Copertina
Autore Valeria Palumbo
CoautoreGiancarlo Montelli [immagini], Paola Di Matteo [grafica]
Titolo Dalla Chioma di Athena
SottotitoloDonne oltre i confini
EdizioneOdradek, Roma, 2010 , pag. 112, ill., cop.fle., dim. 24x29x1 cm , Isbn 978-88-96487-10-5
LettoreGiovanna Bacci, 2013
Classe biografie , femminismo
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Presentazione



Le antologie sono comunque discutibili. Scontentano sempre qualcuno e scatenano la compilazione di elenchi alternativi. Certo, dipendono dalla sensibilità, dalle letture, dal gusto dell'autore. Anzi degli autori, che in questo caso sono due e di sesso diverso, per quello che ormai può significare. Tuttavia, crediamo che qualsiasi turnover lascerebbe intatto il nocciolo della scelta: donne che hanno voluto e saputo rompere le angustie di ruoli assegnati e intraprendere nuove strade. All'editore spetta però il compito di sottolineare alcune caratteristiche di questa antologia-narrazione, che passa attraverso una serie di "tavole della passione", e rivela la progressiva autonomizzazione della figura femminile. Nel segno di Athena, del suo simbolico, determinato irrompere con la sua affermazione di autonomia. Un'intelligenza armata, fino ai denti.

Fino a poco tempo fa legate alla figura maschile da relazioni di complementarità coatta, condizionate dalla specie, costrette nell'ambito della riproduzione e della cura, modulate da una storia claustrofobica, oppresse dalla religione: queste le donne "normali". Quelle qui illustrate hanno invece con il mondo maschile rapporti di simmetria, non esclusivi, contro una secolare tradizione che, dallo stilnovo al romanticismo, imponeva alla loro individualità la cifra preponderante della relazione amorosa, dagli esiti incerti, preferibilmente drammatici.

Non la scelta, si diceva, si vuole giustificare, ma i limiti di tempo nei quali le figure femminili scelte si muovono. Il terminus a quo è il Moderno. Tante, tantissime donne del passato, da Ipazia ad Artemisia, avrebbero meritato di comparire, ma si è scelto di considerare il periodo in cui l'uguaglianza formale (Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, 1789, e Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, 1791) ha imposto di riconoscere (molto in teoria, ovvio) le pari opportunità, facendo balenare di poter contendere ad armi pari, avendo le stesse letture, le stesse possibili esperienze, gli stessi talenti. Si possono considerare le pari opportunità come effetto collaterale del capitalismo: la società moderna costringe prima a mettersi sul mercato. Poi a concorrere sul mercato nell'offerta delle proprie capacità.

A partire dalla fine del Settecento, poi, grazie allo sviluppo delle tecniche di riproduzione e di stampa, si è potuto disporre di una iconografia, di un primo sedimentarsi di ritratti e biografie per cui anche i nostri autori hanno potuto elaborare e interpretare le figure femminili scelte, hanno integrato più di uno spunto, e individuato alcuni segni caratteristici.

Anche il limite temporale superiore si precisa: non compaiono donne viventi, quasi a voler sottolineare che è arduo rappresentare ciò che tende ad essere normale. L'attuale eccesso di documentazione, poi, se apparentemente facilita l'interpretazione, induce alla conformizzazione e alla banalizzazione perché un'immagine tende a imporsi e a condizionare quelle successive. Il rischio, oggi, è che l'iconografia diventi subito agiografia. Palumbo sostiene di essere andata in direzione opposta: «ho cercato di essere sincera nel raccontare queste donne straordinarie. Grazie al cielo, nessuna di loro è stata una santa. Né una dea». Ovvero che perfino le biografie non sfuggano al setaccio dell'ironia. O almeno del distacco. Montelli, che davvero ha dato a tutte queste donne le ali, è riuscito, con un raro senso del paradosso, anche ad ancorarle bene alla terra.


