Copertina
Autore Valeria Palumbo
Titolo Geni di mamma
SottotitoloStorie di madri ingombranti per figli stravaganti
EdizioneOdradek, Roma, 2013 , pag. 172, ill., cop.fle., dim. 14,5x21x1,2 cm , Isbn 978-88-96487-24-2
LettoreDavide Allodi, 2013
Classe biografie , storia letteraria , psicologia
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Indice


 Introduzione                                         7

 1 Vittorio Alfieri e Monica Maillard de Tournon     13

 2 Gioachino Rossini e Anna Guidarini                23

 3 Giacomo Leopardi e Adelaide Antici                31

 4 Giuseppe Mazzini e Maria Drago                    41

 5 Felix Mendelssohn e Lea Salomon                   51

 6 Victor Hugo e Sophie Trébuchet                    61

 7 Alessandro Manzoni e Giulia Beccaria              69

 8 Robert Schumann e Johanna Christiana Schnabel     77

 9 Thomas Hardy e Jemima Hand                        85

10 Petr Cajkovskij e Aleksandra Andreyevna Assier    93

11 Arthur Schopenhauer e Johanna Trosiener          101

12 Marcel Proust e Jeanne Weil                      109

13 Amedeo Modigliani ed Eugenia Garsin              117

14 Vladimir Il'ic Ul'janov (Lenin) e
   Marija Aleksandrovna Blank                       125

15 Jorge Luis Borges e Leonor Acevedo Suàrez        133

16 Italo Calvino ed Eva Mameli                      143

17 Sigmund Freud e Amalie Nathanson                 151


Suggerimenti bibliografici                          159
Illustrazioni                                       166


 

 

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Pagina 7

Introduzione



Ogni biografia, o quasi, comincia con il nome del padre. Il padre è quello che, almeno secondo la Bibbia, emerge dal suo eterno far niente, in sei giorni combina i guai e le meraviglie che tutti sappiamo. E poi passa il resto del tempo ad arrabbiarsi con gli uomini (di più con le donne, ma mi riferivo agli esseri umani in generale). Non solo: sparisce tra le nubi quando c'è davvero bisogno di lui («Padre, padre, perché mi hai abbandonato?!»), salvo poi rifarsi vivo per giudicare ciò che è stato fatto in sua assenza. E infliggere punizioni un po' a casaccio.

Eppure, in quasi tutte le culture, è il padrone. E l'artefice. Perfino gli antichi greci, che ereditavano religioni ben più benevole verso il potere femminile e la maternità, misero in bocca ad Apollo queste parole: «Non la madre, non lei produce il suo frutto: "figlio" è il suo nome. Solo, nutre il gonfio maturo del seme. Lui procrea, che d'impeto prende. Lei come ospite all'ospite: veglia sul giovane boccio, se un dio non lo schianti». L'affermazione è tratta dalla tragedia di Eschilo, Eumenidi. Ma il colmo è che Apollo così giustifica la sua affermazione: «Ti offro la prova di questo argomento: padre senza madre è possibile. Una testimonianza è qui vicina, presente: Atena, la figlia di Zeus, che non crebbe nel cavo ombroso di un seno». E Atena non fa un plissé, anzi rincara la dose, assolvendo il matricida Oreste: «Non c'è madre che m'abbia dato la vita. Il mio favore va sempre alla parte maschile - purché non si tratti di nozze - dal fondo del cuore».

Ora, sarà più che probabile che in un futuro non ci sarà bisogno neanche di un utero materno e che la nascita di un bambino scorrerà tra dna digitalizzati e incubatrici in biomateriali, ma, a oggi, del padre si è imparato più o meno a fare a meno (e spesso con sollievo). Della madre proprio no. Se sia un vantaggio, magari, lo giudicheremo alla fine. Certo già Atena dice peste e corna del matrimonio.

