare, il senato accademico assume compiti solo propositivi e consultivi, mentre le funzioni di indirizzo strategico, le chiamate dei professori e le decisioni in merito all'attivazione e la soppressione di corsi e sedi diventano competenza del consiglio d'amministrazione. Al consiglio d'amministrazione è affidato anche il compito di infliggere sanzioni ai professori e ai ricercatori sottoposti ad azione disciplinare, al termine di una procedura tutta interna all'ateneo. Viene dunque abrogato il principio di terzietà a garanzia dell'accusato, che voleva che le sanzioni di una certa gravità – dalla sospensione temporanea dall'ufficio e dallo stipendio alla destituzione con perdita del diritto a pensione o ad assegni – dovessero passare per la delibera di un organo ministeriale esterno all'ateneo.

Il ruolo dei ricercatori è posto ad esaurimento e sostituito da contratti a tempo determinato, a ridotta autonomia e meglio governabili dalle gerarchie accademiche. I contratti sono stipulati direttamente dagli atenei, secondo le norme fissate nei rispettivi regolamenti. Come premio per i soggetti più propensi ad accettare la logica cooptativa, la riforma prevede un canale privilegiato di immissione nel ruolo dei professori associati per i ricercatori a tempo determinato che ricevono una valutazione positiva da parte dell'ateneo e che abbiano conseguito l'abilitazione nazionale (che sostituisce l'idoneità scientifica). La procedura d'accesso al ruolo dei professori ordinari e associati mantiene lo schema in due fasi – abilitazione, chiamata – ma con una novità significativa: l'eliminazione dei pur tenui legami tra il conseguimento dell'abilitazione nazionale e l'effettiva assunzione in servizio. Cancellando anni di ricerca di un punto d'equilibrio tra il numero di idoneità attribuibili per concorso e il numero di posti effettivamente disponibili negli atenei, la legge Gelmini stabilisce infatti che il conseguimento dell'abilitazione ai ruoli di professore ordinario e associato non dà luogo ad alcun diritto di immissione in ruolo. Il concorso abilitativo nazionale serve solo a restringere l'accesso alla chiamata, la quale è gestita autonomamente dagli atenei, secondo le loro politiche di reclutamento e i vincoli finanziari che hanno di fronte. Se precedentemente, nei concorsi idoneativi locali, la facoltà che bandiva il concorso doveva garantire la copertura finanziaria di almeno un posto e, a fine procedura, chiamava in genere almeno uno dei due idonei (con una serie di penalità in caso contrario), nel nuovo sistema di concorsi, non ci sono vincoli al numero di abilitazioni da conferire, ma non ci sono nemmeno norme che impongano agli atenei di assumere una certa quota dei candidati abilitati.

Con grande enfasi contro il potere baronale e in difesa della meritocrazia, la riforma introduce inoltre il sorteggio dei commissari nei concorsi abilitativi nazionali. Si tratta tuttavia di un'innovazione che non incide sulle scelte concrete di chiamata degli atenei, che rimangono disciplinate dai regolamenti degli atenei stessi sulla base di una crescente autonomia dal Ministero. Ai fini pratici, l'abilitazione nazionale rischia così di diventare un titolo inflazionato, che non offre reali opportunità di immissione in ruolo a chi non gode già di buoni rapporti locali o a chi è legato ad atenei in difficoltà finanziarie.

L'innalzamento della soglia scientifica minima di accesso alle posizioni di professore attraverso l'abilitazione nazionale si inserisce in un processo di vasta portata incentrato sulla valutazione del personale e delle strutture accademiche, secondo principi di prestigio scientifico. A questo scopo, viene istituita l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur), cui sono attribuiti ampi poteri nella definizione dei parametri valutativi da adottare nelle diverse aree scientifiche.

Nelle procedure per il conseguimento dell'abilitazione, i parametri definiti dall'Anvur si applicano tanto ai candidati quanto agli aspiranti commissari. Solo i professori ordinari che rispettano i principi di affidabilità scientifica definiti dall'Anvur possono infatti essere inclusi nelle liste per l'estrazione dei commissari di concorso. A loro volta, i commissari estratti devono poi valutare i candidati attenendosi strettamente a quegli stessi parametri fissati dall'Anvur. La riduzione dei margini di discrezionalità dei commissari finisce dunque per rafforzare le scuole di pensiero dominanti — le uniche in grado di incidere sulla definizione dei criteri di prestigio scientifico, attraverso l'Anvur — ma non intacca affatto la logica cooptativa, contrariamente alle dichiarazioni del ministro Gelmini e del suo successore Francesco Profumo. L'obiettivo è piuttosto di imporre una gerarchia di prestigio scientifico che rafforzi lo status quo e marginalizzi l'eterodossia, aumentando, al tempo stesso, l'autonomia degli atenei nella gestione effettiva delle assunzioni in ruolo. Dopo anni di blocco di fatto del reclutamento, tramite riforme mai entrate in vigore, la ripresa dei concorsi non intende dunque affatto decongestionare le file d'attesa nell'accesso alla docenza. Al contrario, le nuove modalità di reclutamento rafforzano il potere locale dei baroni, come strumento per consentire agli atenei assunzioni mirate, in un contesto di tagli finanziari generalizzati.

Infine, l'esclusione dei professori associati e dei ricercatori dalle commissioni di concorso, poiché in condizioni di "ricattabilità" – altra misura presentata come attacco al potere dei baroni – solleva qualche problema di coerenza visto che, in questo modo, si assegna tutto il potere ai professori ordinari, a coloro cioè che, secondo questa concezione, fungerebbero proprio da "ricattatori".