Una metà delle tavole qui presentate furono mostrate da Giancarlo Montelli all'editore che non poté non cogliere la straordinaria consonanza tra quei segni e le biografie che Valeria Palumbo aveva raccolto nelle Figlie di Lilith. L'incontro tra l'autrice dei testi e l'autore delle immagini è stato propiziato da Odradek, ma poi la collaborazione ha preso forma, anzi si è rimodellata: biografie e ritratti si sono andati organizzando in un'unica architettura, esaltata dalla grafica di Paola Di Matteo. E dove sembrava ci fosse ancora spazio al caso, la libertà d'interpretazione ha tessuto invece un racconto unico. Il che non vuol dire che Palumbo abbia preso a scrivere "alata e aerea" come Montelli dipinge, e Montelli abbia cominciato a disegnare "perfido e scanzonato" come Palumbo è solita. Ma che l'insieme ha una forma e un senso tutto suo e che proprio la diversità dei punti di vista (ma l'unicità della visione di fondo) lo rende originale. E l'editore ammette: non poteva venire diversamente. Le biografie scelte costituiscono, alla fine, un unico ritratto.

Odradek

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Pagina 40

Rosa Luxemburg


«Il Convegno Internazionale delle donne socialiste esprime il suo sdegno
e la sua protesta per la condanna dei deputati socialisti russi
e contro l'arresto della compagna Rosa Luxemburg.
Esso manda l'espressione della sua viva simpatia
a questi benemeriti militi del socialismo internazionale»



così il comma IV dell'Appello lanciato al congresso di Berna, che si tenne dal 25 al 27 marzo 1915. Dal 18 febbraio Rosa era chiusa nella prigione di Barnimstrasse, a Berlino, per propaganda antimilitarista. Era già dal Congresso della II Internazionale del 1889 che la Luxemburg si era messa in luce, con Clara Zetkin, per la sua opposizione alla guerra. Al Congresso della II Internazionale di Stoccarda, dell'agosto 1907, in cui il giovane Lenin aveva rimesso il suo mandato nelle mani della "cittadina Luxemburg", le due signore avevano rappresentato la linea "dura": nessuna concessione al patriottismo. Anche per questo, sempre con la Zetkin e con Karl Liebknecht, Rosa avrebbe fondato, nel 1916, la Lega spartachista.

Ma nel frattempo, appunto, era in carcere. E scriveva. «Das ist die erste leise Regung des kommenden Frühlings — trotz Schnee und Frost und Einsamkeit glauben ... », «E il primo, leggero fremito dell'imminente primavera — nonostante la neve e il gelo e la solitudine... noi crediamo che stia arrivando la primavera! E se, per impazienza, non dovessi sopravviverle, allora non dimenticatevi che sulla mia pietra tombale non dev'esserci inciso altro che il canto degli uccellini».

La poetessa della rivoluzione è forse un tronco che giace da decenni nelle cantine della Charité di Berlino: la sua tomba ufficiale non conterrebbe dunque i suoi resti. La notizia che quel corpo ritrovato senza testa, mani e piedi, contorto come un bronzo ellenistico, possa appartenere a Rosa Luxemburg ha suscitato un certo scompiglio a fine 2009 sulla pur soporifera stampa tedesca: il settimanale der Spiegel ha pubblicato la foto dei resti infilati in una macchina per la Tac. Di certo in comune con la rivoluzionaria la donna uccisa aveva l'altezza e una malformazione al femore. Ma soprattutto si era nutrita nello stesso modo (si deduce dai minerali contenuti nei resti). Rosa era nata nel 1871 nella polacca Zamosc, nel Voivodato di Lublino; era fuggita a Zurigo, per sottrarsi alla polizia zarista, nel 1889; nel 1898 si era trasferita a Berlino. L'alta concentrazione di azoto e zolfo nelle ossa ha fatto pensare a un consistente consumo di prodotti animali ma anche a periodi di fame. In effetti, durante la Prima guerra mondiale, la Luxemburg passò più di tre anni in carcere: non era come alloggiare al Grand Hotel. La prova regina sarebbe quella del Dna: ma l'unica bisnipote esistente, che vive in Israele, vanta una parentela genetica troppo lontana.

E così per ora rimangono solo i dati già noti. Rosa Luxemburg, o meglio Rozalia Luksenburg, era nata il 5 marzo 1871 da una famiglia di ebrei polacchi (era la più giovane di cinque fratelli) e venne poi naturalizzata tedesca. A 16 anni si iscrisse al partito Proletariat, che era stato fondato nel 1882 e decapitato nel 1886. Ma la cellula alla quale Rosa si iscrisse un anno dopo l'esecuzione dei quattro leader, l'arresto e il bando di molti altri, si era salvata. Nel 1889 Rosa fu acciuffata dalla polizia e costretta a lasciare il Paese. Riparò a Zurigo dove viveva un'estesa comunità di russi e polacchi fuoriusciti. Si iscrisse all'università e si mise a studiare scienze naturali, matematica ed economia. Nel frattempo si impegnò nel movimento operaio locale e partecipò ai tanti incontri organizzati dagli intellettuali in esilio.