E di una cosa possiamo essere certi: basta scorrere un qualsiasi bigino della religione e della storia e la prima cosa che salta all'occhio è che, in barba a tanto onore, il padre, quello vero, non c'è. Tant'è che, non trovando di meglio, sia gli antichi greci, favoleggiando su Dioniso e Alessandro Magno, sia gli indù, con Yudisthira, sia i cristiani, con Gesù, piazzarono il padre in cielo, invisibile ai più. E misero saldamente la madre sulla Terra.

Dopodiché cancellarono le madri dagli altari e dalla storia. Ed è proprio di questo che andiamo a parlare.

Se quest'inizio vi sembra irriverente, come in una vera tragedia, vi chiedo in anticipo pazienza. Le storie che vedrete scorrere, alcune già note, altre più sconosciute, cercheranno di ribaltare qualche stereotipo. E aggiungere qualche informazione. Se i padri non ne escono sempre benissimo, ripeto, non è colpa loro: secoli di cultura li hanno disegnati così.

A noi il compito di restituire un po' di luce e di voce (e quindi di dignità) alle madri che, nel bene o nel male, hanno avuto molti meriti nel modellare la vita di alcuni protagonisti della Storia.

I criteri sono presto detti: abbiamo individuato le madri di alcuni geniali signori vissuti tra fine Settecento e primo Novecento. Pochi: 17, per scegliere un numero propiziatorio. Li abbiamo scelti maschi (i geni), non tanto perché ci riserviamo una seconda puntata e perché il rapporto madre-figlia comporta riflessioni impervie. Ma perché è proprio nel rapporto tra questi illustri e celebrati personaggi e le loro mamme che emergono meglio i pregiudizi, i valori, gli ostacoli imposti alle donne. E quindi, provocatoriamente, le straordinarie qualità di indipendenza e intelligenza che gran parte di loro sono riuscite comunque a dimostrare. Reticenti le biografie. E reticenti spesso gli stessi figli che pure da queste madri speciali avevano tratto quasi tutto il materiale della loro preziosa creatività. Dall'immancabile (e piuttosto misogino) Sigmund Freud al malmostoso Arthur Schopenhauer (così insopportabile che nemmeno sua madre lo reggeva) fino al noiosetto Vittorio Alfieri, sono stati molti i geni ingrati. E questa ingratitudine dice molto. Cercheremo di scovarne le radici. A volte l'ingratitudine si è annodata a un amore immenso e solo in parte ricambiato. A volte la gratitudine si è dovuta mascherare davanti alla misoginia dei tempi. Il grande pittore spagnolo Pablo Picasso, a cui non dedicheremo un intero capitolo, a 19 anni, prese il cognome di sua madre Maria e si firmò quasi con arroganza "Yo, Picasso". Lui adorato, cresciuto in un gineceo, plasmato da una cultura che faceva di ogni maschio un dio, fu insopportabile con tutte le (tante) donne della sua vita. E sempre grato alla madre, che, nei dissesti familiari, aveva tenuto fermi la rotta e il timone. Una gratitudine al limite del sadismo, una fonte, direi, di impotenza, se anni dopo, a proposito di Dora Maar, eccentrica ma dotatissima artista sua compagna, avrebbe scritto: «Dora, per me, è sempre stata una donna che piange. Sempre (...). È importante perché le donne sono macchine per soffrire».

Che le donne fossero "macchine per soffrire" gli uomini (anche i non-geni purtroppo) l'hanno sempre dedotto dalla vita delle loro madri. Che così abbiano tacitato i loro sensi di colpa, spesso evidenti e dolorosi, per non averle sapute aiutare, è abbastanza scontato. Che ne abbiano pure ampiamente approfittato (è il caso di Giuseppe Mazzini e di Lenin) è spesso dimenticato. Eppure, attenzione: anche la "pazienza" delle madri e l'amore "che tutto dimentica" come poeteggia Victor Hugo sono stereotipi. Ma di questo ha scritto, e benissimo, Elisabeth Badinter ne L'amore in più, il saggio del 1981 che ha smontato la retorica dell'istinto materno. Invece gran parte degli uomini di genio che siamo andati a studiare, pur convinti che le loro madri avessero fatto grandi sacrifici e spesso sinceramente grati dei loro sforzi, hanno quasi sempre pensato che così doveva essere. E che le loro auguste mamme dovessero giudicarsi ampiamente ricompensate dal loro amore. Scriveva Marc Chagall nella sua autobiografia, ricordando appunto quanti sforzi avesse fatto la madre, Feiga-Ita, per farlo studiare: «Che parole, che mezzi posso usare per ritrarre il suo sorriso sulla porta di casa? Dimmi, madre, dall'altro mondo, dal paradiso, dalle nubi, da lì dove sei, il mio amore ti consola?».