Complessivamente, pur nell'alternanza tra centro-sinistra, centro-destra e governi tecnici, il nuovo modello di università condiviso dalle forze politiche ed economiche è esplicito e coerente: l'istruzione e la ricerca scientifica non devono più rispondere alla domanda sociale del paese, ma diventare oggetto di una valutazione puramente economica. A questo scopo, attraverso incentivi economici e posizioni di potere, l'università viene progressivamente assoggettata alle esigenze del mondo imprenditoriale e alla logica aziendalistica. Parallelamente, nell'organizzazione interna degli atenei, crescono i rapporti di potere di diritto e di fatto, a garanzia di un'ordinata riproduzione del corpo docente e di una vita accademica ispirata a principi di obbedienza e disciplina.

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Capitolo 6


Dal Regno al mercato



Nel corso di un secolo e mezzo di storia, l'università si è trasformata sotto la spinta dei cambiamenti economici, politici e sociali, facendo in alcuni casi da propulsore per le trasformazioni dell'intera società. Le sue trasformazioni hanno riguardato sia le sue funzioni esterne, il suo ruolo nella società e nell'economia, sia la sua struttura interna, fatta di rapporti di potere derivanti in gran parte dal controllo del reclutamento e degli avanzamenti di carriera.

L'evoluzione degli obiettivi economici e sociali dell'università ha imposto ai baroni la continua ricerca di nuovi equilibri nella ripartizione del potere accademico. In questo processo, i potentati accademici hanno dialogato col Re e con i ministri per ottenere un ruolo nel controllo del reclutamento, hanno giurato fedeltà al fascismo pur di conservare cattedre e prestigio (per assumere, alla sua caduta, le redini stesse dell'università), hanno resistito alla contestazione studentesca che voleva esautorarli e hanno portato gli studenti in piazza come strumento di pressione sul ministro.

In questo quadro complesso di trasformazioni economiche, sociali, politiche e culturali che si sono succedute nel tempo, nessuna forza politica è riuscita veramente a mettere in discussione il sistema della cooptazione come modo di riproduzione del sistema universitario e delle sue relazioni di potere. Lo scontro ha riguardato semmai il peso relativo di ciascun soggetto nel processo di cooptazione. Anche le forze sociali apparentemente più radicali hanno avuto scarso successo nella critica della cooptazione come strumento di riproduzione del sistema universitario e hanno finito, almeno in parte, per accontentarsi di ricevere alcuni privilegi particolari, attraverso l'allargamento del corpo docente a fasce sociali fino ad allora escluse dalla docenza universitaria.

Le forme e le modalità di difesa degli interessi dei soggetti maggiormente interessati al controllo del reclutamento sono cambiate nel corso di questi centocinquanta anni. In alcuni periodi, il conflitto ha assunto il carattere di un vero e proprio scontro ideologico sulla compatibilità di due principi, la meritocrazia e l'autogoverno dell'università, che assai spesso appaiono incompatibili fra loro. In altri periodi, i compromessi raggiunti hanno lasciato prevalere un'immagine meno conflittuale del problema del reclutamento universitario. Ma la ricomposizione dei conflitti e la ricerca di compromessi è stata resa possibile dall'interesse comune di tenere in vita un meccanismo di reclutamento in cui l'esito dei concorsi dipende più dai commissari che non dai candidati.

Di questo paradosso sono ormai ben coscienti anche i giudici dei tribunali amministrativi. In una recente sentenza riguardante lo svolgimento di un concorso a ricercatore, il Tribunale amministrativo del Veneto chiude così la decisione di accoglimento delle istanze dei ricorrenti:

Ove si seguitasse a legittimare tale circostanza, risulterebbe di fatto operante nel nostro ordinamento un sistema di accesso alla carriera universitaria non già fondato sull'obbligo del pubblico concorso, ai sensi dell'art. 97, terzo comma, della Costituzione, ma sulla mera cooptazione del candidato da parte della c.d. comunità scientifica.

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Capitolo 15


L'accumulazione del capitale accademico



Se nella sfera economica le dotazioni individuali sono in realtà l'eredità economica lasciata dalla propria famiglia, così, in campo accademico, una buona famiglia d'appartenenza dà accesso ad una corsia decisamente preferenziale nella fila d'accesso alla cattedra e conferisce ampi privilegi a livello di potere d'agire, anche finché si resta in coda. Ma così come l'essere figlio di capitalisti o di lavoratori non predetermina la posizione sociale di un individuo, allo stesso modo, l'essere figlio di professori universitari, o il non esserlo, non determina univocamente la carriera di un aspirante universitario. Θ comunque significativo che il 26 per cento degli universitari, stando ai dati riportati da Fabio Quassoli, ha almeno un professore universitario all'interno della famiglia allargata di provenienza.

Il problema scientifico consiste allora nel determinare le condizioni sociali che incidono maggiormente sull'appetibilità di un aspirante universitario, i meccanismi di accumulazione del suo capitale accademico nel corso del processo di cooptazione e le trasformazioni soggettive che subisce il cooptando nel corso di questo processo.


Tipi di capitale e rapporti di potere

Un'analisi approfondita dei tipi di capitale utili ai fini accademici è stata condotta da Pierre Bourdieu. Bourdieu è un sociologo francese, influenzato dal marxismo e dallo strutturalismo, ma per alcuni aspetti legato anche alla tradizione weberiana, che ha sviluppato un articolato schema concettuale sulle fonti e le manifestazioni del potere e l'ha applicato a vari campi dell'interazione sociale, tra i quali, in particolare, quello scolastico e universitario.