Le ci vollero solo un paio di anni per imporsi come leader: fondò e divenne l'editorialista di spicco del giornale di partito, Sprawa Rabotnicza, La causa dei lavoratori, che veniva stampato a Parigi. Nel 1894 il Proletaríat cambiò nome e divenne il Partito socialdemocratico del Regno di Polonia. Poco dopo anche la Lituania fu inserita nella sigla: Sdkpl.

Nell'agosto 1893 Rosa rappresentò il suo gruppo al Congresso dell'Internazionale socialista che si tenne proprio a Zurigo. Fu subito chiara la spaccatura con il Partito socialista polacco che puntava all'indipendenza nazionale: per Rosa veniva prima la causa del proletariato. E quella non aveva confini. L'idea non piacque, tanto che Wilhem Liebknecht, vecchio allievo e amico di Karl Marx e Friedrich Engels, rivoluzionario di lunga data e fondatore del giornale Vorwärts! (Avanti!), ma soprattutto tra i padri della socialdemocrazia, arrivò ad accusarla di essere un agente zarista. In verità l'ossessione di Rosa erano i lavoratori, il che la spinse a trasferirsi, nel 1898, in Germania, dove il movimento operaio era ben più vivace.

Divenne editorialista e animatrice di una serie di giornali e riviste, in particolare del marxista Die Neue Zeit. E si mise in rotta un po' con tutti, compreso l'intoccabile Papa rosso, come veniva chiamato Karl Kautsky. Ottima oratrice, la Luxemburg cercava di puntare sulla razionalità anziché sull'emozione: più tardi sarebbe stata una sorpresa scoprire, nelle sue lettere, quanto fosse capace di sentimenti intensi e al tempo stesso delicati. Tra il 1896 e il 1898 se la prese sempre di più con il marxismo. E ancora di più con la socialdemocrazia. L'ingresso, nel giugno 1899, di Alexandre Millerand, leader del Partito socialista di Francia, nel gabinetto di "difesa repubblicana", in veste di ministro del Commercio, le parve un tradimento. «Possiamo occupare tutti gli spazi possibili nello Stato borghese a patto di poter portare avanti la lotta di classe contro la borghesia», commentò. In ogni caso, alle tentazioni crescenti dei socialdemocratici di radicarsi nei Parlamenti ed entrare negli esecutivi, la Luxemburg rispose con uno dei suoi saggi più brillanti, Riforma socíale o rivoluzione? (1899), nel quale sosteneva che non esisteva una contraddizione fra le riforme e la rivoluzione, a patto che il partito usasse le riforme come strumento per rovesciare, alla fine, il sistema capitalista.


non dimenticatevi che sulla mia pietra tombale non deve esserci inciso altro che il canto degli uccellini


Al tempo stesso, tra il 1903 e il 1904, si mise in rotta di collisione con Lenin. Attaccò la sua visione di un partito centralizzato, benché, all'epoca, Lenin non avesse neanche un suo partito. Rosa, in realtà, non se la prendeva tanto con i movimenti politici russi: esprimeva solo il timore che la potente macchina della Spd tedesca fagocitasse tutte le sigle e ne monopolizzasse l'azione. D'altra parte aveva guidato il suo gruppo polacco con mano fermissima: la Sdkpl non avrebbe potuto essere più centralizzata. Inoltre Rosa contestava il sostegno che Lenin dava al principio di autodeterminazione delle nazioni.

Nella sua furia iconoclasta, la Luxemburg non risparmiò neanche le donne, in particolare il movimento femminista e suffragista del suo tempo. Durante la battaglia per il diritto di voto, che sostenne con energia anche contro i suoi compagni di partito, si riferiva alle donne borghesi chiamandole «co-consumatrici del plusvalore che i loro uomini spremono dal proletariato, sono parassiti dei parassiti della società». E per chi non avesse capito, aggiungeva che "questi parassiti": «sono ancora più violenti e spietati nella difesa dei loro diritti di parassiti rispetto ai rappresentanti diretti del dominio di classe». Insomma a lei interessavano le lavoratrici. E le interessavano perché accrescevano l'impatto delle lotte proletarie. In un discorso sul diritto di voto, tenuto a Stoccarda nel maggio 1912, durante la Seconda Assemblea delle donne socialdemocratiche, affermò che «il magnifico risveglio politico e sindacale delle masse del proletariato femminile negli ultimi quindici anni è stato possibile solo per il fatto che le donne lavoratrici hanno rappresentato la parte più vitale delle lotte parlamentari della loro classe nonostante non avessero diritti politici».