Noi cercheremo di raccontare queste contraddizioni. E di non trame lezioni conclusive. Perché è proprio questo che è stato di maggior inciampo, durante i secoli, alle donne: la pretesa che ciò che era solo "cultura", tradizione, credenza, prassi e anche dogma fosse "natura". Che quindi i rapporti di sudditanza che gli uomini (maschi) avevano imposto alle donne fossero un destino inevitabile e che alle donne restasse solo di "vendicarsi" allevando figli (maschi) geniali. O particolarmente prepotenti (qualcuno, come Alessandro Magno, plasmato dalla indomabile e intelligente madre Olimpiade, si inscrive a entrambe le categorie).

Oggi che né la sudditanza ai maschi né la maternità sono più un destino ineludibile e "naturale", almeno per una fetta femminile d'Occidente, è arrivato il momento anche di riportare se non sugli altari, almeno nei libri di storia, le donne che, sia pure all'ombra di figli maschi più illustri, hanno affrontato con coraggio la vita. Alcune, come Johanna Trosiener Schopenhauer, Eugenia Garsin Modigliani ed Eva Mameli Calvino, vi stupiranno. Altre, come Jeanne Weil Proust e Leonor Acevedo Suárez (la madre di Jorge Luis Borges) vi faranno forse sorridere. Altre come Maria Drago Mazzini e Monica Maillard de Tournon Alfieri vi spiegheranno molto dei nostri caratteri nazionali. Tra proto-bamboccioni e pre-nevrotici (Freud non era ancora venuto, ma poi è entrato di diritto nella classe) non mancherà qualche sorpresa.

Certo, per essere onesti, va detto che spesso queste madri sono state un fardello mentalmente ingombrante (magari se avessero avuto sfogo fuori casa avrebbero fatto meno danni in famiglia). In una recente raccolta di saggi dello scrittore irlandese Colm Tóibín, che si intitola significativamente New Ways to Kill Your Mother, Nuovi sistemi per uccidere tua madre, tra le varie relazioni familiari invasive si ricorda quella del drammaturgo Samuel Beckett. Parlando di sua madre, Beckett commentò: «Il suo amore selvaggio mi ha modellato». Forse è ancora più significativo che l'autore del libro, Tóibín, la sua mamma non la citi nemmeno.

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3



Giacomo Leopardi
e Adelaide Antici



Diceva il filosofo Michel de Montaigne, a proposito dei figli morti ancora bambini: «Anch'io ne ho persi due o tre». Ovvero non si ricordava quanti mancassero al conto. Un mostro di indifferenza? All'epoca non arrivava a un anno di vita un bambino su tre. Era una perdita prevista. Ma se a dirlo era una donna, era scandalo. Lo fece, da quel che lascia intuire Giacomo Leopardi in un passo dello Zibaldone, proprio sua madre, Adelaide.

Non fu solo questo il motivo che la rese antipatica ai posteri. Ma, di certo, Adelaide Antici Leopardi è passata alla storia, per quel poco che c'è passata, con una pessima fama.