Nella sua opera scientifica, Bourdieu cerca di superare alcune delle dicotomie che hanno segnato lo sviluppo del pensiero sociologico, come l'opposizione tra oggetto e soggetto, tra struttura e agenzia e tra la realtà materiale e le sue rappresentazioni. Secondo il sociologo francese, nei rapporti sociali esistono delle strutture che sono indipendenti dalla coscienza individuale e che circoscrivono e condizionano i comportamenti individuali. L'autore si allontana tuttavia dallo strutturalismo classico, poiché ritiene che queste strutture non siano autonome, bensì siano esse stesse il prodotto dei comportamenti umani e delle interazioni sociali. Allo stesso tempo, critica severamente le posizioni soggettiviste e puramente volontariste, sostenendo che le rappresentazioni soggettive, la visione del mondo, i modelli interpretativi, i sistemi di valori, i gusti e le regole di comportamento (l' "habitus", secondo la terminologia dell'autore) che guidano l'azione individuale non sono affatto indipendenti dal contesto sociale, bensì sono frutto dell'interiorizzazione, da parte dell'individuo, delle strutture che regolano i rapporti sociali nei diversi campi in cui l'individuo opera. Non si tratta di un condizionamento meccanico dei comportamenti, ma dell'acquisizione da parte dell'individuo di modi di pensare e di agire che si formano e si trasformano nel corso dell'interazione sociale e che sono alla base delle scelte e dei comportamenti che l'individuo sviluppa. Da una parte, dunque, le strutture sociali condizionano e vincolano i comportamenti individuali, attraverso la loro interiorizzazione nell'habitus dell'individuo; dall'altra, tuttavia, sono proprio i comportamenti individuali a riprodurre e trasformare le strutture esistenti. In questo senso, l'autore definisce la propria concezione come «strutturalismo costruttivista» o «costruttivismo strutturalista».

Strettamente legato alla nozione di habitus è il concetto di "campo". La sfera dei rapporti sociali si articola in campi specifici – come il campo politico, il campo sportivo, il campo artistico, il campo religioso, il campo accademico, eccetera – dotati di specifiche caratteristiche e regole, che influenzano gli attori che ne fanno parte. Nella misura in cui i soggetti che interagiscono in uno stesso campo hanno esperienze sociali simili, anche il loro modo di pensare e di agire tende ad uniformarsi. Non c'è, anche in questo caso, alcun meccanicismo nella relazione tra campo e habitus, bensì una relazione di reciproca influenza, riproduzione e trasformazione. La partecipazione a determinati campi dell'interazione sociale non determina i comportamenti individuali, ma modifica l'esperienza sociale sulla base della quale gli individui interpretano il mondo, ne riproducono le strutture e, al tempo stesso, le trasformano. Le disposizioni che costituiscono l' habitus sono dunque fortemente dipendenti dal percorso storico dell'individuo, dalle sue esperienze sociali, dai campi in cui l'individuo interagisce. Non sempre, tuttavia, questo percorso tende a sviluppare un habitus coerente con le regole dei campi in cui l'individuo agisce. Anche perché i campi operano secondo principi diversi, non necessariamente riconciliabili fra loro.

Il grado di coerenza tra l' habitus acquisito e il campo di interazione sociale non costituisce semplicemente un fattore di reciproco riconoscimento tra i membri del campo, ma incide anche sulla capacità di successo di ciascun agente all'interno del campo. Non rispettare le regole del campo o agire in modo difforme dagli stili di comportamento prevalenti - non tanto per scelta cosciente, ma anche semplicemente per via dell'habitus acquisito - significa incontrare difficoltà di inserimento e diffidenza, o addirittura rigetto, da parte degli altri membri del campo e, di conseguenza, ostacoli nel perseguimento dei propri obiettivi.

Per quanto i diversi campi siano parte di uno stesso sistema - il sistema capitalista - ogni campo gode di una certa autonomia e produce, al suo interno, specifici rapporti di dominazione, che passano per l'interiorizzazione, anche da parte dei soggetti dominati, di regole e norme che sono alla base del rapporto stesso di dominazione. A partire dalla concezione marxiana del materialismo storico, basata su un rapporto dialettico tra struttura e agenzia, Bourdieu sviluppa dunque un quadro più articolato, in cui la relazione di potere e dominazione che caratterizza il capitalismo, come modo di produzione - la cui essenza consiste, innanzi tutto, nello sfruttamento di classe - si combina con forme di dominazione specifiche dei diversi campi dell'agire sociale.

La società, in questa concezione, è un insieme di campi che si sovrappongono parzialmente, all'interno dei quali gli attori sviluppano le loro strategie mobilizzando le risorse di cui dispongono. Accanto agli interessi generali del campo, largamente condivisi dagli agenti che ne fanno parte (come la sopravvivenza stessa del campo), la posizione specifica di ogni agente all'interno di un campo determina interessi particolari e porta a sviluppare diversi tipi di strategie, cooperative o conflittuali, nei confronti degli altri soggetti che operano nello stesso campo.

Al fine di analizzare le regole di funzionamento dei singoli campi e i loro meccanismi di riproduzione e trasformazione, Bourdieu riprende il concetto marxiano di capitale e lo elabora sul piano sociologico, distinguendo quattro diversi tipi di capitale: economico, culturale, sociale e simbolico. Il primo è formato dal denaro, dai mezzi di produzione, dalla ricchezza materiale e, più in generale, dalle risorse economiche che ciascun soggetto controlla. Il capitale culturale è costituito dalle conoscenze, dalle esperienze, dalle competenze, dalle qualifiche, dalla produzione di beni culturali e dalla posizione nelle istituzioni culturali (quali ad esempio le università). Il capitale sociale è costituito dalle relazioni più o meno istituzionalizzate in cui ciascun soggetto è inserito, come l'appartenenza a gruppi, club e reti formali o informali. Infine, il capitale simbolico è definito dal prestigio, l'onore, i riconoscimenti e tutti i simboli di legittimazione che ciascun soggetto riceve dai membri della collettività cui appartiene.