Litigare con i compagni, evidentemente, non attutiva né l'odio contro il regime prussiano, né quello del regime contro di lei: nel 1904 fu condannata a tre mesi per aver offeso il Kaiser. Ne scontò uno. Ma il "suo anno" fu il 1905, quando, con l'esplodere dei moti rivoluzionari in Russia, Rosa teorizzò (in autonomia rispetto a Leon Trotsky e all'oggi misconosciuto Alexander Israel Helphand, alias Parvus) sia il concetto di "rivoluzione permanente" sia il ruolo fondamentale dello sciopero generale per rovesciare il sistema capitalista. I socialdemocratici tedeschi, su questo punto, avevano sempre più dubbi. E lei cominciava ad annoiarsi: «In principio c'era l'azione», amava ripetere. E così, vuoi perché le sue origini erano in terre slave, vuoi perché russi e polacchi sembravano davvero voler fare la rivoluzione, nel dicembre del 1905 partì alla volta della Russia (con grande sollievo dei suoi compagni tedeschi). In realtà non stava bene e la repressione aveva già ricacciato a casa i ribelli o li aveva messi in carcere. Il 4 marzo 1906 fu arrestata anche lei, a Varsavia. La tennero dentro quattro mesi. Poiché stava male ed era di nazionalità tedesca fu liberata. Ed espulsa.

Tornò a casa persuasa della bontà delle idee bolsceviche: la frattura con i socialdemocratici, in particolare con Kautsky, si approfondì. «Dal mio rientro dalla Russia mi sento piuttosto sola...», scrisse a Clara Zetkin. Nel frattempo, però, Rosa rimaneva molto amica della moglie del leader socialista tedesco, Luise, la "carissima Lulù", alla quale scrisse lettere bellissime e gentili. Dopo la sua morte, la Kautsky espresse sia il suo grande affetto e la sua immensa ammirazione per la Luxemburg, sia l'impossibilità di sostenerne le posizioni. In occasione della morte di un comune amico, Rosa le aveva scritto: «Sono ancora incapace di emergere dalla profonda sorpresa: è possibile? Mi sembra come una parola che sia stata costretta al silenzio o taciuta nel bel mezzo di una frase, come una corda spezzata all'improvviso che però odo ancora...». La rottura con Karl Kautsky avvenne nel 1910. La Spd si era ormai spaccata in tre correnti: quella riformista; quella centrista, guidata da Kautsky, soprannominato da Rosa "il leader della palude", che conservava un linguaggio rivoluzionario ma accettava di agire in Parlamento e sosteneva la tesi del "lento logoramento" del capitalismo. E una terza, fieramente rivoluzionaria, della quale la Luxemburg era ispiratrice. «Ci sono due tipi di esseri viventi, quelli che hanno una spina dorsale e pertanto camminano; qualche volta corrono anche. Ce ne sono altri che non ne hanno e pertanto strisciano attaccati al suolo», aveva scritto a proposito dei sindacalisti troppo burocratizzati. Ma perfino Trotsky non la capiva e, nel dar ragione a Kautsky, affermò: «A mio modesto parere, il motore tattico di Rosa Luxemburg è la sua nobile impazienza. È una qualità molto bella, ma sarebbe insensato elevarla a principio dominante del partito...». Più semplicemente gli altri l'aveva ribattezzata "Rosa la sanguinaria".

Dal 1907 al 1914 insegnò economia politica alla scuola di partito di Berlino. Nel 1913, apparve la sua opera più nota: L'accumulazione del capitale. Che la scrivesse una donna era una provocazione per tutti. Forse un po' meno sorprendente il suo impegno contro la "guerra imperialista". Anche su questo punto sarebbe entrata in rotta di collisione con molti socialisti: la sinistra italiana, per esempio, brulicava di interventisti.