A essere precisi, alla storia c'è passata in ogni caso, soprattutto perché di lei si sono occupati personaggi insospettabili. Scriveva per esempio il cattolicissimo senatore e giornalista Filippo Crispolti (fu caporedattore dell' Osservatore romano, di cui lo zio Cesare era stato direttore), in un articolo a lei dedicato nella Nuova Antologia del 16 settembre 1929: «Era una fanciulla di bellezza severa, da gli occhi di zaffiro splendenti e intelligenti, benché velati da una pensosa malinconia; dai corti capelli ricciuti d'un castano chiaro tendente al biondo, da l'aspetto maestoso, che pareva accordarsi perfettamente al carattere del vetusto palazzo di cui diveniva signora; alta e con un portamento da regina, ella nelle graziose acconciature e nelle succinte vesti, di cui la moda era venuta allora da Parigi, nulla perdeva de l'austerità naturale; e il viso, soprattutto gli occhi e la fronte, restavano severamente assorti, come in un mesto pensiero, sotto i diffusi riccioli ornati da un filo di perle, da un nastro di velluto e da un capriccioso spennacchietto. Tale ci appare in una miniatura sopra una tabacchiera di Monaldo; nessun sorriso, nessuna mollezza nelle austere sembianze: non sembra una delle graziose, voluttuose donne del secolo passato, ma un'antica matrona travestita...».

In sé è un ritratto gentile, ma non particolarmente elogiativo. Eppure risultò ai severi censori dell'epoca come un "tentativo di riabilitarla" e fece infuriare, abbastanza inspiegabilmente, Antonio Gramsci, che scriveva in Letteratura e vita nazionale: «Che dei puri eruditi, appassionati anche delle minuzie biografiche dei grandi uomini, come il Ferretti (Giovanni Ferretti, critico letterario, autore di una vita del Leopardi, ndr), abbiano cercato di "riabilitare" la madre del Leopardi, non fa meraviglia: ma le allumacature gesuitiche che il Crispolti sbava sullo scritto del Ferretti, fanno ribrezzo... Moralmente perché il tentativo di giustificare la madre del Leopardi è meschino, cavilloso, gesuitico nel senso tecnico della parola. Davvero che tutte le madri aristocratiche dei primi del secolo XIX erano come Adelaide Antici? Si potrebbero portare documenti in contrario a profusione... La difesa della madre del Leopardi non è un puro fatto d'erudizione curiosa, è un elemento ideologico, accanto alla riabilitazione dei Borboni...», ecc.

Ma che aveva fatto la povera Adelaide Aloisia Francesca, nata a Recanati nel 1778, per meritarsi tanto disprezzo?

A parlarne male aveva cominciato, dicevamo, il figlio, che nello Zibaldone aveva appuntato: «Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avevan liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, né sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene».

Dato per scontato che tanta gioia davanti ai morenti appare comunque singolare e un tantino sadica, c'è da dire che la povera Adelaide aveva una serie di scusanti.

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Arthur Schopenhauer
e Johanna Trosiener

Annota Irvin D. Yalom, nel bel romanzo La cura Schopenhauer: «Johanna (Trosiener, la mamma di Arthur Schopenhauer) scrisse nel suo diario che, come tutte le giovani madri, dopo la nascita di Arthur nel febbraio 1788 amava giocare con la "sua nuova bambola". Ma le bambole nuove diventano presto vecchie, e nel giro di pochi mesi Johanna si era stancata del suo giocattolo...». Non si potrebbe sintetizzare meglio il disinteresse che l'intelligente Johanna provò subito per suo figlio e che caratterizzò non soltanto la loro vita comune ma, forse, la misantropia e misoginia del futuro filosofo. Sto semplificando. Ovvio che contribuì parecchio l'indole del pargolo. E i pregiudizi dell'epoca. Di fatto lui si sentì tradito. E non si concesse mai di perdonare.

Yalom descrive molto bene la noia e il senso di soffocamento di Johanna nell'isolamento di Danzica dove gli Schopenhauer avevano le loro proprietà: Heinrich, il marito, era gelosissimo e la teneva confinata in casa, impedendole di avere rapporti con il resto del mondo. Di questo Arthur non volle mai tenere conto. Anzi, benché il suo aguzzino fu senz'altro il padre, che lo costrinse a studiare, come lui, da mercante anziché da filosofo, il suo odio si concentrò contro la madre. Per Freud è (quasi) tutto spiegato. Noi che amiamo la storia, però, vogliamo indagarla più da vicino.