Ciascuno di questi tipi di capitale conferisce forme specifiche di potere ai suoi detentori, la cui importanza varia secondo i campi dell'interazione sociale e le loro specifiche regole di funzionamento. All'interno di ciascun campo, i diversi tipi di capitale possono essere convertiti l'uno nell'altro, secondo le strategie di accumulazione dei singoli decisori e la loro percezione dei principi che determinano la riuscita individuale nel campo in oggetto. Ad esempio, in campo accademico, il prestigio scientifico è senz'altro parte del capitale culturale e spesso si combina anche con elementi propri del capitale simbolico. Esso, tuttavia, è spesso utilizzato per generare benefici anche di tipo strettamente economico e aumenta l'interesse di altri soggetti a stabilire rapporti di reciproco rispetto. Similmente, la rete di relazioni che forma il capitale sociale può tradursi in vantaggi economici (capitale economico), in canali privilegiati di accesso alle pubblicazioni scientifiche (capitale culturale) e/o nell'ottenimento di riconoscimenti formali e informali da parte dei colleghi (capitale simbolico). A sua volta, la capacità di costruirsi una solida rete di rapporti con altri soggetti è influenzata dalla dote dei vari tipi di capitale di cui ciascun soggetto dispone e dai vantaggi che tramite questa dote si possono offrire ai membri della rete.

Il carattere multidimensionale del capitale rende particolarmente complesse le relazioni all'interno di uno stesso campo. Innanzi tutto, il valore dei diversi tipi di capitale varia secondo il campo di interazione sociale. Una stessa dotazione di capitale può conferire ampi poteri all'interno di un determinato campo e poteri assai minori in un campo diverso, operante secondo principi diversi. Date le regole di funzionamento di un campo, i soggetti che vi operano hanno dunque interesse a modificare le proprie strategie a seconda del volume complessivo e della struttura del proprio capitale. L'autore sottolinea tuttavia che le regole di funzionamento di un campo non sono date, bensì sono il frutto dell'interazione sociale. Così, a seconda del capitale a propria disposizione, gli attori possono definire strategie di comportamento volte non solo a trarre beneficio dalle regole esistenti, ma anche a trasformarle e a modificare l'importanza dei diversi tipi di capitale all'interno del campo.


Il capitale accademico e le sue trasformazioni

In uno sforzo unico di sottoporre a critica il suo stesso campo d'indagine e d'azione, Bourdieu applica il suo schema concettuale al funzionamento del sistema universitario francese.

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La rilevanza empirica dei tipi di capitale e i rapporti di classe

Per quanto il lavoro di Bourdieu abbia suscitato interesse anche in Italia – in particolare, da parte del gruppo di ricerca coordinato da Moscati – gli studi empirici sul ruolo dei diversi tipi di capitale nelle strategie di accesso alla cattedra in Italia restano frammentari. L'indagine sociologica ha tuttavia approfondito alcuni aspetti della composizione sociale del corpo docente delle università che consentono di precisare il profilo dell' homo academicus italiano e le sue origini di classe, fornendo la possibilità di misurare l'importanza dei diversi tipi di capitale utili ai fini accademici.

Secondo i dati esposti da Quassoli, il corpo docente delle università italiane ha una composizione di classe assai uniforme, all'interno della quale trovano spazio soprattutto esponenti della borghesia e delle classi sociali più alte, mentre sono decisamente sottorappresentate la classe operaia e le classi lavoratrici medio-basse. I docenti che provengono da famiglie che occupano posizioni dominanti nella struttura sociale sono pari al 49 per cento (il 20 per cento proviene da famiglie di dirigenti, il 22 per cento da famiglie di liberi professionisti e il 7 per cento da famiglie di imprenditori). La metà circa dei docenti universitari proviene dunque da classi sociali che rappresentano appena il 3 per cento della popolazione nazionale. Ai docenti di estrazione propriamente borghese, si deve poi aggiungere un altro 45 per cento di docenti che provengono dalle classi medie: più precisamente, i docenti provenienti dalla classe impiegatizia alta e bassa sono pari al 24 per cento e al 7 per cento rispettivamente, e quelli provenienti dalla piccola borghesia autonoma sono di poco superiori al 14 per cento. Complessivamente, dunque, i docenti che provengono dalle classe propriamente borghese e dalla classe media rappresentano circa il 95 per cento del totale.

Confrontando i dati sulla classe sociale di origine degli universitari con le indagini sulla mobilità sociale nel suo complesso, si nota una chiusura significativamente maggiore del ceto accademico, rispetto al resto delle professioni borghesi. Il dato appena considerato, secondo cui il 49 per cento dei docenti universitari proviene da famiglie propriamente borghesi, è infatti di gran lunga superiore alla percentuale di provenienza borghese nel complesso delle professioni strettamente borghesi, che è pari al 26 per cento. Questo dimostra che, contrariamente all'intensificarsi di una certa mobilità sociale intergenerazionale registrata in diversi settori professionali di prestigio, l'accesso alla docenza universitaria rimane fortemente legato alla provenienza dalle classi sociali più alte. Inoltre, considerando la mobilità sociale delle classi più basse, si nota che le persone di estrazione familiare operaia costituiscono il 21 per cento della classe borghese, mentre raggiungono appena il 5 per cento del corpo accademico.