Il 20 febbraio 1914 fu arrestata per aver incitato i soldati alla diserzione. Aveva dichiarato: «Se si pretende da noi che leviamo l'arma omicida contro i nostri fratelli francesi e altri fratelli stranieri, noi dichiariamo: no, non lo facciamo, in nessuna circostanza». La condannarono a un anno di prigione. Nel difendersi davanti alla corte pronunciò un discorso, poi raccolto nell'opuscolo Militarismo, guerra e classe operaia, che si rivelò una delle denunce più lucide della barbarie bellica moderna. Eppure, il 4 agosto 1914, allo scoppio della guerra, la Spd votò i crediti di guerra al Kaiser. I deputati socialisti favorevoli erano 111, quelli contrari 15, ma furono costretti all'obbedienza. Soltanto un socialista, il 2 dicembre, votò secondo coscienza: Karl Liebknecht. Rosa, benché delusa, non si arrese. Lo stesso giorno del primo voto, il 4 agosto, riunì nel suo appartamento un gruppo di fedeli, capeggiati dallo stesso Liebknecht, da Clara Zetkin e Franz Mehring. E fondò il Gruppo internazionale, che prese poi il nome di Lega spartachista. Da allora la battaglia antimilitarista fu al centro della sua azione.

Il 28 giugno 1916 venne arrestata con Liebknecht dopo il fallimento di uno sciopero e condannata a due anni. In questo periodo scrisse moltissimo. In particolare, nel cosiddetto Junius Pamphlet, espresse il concetto di "socialismo o barbarie": l'alternativa a una società socialista le appariva, di fatto, una guerra di tutti contro tutti. Uscita dal carcere nel novembre 1918, per quanto provata, partecipò alla Rivoluzione tedesca di quei giorni e fu tra i fondatori del Partito comunista, tra il dicembre 1918 e il gennaio 1919. Il 19 gennaio 1919 si tennero in Germania le elezioni per l'Assemblea nazionale, che poi si sarebbe riunita a Weimar per evitare il caos di Berlino. Rosa non le vide: il 6 gennaio aveva preso parte alla cosiddetta Rivoluzione di gennaio. Il 15, lei e Karl Liebknecht furono sequestrati da sgherri dei Freikorps, i gruppi paramilitari sostenuti dal ministro socialdemocratico della difesa Gustav Noske. In particolare furono rapiti dalla Garde-Kavallerie-Schützendivision, comandata dal capitano Waldemar Pabst, che li portò all'hotel Adlon di Berlino. Furono torturati e uccisi. Rosa, in particolare, fu colpita con il calcio di un fucile. Poi le spararono alla testa. Infine gettarono il corpo nel Landwehrkanal. Il cadavere fu ripescato il 31 maggio. Prima che lo trovassero, Bertolt Brecht aveva scritto: «Ora è sparita anche la Rosa rossa, non si sa dov'è sepolta. Siccome ai poveri ha detto la verità / I ricchi l'hanno spedita nell'al di là». Non è poesia. Ma rende l'idea.

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Frida Kahlo


«Diego è un bambinone,
immenso, con un viso gentile e lo sguardo un po' triste»



Banale, se la pittrice Frida Kahlo non avesse proseguito così a descrivere il suo bis-marito (sposato il 21 agosto 1929 e di nuovo nel 1940): «I suoi occhi vivaci, scuri, intelligentissimi e grandi difficilmente stanno fermi nelle palpebre gonfie e protuberanti - quasi fuori dalle orbite - come quelle di un rospo... vedendolo nudo si pensa immediatamente a un bambino rana, che si regge sulle zampe posteriori. La sua pelle è bianco-verdastra, come quella di un animale acquatico...». E così via in un alternarsi di straordinari complimenti e di ironia grottesca. Non ne esce bene, alla fine, Diego Rivera. E come potrebbe? Frida è piccola e fragile. Accanto al pittore messicano (1886-1957), celebre sia per i suoi murales sia per la sua fede comunista (il che non gli impedì di dipingere per il Rockfeller Center di New York), è un passerotto. Perfino la fama di lui sembra schiacciarla. E invece, alla fine, è lei che diventa immortale. Almeno un po' più di lui. La storia di Frida è di quelle che convincono perfino Hollywood a farci un film (e così ha fatto Salma Hayek, diretta da Julie Taymor, nel 2002): sesso e sangue, dolore, talento, tradimenti e avventura. Anche per questo, oggi, Frida è la più celebre tra le artiste donne: quei suoi autoritratti maciullati, come la Giuditta sanguinolenta di Artemisia Gentileschi, fanno cronaca vera. A lei sarebbe piaciuto: ha intuito prima di molti altri che la contemporaneità esigeva dall'artista di esporre e vendere la sua stessa carne.