Significativa è anche la differenza rispetto ai colleghi operanti nelle scuole, in gran parte provenienti dalla classe media impiegatizia e dalla piccola borghesia, con un 15 per cento di insegnanti di estrazione operaia.

Questa struttura classista, significativamente più pronunciata di quella registrata nel resto della società è in gran parte l'effetto dell'operare del capitale economico nel processo di cooptazione. La durata pluriennale del processo cooptativo - durante il quale l'aspirante universitario non gode di alcuna autonomia economica e resta invece dipendente dalle risorse familiari e da fonti di reddito occasionali gestite dal suo referente - è infatti un fattore che penalizza fortemente le classi più basse, le quali non possono in genere permettersi lunghi periodi di attesa prima dell'entrata nel mondo del lavoro (retribuito).

Come nota Carla Facchini, inoltre, questo ruolo discriminatorio giocato dal capitale economico non riguarda solo la struttura di classe, ma anche quella di genere. La difficoltà oggettiva di conciliare il "periodo di prova" - durante il quale è necessario offrire massima disponibilità al proprio referente - con le esigenze familiari e i pregiudizi culturali prevalenti nell'università e, più in generale, nei contesti lavorativi considerati di prestigio ostacolano infatti i tentativi delle donne di tradurre il proprio capitale di partenza in forme di capitale sociale utili sotto il profilo della carriera.

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Il quadro complessivo che emerge da quest'indagine mostra che all'interno dell'università non esiste una vera struttura di classe tra le diverse fasce di docenza universitaria. La vera discriminazione sociale si realizza attraverso i meccanismi di entrata nel sistema della docenza universitaria. Una volta dentro, il rispetto delle regole accademiche e le strategie individuali di accumulazione del capitale accademico aiutano a velocizzare la "promozione", ma il filtro all'entrata garantisce comunque una forte coesione all'interno del corpo docente, quale che sia la sua suddivisione gerarchica interna. L'aspetto coercitivo più importante è dunque costituito dal filtro iniziale, il quale seleziona gli aspiranti universitari su basi classiste e garantisce l'omogeneità socio-economica tra quanti riescono poi nell'impresa di ottenere effettivamente un posto stabile nel sistema universitario.

In questo contesto, anche il fatto che il fenomeno dell'auto-reclutamento (cioè del reclutamento di "candidati locali") perda progressivamente di importanza col crescere della posizione accademica suggerisce che i canali di accumulazione del potere accademico sono almeno in parte diversi da quelli dell'accesso alla docenza. In quest'ultimo caso è infatti soprattutto la dote iniziale dell'aspirante universitario a determinare le sue chance di successo, cioè la sua possibilità di intraprendere una relazione di cooptazione. Le possibilità di carriera dipendono invece in modo significativo anche dalla capacità dell'universitario di inserirsi nelle reti di relazioni accademiche. Il cambiamento di sede, dopo l'entrata nel sistema universitario, in altri termini, dipende soprattutto dai meccanismi di accumulazione del capitale accademico, i quali possono portare l'universitario ad allontanarsi dalla sede d'origine per via delle nuove relazioni che ha saputo costruirsi.

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Capitolo 16


Gli effetti sociali del potere accademico



La cooptazione non genera soltanto una rete di rapporti di potere all'interno dell'università, ma influisce anche sul modo in cui l'università assolve le sue funzioni esterne. L'università non è infatti un sistema autosufficiente, bensì è parte di un sistema più grande - il sistema capitalista - dal quale assorbe risorse e per il quale svolge alcune importanti funzioni sociali ed economiche. A differenza delle organizzazioni propriamente economiche, che per sopravvivere devono produrre merci scambiabili sul mercato, l'università non produce veramente valori di scambio: non produce merci vere e proprie, ma cultura - una cultura sempre più finalizzata alla produzione capitalistica, ma non per questo direttamente vendibile sul mercato.

La raison d'κtre dell'università nel modo di produzione capitalistico è dunque più legata alla produzione di valori d'uso che non a quella di valori di scambio. Non è tanto il valore di mercato delle conoscenze scientifiche e tecnologiche a guidare la produzione accademica, quanto gli usi possibili di queste conoscenze a livello sociale. In alcuni casi, si tratta di usi legati, almeno indirettamente, alla produzione capitalistica e alla realizzazione di profitti, il che consente di ricondurre la produzione accademica alla sua dimensione strettamente economica. In altri casi, tuttavia, i valori d'uso prodotti dall'università riguardano aspetti culturali ed ideologici, estranei, almeno in prima battuta, alla sfera propriamente economica. La produzione accademica deve dunque essere analizzata in senso ampio, non solo nei suoi aspetti strettamente economici, ma anche per le funzioni che essa svolge a livello culturale e ideologico e per le sue ripercussioni nella vita sociale e politica.

La questione di cui dobbiamo occuparci ora riguarda il modo in cui le regole interne di funzionamento dell'università e i rapporti di potere che ne discendono condizionano tutti questi aspetti della produzione accademica.


Cooptazione, potere e pensiero critico

Dal punto di vista dello sviluppo scientifico, esiste un vasto consenso sulle funzioni critiche che si richiedono all'università. Secondo una concezione diffusa, l'università è - o, almeno, dovrebbe essere - il luogo per eccellenza dove si esercita il ruolo critico degli intellettuali sulle varie discipline scientifiche e sulla cultura in generale e dove sono sottoposte a continua verifica le certezze raggiunte, anche a rischio di rompere gli equilibri esistenti. In un certo senso, è insito nei principi stessi della ricerca scientifica che le conoscenze prodotte possano assumere un carattere destabilizzante, o addirittura sovversivo, tanto sul piano scientifico e tecnologico, quanto a livello sociale e politico.

Questa possibilità critica, sempre presente in un'istituzione che produce cultura, è però strutturalmente osteggiata dal reclutamento per via cooptativa. Dal punto di vista dello sviluppo scientifico, la cooptazione è soprattutto un processo di selezione e disciplinamento che tende ad escludere l'autonomia di pensiero e a sviluppare la ricerca lungo linee già consolidate. Il successo accademico - lo ripetiamo ancora una volta - non dipende dall'originalità scientifica, dalla capacità di sollevare nuovi quesiti o di riformulare criticamente i problemi esistenti, ma dalla capacità di seguire le indicazioni del caposcuola e di rispondere ai quesiti scientifici da lui posti. Per sua natura, la cooptazione è dunque una pratica conservatrice, che chiude le porte d'accesso alla cattedra alle forze e alle idee che non sono già rappresentate all'interno del sistema e le spalanca invece a chi sa rendersi utile alle scuole di pensiero più influenti o, più semplicemente, alle cordate accademiche più potenti. Nel sistema di cooptazione, le idee originali, senza sponsor baronali, non entrano.

In assenza di meccanismi che garantiscano l'ordinata riproduzione del ceto accademico, i rapporti tra scuole di pensiero sarebbero assai più volatili e aleatori e, probabilmente, il ruolo stesso delle scuole di pensiero nella vita universitaria sarebbe del tutto diverso. La cooptazione stabilisce invece un legame diretto tra riproduzione culturale e riproduzione del ceto accademico dando stabilità ad entrambi i processi. Tramite la cooptazione, la produzione scientifica diviene essa stessa funzione dei rapporti di potere esistenti tra le diverse squadre accademiche. Questo introduce forti elementi di inerzia nel tipo di sapere scientifico prodotto, slegandolo dalle esigenze sociali e facendolo dipendere piuttosto dagli equilibri esistenti dentro le università. Invece di seguire l'evoluzione dei problemi sociali in attesa di risposte scientifiche, la ricerca scientifica segue i rapporti di forza esistenti tra le squadre accademiche. L'unico elemento dinamico in questo sistema di produzione scientifica e culturale è dato dalla competizione tra squadre accademiche nel controllo della cooptazione. Ma trattandosi appunto di una competizione condotta sulla base del potere accademico delle varie squadre, invece che su criteri scientifici, essa finisce per riprodurre ordinatamente i paradigmi esistenti, premiando quelli più potenti a livello baronale invece che quelli più promettenti sul piano scientifico.

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Conclusioni



Nella storia d'Italia, il sistema universitario ha assolto diverse funzioni sociali ed economiche che, in modo diretto o indiretto, hanno condizionato anche le funzioni strettamente scientifiche e culturali proprie della produzione accademica. Sotto il profilo strettamente economico, l'università svolge una doppia funzione: di tipo formativo (la formazione dell'élite, dei quadri, dei lavoratori specializzati o anche dei semplici lavoratori precari, a seconda dei periodi storici) e di sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche utili al mondo produttivo. Da un punto di vista sociale più ampio, le conoscenze scientifiche prodotte e trasmesse dall'università giocano poi un ruolo chiave anche nella riproduzione culturale e ideologica dei rapporti di classe. E in questo quadro che, storicamente, si pone il problema del governo dell'università e della produzione scientifica.

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Gli universitari e la cooptazione

In un secolo e mezzo di governo cooptativo dell'università, gli universitari non hanno mancato di fornire una giustificazione teorica della cooptazione come parte integrante del rapporto maestro-discepolo, da cui dipende, sempre secondo il punto di vista accademico, il progresso stesso della scienza. In effetti, sarebbe stato curioso che una categoria che ha sempre saputo costruire apposite teorie che facessero apparire gli interessi della classe dominante come interessi della collettività non sapesse poi elevare a necessità sociale la sua stessa esistenza, i suoi meccanismi di riproduzione e i rapporti di potere che ne discendono. E infatti, di fronte all'evidenza di centocinquanta anni di storia del reclutamento universitario basati sulla cooptazione, che di fatto trasforma il concorso in un rito scontato, gli universitari — dai cooptatori ai cooptandi — non traggono la conclusione che l'università si trova in una situazione di illegalità radicata e generalizzata, ma deducono la necessità stessa della cooptazione, pretendendo anche di indicare loro stessi la via per renderla più agile e snella. Di qui, le prescrizioni normative a senso unico con cui si chiudono gli studi degli universitari sul problema dei concorsi: se cooptazione e concorso sono incompatibili, aboliamo il concorso e adottiamo una cooptazione trasparente, giusta ed efficiente, secondo il sempre valido modello anglo-sassone. Questo dicono gli universitari, ponendosi al di sopra della stessa Costituzione.

In questo contesto, la posizione più critica che gli universitari riescono ad esprimere riguarda le implicazioni della "cattiva cooptazione", che non rispetta il merito o che non consente un'adeguata riproduzione di determinate scuole di pensiero. Inutile dire che la cooptazione cattiva è in genere quella altrui e che la scuola di pensiero ingiustamente sottodimensionata è la propria. Ma, a parte le dichiarazioni formali, i docenti pronti a criticare veramente la cooptazione, come modo di governo dell'università, e a pagarne fino in fondo le conseguenze, non sono oggi più numerosi di quelli che nel ventennio rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo.