La nascita: 6 luglio 1907. Lei diceva di essere del 1910, non per i tre anni, ma per coincidere con la Rivoluzione messicana. Del padre, descrivendone un ritratto del 1951, a dieci anni dalla sua morte, scriveva: «Ho dipinto mio padre Wilhelm Kahlo, di origine ungherese-germanica, di professione artista-fotografo. Era generoso di carattere, intelligente e distinto, coraggioso in quanto soffrì per sessant'anni di epilessia, ma non smise mai di lavorare e combattere contro Hitler». Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón aveva due sorelle maggiori, Matilde e Adriana, una minore, Cristina; e due sorellastre, María Luisa e Margarita, che vivevano in convento. A sei anni, ebbe la poliomelite: a letto per un anno e il regalo di una gamba più corta dell'altra. Non era soltanto imbarazzante, per una ragazza. Era un tormento: la gamba soffrì di ulcere per tutta la vita e alla fine, per una cancrena, dovettero tagliargliela. Nel 1922 Frida fu mandata a studiare alla Scuola nazionale preparatoria di Città del Messico, da pochissimo aperta alle ragazze: erano soltanto 35 su 2mila allievi. La gracile quindicenne sognava di diventare medico. Non ci riuscì, ma lo studio dell'anatomia lasciò tracce indelebili sulla sua pittura. Fra l'altro, proprio in quella scuola incontrò il suo futuro marito, Rivera, chiamato per realizzare un mural. Tanto gli gironzolò intorno, pare, da ingelosire l'allora legittima consorte, la bellissima e un po' selvaggia Lupe Marín. Magari sono leggende e poi Lupe era sempre furiosamente (e giustamente) gelosa: di Frida lo fu anche in seguito, ma le insegnò a preparare i piatti preferiti di Diego e a servirli in un cestino fiorito. Deliziose contraddizioni femminili: Lupe, cuoca eccellente, una volta servì a Diego anche i suoi idoli pre-colombiani fatti a pezzi e abilmente ridotti a minestra. Il 17 settembre 1925 l'incidente che cambiò la vita di Frida: il bus su cui viaggiava si scontrò con un tram. Il corrimano le attraversò bacino e addome: «Persi la verginità», ci scherzò su lei. Strano che non ci abbia perso la vita. Ma osso pelvico, colonna vertebrale, clavicola, gamba destra e piede destro si ruppero in più punti; molte costole si incrinarono. E nulla fu più come prima: era diventata un'invalida, addio sogni. Almeno in apparenza. Perché un anno dopo realizzò il suo primo dipinto. E da allora non si fermò più. Per cominciare era bastato uno specchio sul letto e una lavagnetta regalata dalla madre.