Teoria borghese del potere e pluralismo democratico

Sotto il profilo scientifico, è paradossale che i più grandi studiosi dei rapporti di potere in campo accademico non vedano la loro stessa attività lavorativa e di ricerca come profondamente condizionata a livello sociale dai rapporti di potere che vigono nell'università e che legano l'università al resto della società. Nei loro sforzi di razionalizzare l'esistente e far apparire la realtà come espressione di alti principi di razionalità ed efficienza, i teorici borghesi hanno svuotato la categoria stessa del potere dei suoi contenuti sociali, fino a farla apparire come un'eccezione nei rapporti sociali ed economici. Così facendo, tuttavia, si sono preclusi la possibilità stessa di cogliere il contenuto di potere che caratterizza i rapporti universitari e di sviluppare una critica radicale delle funzioni economiche e sociali dell'università, restando dunque imprigionati nei loro stessi schemi teorici.

Grazie alle rappresentazioni mistificate degli ultra-liberisti e alle loro elaborate indagini empiriche, la tesi del pluralismo democratico si è affermata nella cultura dominante, come la regola vigente in ogni istituzione dei paesi democratici. Essa costituisce la verità presunta, da mettere in dubbio solo in presenza di convincenti prove empiriche del contrario. Ma il problema è che quanto più un sistema di potere funziona senza intoppi, tanto minori sono i ricorsi effettivi all'esercizio del potere da parte dei singoli soggetti. Per intenderci, il fatto che le rivolte nelle carceri siano rare non implica affatto che il carcerato non subisca un rapporto di potere, né che le carceri funzionino secondo principi pluralistici. Al contrario, l'ordine empirico può essere il segnale che il potere è così ben strutturato e distribuito in modo così asimmetrico da manifestarsi solo occasionalmente in forma di scontro aperto.

La concezione del potere come rapporto puramente interpersonale, empiricamente rilevabile, risulta doppiamente restrittiva. Primo, l'analisi empirica può svelare solo un sottoinsieme delle relazioni di potere esistenti: più precisamente, essa esclude le relazioni di potere consensuale — le quali giocano invece un ruolo decisivo nel contesto universitario – e si concentra sui casi che hanno più a che fare con l'abuso che non con il semplice uso del potere. Secondo, le cause dei rapporti interpersonali di potere non si trovano necessariamente nella relazione interpersonale stessa, ma hanno origine nel sistema sociale in cui gli individui interagiscono. In campo universitario, questa concezione porta a cercare nel rapporto cooptatore-cooptando, i soggetti dominanti e dominati dei rapporti di potere, senza cogliere il contenuto coercitivo dell'esclusione degli individui di più difficile omologazione scientifica o semplicemente privi, per ragioni di provenienza di classe, delle condizioni necessarie per partecipare alla scalata necessaria ad avviare il processo di cooptazione. Ma anche restando al rapporto cooptatore-cooptando, questa concezione non permette di spiegare le funzioni sociali svolte da questo particolare rapporto di potere interpersonale. Il potere subito dal cooptando fa infatti parte del processo classista di selezione e inquadramento che prepara il cooptando alla cattedra, da dove sarà chiamato ad adempiere alle funzioni proprie dell'università nella riproduzione materiale e ideologica della classe dominante: non solo il profilo sociologico del docente universitario mostra la sua appartenenza a questa classe e gli scarsi margini d'accesso riservati alle classi inferiori, ma i meccanismi di selezione e disciplinamento che precedono l'accesso alla cattedra garantiscono anche una produzione scientifica e culturale essenzialmente di classe.

Se dunque, nel suo rapporto con il cooptatore, il cooptando si situa sul lato dominato dei rapporti di potere, a livello sociale, egli partecipa assieme al cooptatore alla riproduzione dei rapporti di classe. In una prospettiva di classe, le vittime del rapporto di potere non sono quindi solo i soggetti con ambizioni accademiche, esclusi per ragioni sociali dalla cooptazione, bensì tutti gli esponenti delle classi subalterne che, anche quando non sognano nemmeno una cattedra universitaria, subiscono lo stesso una produzione scientifica e culturale al servizio delle esigenze economiche ed ideologiche della classe dominante.


L'università come sistema di potere

Nel tentativo di superare i limiti della teoria borghese del potere, in questo lavoro ho sviluppato una concezione radicale, di ispirazione marxista, soffermandomi sui meccanismi che conferiscono potere a determinati soggetti e che riproducono nel tempo le relazioni di potere esistenti. All'interno di questa concezione, ho mostrato che l'università baronale italiana è un sistema di potere, in cui il reclutamento per cooptazione condiziona l'intera vita universitaria, ben al di là del semplice momento concorsuale. In questo quadro, se l'università appare (soprattutto agli universitari) come priva di ogni reale rapporto di potere, è solo perché nell'università, come in ogni sistema di potere ben collaudato, i potenziali conflitti hanno raramente modo di manifestarsi apertamente. Da un punto di vista individualistico estremo, hanno ragione Alchian e Demsetz: nessun docente obbliga veramente nessun universitario (o aspirante tale) a portargli le borse. Anzi, di solito, è proprio l'aspirante universitario che cerca un professore al quale rendersi utile. Ma il sistema universitario non è solo un insieme di individui. Θ anche un insieme di vincoli giuridici ed economici, convenzioni, prassi, regole formali e informali (spesso peraltro illegittime), valori morali (non sempre esplicitabili), comportamenti ritenuti corretti e altri ritenuti sconvenienti secondo una logica diffusamente accettata. Θ tutto questo insieme di vincoli, regole e valori che obbliga l'aspirante universitario a cercarsi un docente al quale offrire i propri servizi e dal quale attendersi protezione.