Dipingere non le era difficile: il padre le aveva svelato i segreti. Lei ci mise sopra due corsi alla Preparatoria e un apprendistato, proprio nel 1925, con un incisore, Fernando Fernández. Il percorso fino al "suo stile", un surrealismo ego-femminil-latino non fu lunghissimo: Frida ebbe presto le idee chiare, anche sui temi, ritratti e autoritratti. Altro che la pittura "rivoluzionaria", forte ma impersonale, dei suoi celebri contemporanei messicani, dal marito a Clemente Orozco e Alvaro Siqueiros. Non che Frida non si occupasse di temi politici, delle radici indie e del popolo. Esiste pure un suo brutto autoritratto che si intitola Il marxismo guarirà gli infermi, del 1954, col faccione di Marx sospeso nell'aria come i serafini tutti testa e alucce della pittura barocca spagnola. Però, appunto, è brutto. E poi alla fine "gli infermi" si sintetizzano in lei: con il suo corsetto e il suo strazio. Si sa: passò distesa una buona parte della sua vita, tra atroci dolori che col tempo combatté sempre di più con droghe e alcol. Questo non le impedì di lavorare, spesso, come una forsennata (nel 1938 realizzò 15 quadri), di vivere tre anni negli Stati Uniti con Diego, di amare un cospicuo numero di uomini e donne, tra i quali il rivoluzionario russo Leon Trotsky e lo scultore Isamu Noguchi; di essere parte attiva del partito comunista messicano, di dare lezioni di pittura, di stringere amicizia con moltissimi intellettuali del suo tempo, molti dei quali, anche per colpa dei nazi-fascismi europei, vivevano allora in Messico. La sua esuberanza sentimental-sessuale è forse tra le caratteristiche che hanno più colpito la fantasia di pubblico e biografi. Nel 1928 aveva reincontrato Diego Rivera (che non vedeva dai tempi della scuola), grazie alla comune amica, la fotografa friulana Tina Modotti. Lui aveva da poco rotto il tempestoso matrimonio con Lupe. Si piacquero fin troppo. E cominciò un'altra tempesta. «Ho avuto due gravi incidenti nella mia vita», avrebbe poi detto lei: «In uno fui stesa da un bus. L'altro incidente fu Diego». Mentre, nel 1932, erano negli Stati Uniti per una serie di murales che Diego doveva realizzare per il Detroit Museum, Frida ebbe un aborto. Lo dipinse, in Miscarriage in Detroit. L'incidente del 1925 avrebbe dovuto renderla sterile. Non lo era. Ma non riuscì mai a partorire, e i feti dei figli mai nati si andarono affollando sanguinolenti sulle sue tele: non è mai un tema che le donne affrontano volentieri. Lei lo rielaborava mettendoci dentro l'intera storia del Messico. Diego, ancora incerto su come affrontare il talento della moglie, commentò: «Frida cominciò a lavorare a una serie di capolavori che non avevano precedenti nella storia dell'arte - dipinti che esaltavano le qualità femminili della sincerità, vericidità, crudeltà e sofferenza. Mai prima di allora una donna aveva messo su una tela una poesia così straziante come fece Frida quella volta a Detroit». Eppure lei stessa stentava ancora a prendersi sul serio. Era ancora l'eccentrica moglie di un maestro. Forse a farle cambiare idea fu il tradimento di Diego con sua sorella Cristina, al ritorno in Messico nel 1935. Diego era sempre stato infedele. Ma questo era un tradimento vigliacco. E Frida reagì in modo insospettato: lo tradì e ritradì con uomini e donne.

Lui sopportava meglio le donne, e diventava furioso quando nel letto di lei entrava un uomo. Contraddizioni maschili.

Tra gli ammiratori (non ricambiati) di Frida ci fu anche il guru del surrealismo, André Breton, sbarcato in Messico nel 1938: le scrisse una pomposa prefazione al catalogo di un'importante mostra a New York, allestita in quello stesso anno. E le organizzò (male: dovette rimetterci le mani Marcel Duchamp) un'altra esposizione a Parigi nel 1939. Lei ne rientrò disgustata da quei "lunatici figli di puttana" dei surrealisti. Ma per qualche tempo restò legata al loro stile. Nel 1940 Diego e Frida divorziarono: lui se ne andò a San Francisco. Lei lo raggiunse dopo l'assassinio di Trotsky e il successivo interrogatorio della polizia. Si risposarono. Lei non stava bene. Forse Diego ebbe un sussulto di responsabilità. Dal 1944 la salute della Kahlo andò via via peggiorando: subì una serie di interventi, forse quasi del tutto inutili. Lui la tradiva in modo seriale. All'inizio del 1950 Frida entrò in ospedale, a città del Messico. E vi rimase un anno. Nel frattempo crebbe sia la sua fama. Sia il suo attaccamento al Partito comunista. Lui, invece, ne era stato espulso.

Dolore, droga, alcol: la pittura di Frida si fece quasi convulsa, sempre più visionaria. Nel 1953 le fu dedicata, a città del Messico, la prima e unica grande personale, presso la Galeria de Arte Contemporaneo nella Zona Rosa. Lei, malatissima, ci arrivò a sorpresa in autombulanza. Poi la mutilazione, il taglio della gamba. E quel suo disperato tentativo di vivere come sempre, addirittura di continuare a ballare. L'ultima apparizione in pubblico fu nel luglio 1954, poco prima di morire, a una dimostrazione del Partito comunista in appoggio del presidente guatemalteco Jacobo Arbenz Guzmán, estromesso da uno dei tanti golpes feroci della Cia.

Morì il 13 luglio 1954, nel sonno. Forse per un'embolia. Qualcuno parlò di suicidio. Era stata ribelle, indipendente, femminista, irriverente, esibizionista, appassionata, visionaria. Dolente, sempre. Le ultime righe scritte sul suo diario furono:

«Espero alegre la salida, y espero no volver jamás»
Spero che l'uscita sia gioiosa e spero di non ritornare più

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