Se non ci fosse un simile sistema di relazioni sociali all'interno dell'università, l'allievo non avrebbe alcun bisogno di rendersi utile al proprio maestro e potrebbe tranquillamente disobbedire anche alle disposizioni che questi esplicitamente gli impartisce, senza rimetterci alcunché. Bastoni e carote non avrebbero alcuna credibilità e la stessa relazione di potere interpersonale su cui si soffermano gli economisti neoclassici più progressisti, come Bowles e Gintis, non potrebbe esistere. Si vede allora che la relazione di potere tra il singolo docente e il suo allievo è solo una manifestazione di un sistema di potere che regola la vita universitaria e che riguarda tutti: professori, ricercatori, aspiranti universitari in corso di cooptazione e soggetti esclusi, sia quelli che hanno un docente di riferimento, sia quelli che, per scelta, per condizioni materiali o per incapacità, non ne hanno nessuno.

Un aspirante universitario che decide di correre da solo, senza protezione, ha di fronte il potere dell'università come sistema: è un cooptatore astratto ad impedirgli di trovare un posto all'università; il cooptatore concreto è solo colui che si trova nelle specifiche circostanze del caso a fare da rappresentante personificato dei cooptatori come soggetti sociali. Questo aspirante universitario sa di non avere chance di vincere un concorso, non perché teme di incontrare sulla sua strada questo o quel particolare barone-cooptatore, ma perché sa che ne incontrerà uno, con accanto un suo protetto pronto a ricevere l'agognata ricompensa. (Ovviamente poi, ma qui non ha nessuna importanza, il timore di incontrare altri candidati più bravi, unico timore legittimo in un concorso pubblico, è solo una contraddizione in termini: se il protetto risulta veramente il più bravo, vince; altrimenti, vince lo stesso).

Secondo la logica individualista, l'interazione tra cooptatore e cooptando è ispirata semplicemente al perseguimento del mutuo beneficio. Dal punto di vista sociale, i loro comportamenti servono invece soprattutto a riprodurre i rapporti tra squadre accademiche e l'intero sistema della cooptazione. Θ chiaro che se da un giorno all'altro si eliminassero tutti i cooptatori e i loro allievi (come, in parte, fece il Ministro della Pubblica Istruzione, Francesco De Sanctis, con la riforma dell'università borbonica del 1878), anche la struttura di potere basata sulla cooptazione cesserebbe di esistere, esattamente come una lingua muore con la morte delle ultime persone che la parlano. Ma non è il singolo professore universitario o il singolo individuo che parla italiano a dare vita alla cooptazione universitaria o alla lingua italiana. Al contrario, essi agiscono all'interno di un sistema pre-esistente, che con il loro comportamento contribuiscono a riprodurre e a perpetuare.

Il vero problema non è dunque l'obbedienza dell'allievo alle promesse e alle minacce del maestro, ma l'esistenza di un sistema di potere che si impone a tutti: obbedienti e disobbedienti, allievi scientifici e portaborse, individui cooptati e soggetti che non riescono neanche ad entrare in una relazione di cooptazione. L'individuo che non ha un docente di riferimento al quale obbedire (e dal quale attendersi protezione e promozioni) non è affatto libero dai rapporti di potere. Nelle relazioni interpersonali, egli ha il "privilegio" di non subire il potere di alcun barone. Ma sul piano sociale subisce il potere coercitivo dell'intera struttura in cui opera, la quale gli impone vincoli e discriminazioni. Questo sistema di potere nei rapporti interni al mondo accademico ha effetti importanti anche sul modo in cui l'università assolve le proprie funzioni esterne, che consistono nella produzione e nella trasmissione di conoscenze scientifiche di classe, sempre più finalizzate alla produzione capitalistica e al mantenimento dei rapporti sociali ed economici esistenti. L'emancipazione individuale e sociale attraverso lo studio critico e la crescita scientifica sono tutt'al più ricordi utopistici ormai anacronistici, senz'altro incompatibili con gli autoproclamati valori dell'efficienza e dell'eccellenza.

Le conseguenze sulla ricerca scientifica sono ovvie: con la sua dimensione classista, la cooptazione contribuisce ad affermare la cultura e i valori della classe dominante, imponendoli come cultura e valori dell'intera società. Questo sistema esclude dall'università le teste pensanti con progetti scientifici autonomi e le voci critiche più radicali, che difficilmente si rispecchiano nelle concezioni già affermate a livello accademico (sia in merito alle questioni strettamente scientifiche, sia in merito all'accettazione stessa del principio cooptativo). La cooptazione mette fuori gara tutti quelli che, invece di cercare di risolvere i problemi sollevati da altri, si pongono domande (e, inevitabilmente, sollevano critiche), quelli cioè che costituiscono la vera sfida proprio sul fronte scientifico. In questo sistema, l'estensione del proprio feudo è il solo scopo e le idee senza baroni muoiono, con i loro sostenitori.

Il confronto critico tra posizioni diverse è una pia illusione nell'università baronale. Il sistema riproduce solo se stesso, con le sue correnti di pensiero e le sue rivalità interne tra squadre accademiche, premiando i docili servitori intellettuali delle diverse cause teoriche, in proporzione al potere di ciascuna famiglia feudale. L'effetto finale è la perdita della dimensione critica nella ricerca scientifica, un forte conservatorismo culturale e l'autoreferenzialità del sistema accademico di produzione del sapere.

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