Intanto: visto che dopo tante angherie, il padre si suicidò, risulta ancora più singolare che gli unici due passi dell'opera di Arthur relativi alla sua vita privata e ammantati di una certa tenerezza siano riservati proprio al rude Heinrich. Pare che Arthur ne apprezzasse la franchezza nell'affermare che l'unica buona ragione per lavorare siano i soldi. Altro che i ditirambi dei filosofi. A 60 anni Schopenhauer, che guarda caso aveva fatto proprio il filosofo, decise di dedicare tutta la sua opera al padre. Scrisse e riscrisse la dedica. E poi non la pubblicò. In sintesi, vi sosteneva di dovergli tutto e gli dava pure dello spirito nobile ed eccellente; inoltre affermava che, se non fosse stato per Heinrich, il povero Arthur sarebbe andato cento volte a fondo. Improbabile.

La madre di Arthur, Johanna Trosiener Schopenhauer, era una scrittrice di fama e non tollerava restrizioni, tant'è che dopo il suicidio del marito, si trasferì nella vivace e tollerante Weimar, per essere più libera. Qui la raggiunse, dopo qualche anno, il figlio filosofo, che lei avrebbe voluto invece tenere a distanza, il quale rimase inorridito dalla "leggerezza" con la quale la "sua signora madre" s'era messa in casa un giovane amante. L'improvvisa liaison irritò Schopenhauer e il suo difficile rapporto con la figura materna si guastò ulteriormente. Arthur ebbe a scrivere con astio: «Quando mio padre fu costretto sulla sedia a rotelle, mentre lui si spegneva in solitudine, la mia signora madre dava ricevimenti». Cosa che, a rigore, non era affar suo. Di fatto, Arthur si sostituiva al padre e riteneva di essere stato tradito. Per quanto non lo sperimentò di persona, continuò a tacciare tutte le donne di slealtà congenita. Forse aveva semplicemente intuito che non bastava tenerle segregate in casa per fame delle schiave. Soprattutto, e qui forse veniamo al punto, non accettò mai il fatto che sua madre non ricambiasse la sua adorazione e che preferisse non averlo nei pressi. Visto il carattere umorale del ragazzo, Johanna aveva le sue buone ragioni.

Quale che fossero i motivi reali dell'astio contro la madre, Arthur si sentì comunque autorizzato a trattar male tutte le sue numerose compagne: l'attrice Caroline Jagermann, la cameriera d'albergo Alice Huller, la veneta Teresa Fuga, la corista Caroline Richter Medon, la commerciante d'arte Flora Weiß, tanto per fare alcuni nomi. Schopenhauer accampò la scusa del "tradimento" materno anche per mantenersi fedele al suo proposito di non contrarre matrimonio. Solo alla fine dei suoi giorni la sua misoginia sembrò vacillare davanti all'amata scultrice Elisabeth Ney: «Chissà, forse potrei decidere di sposarmi», scrisse a un amico. Troppo tardi: l'anno dopo, il 21 settembre 1860, morì per una pleurite acuta a Francoforte sul Meno. E comunque mentiva o aveva mentito nell'ostentare tanto disprezzo verso le donne, quando aveva affermato: «Il sesso femminile, di statura bassa, di spalle strette, di fianchi larghi e di gambe corte, poteva essere stato chiamato il bel sesso soltanto dall'intelletto maschile obnubilato dall'istinto sessuale». Lui, Arthur, non era propriamente un adone e da anziano assunse un'aria arcigna con la quale ci è stato consegnato da gran parte dei ritratti.

Con tutto il suo astio, Schopenauer ottenne due risultati: fece dimenticare al mondo che sua madre era stata una scrittrice e una saggista di successo. E costrinse la critica a indagare se dietro alla sua cupa filosofia e alla sua misoginia, più che alate riflessioni filosofiche, si nascondesse soltanto l'odio per una mamma terribile. Non tutta la sua filosofia ne sarebbe stata contaminata, si affrettano a concludere studiosi e filosofi (in genere uomini): se lo affermassero concederebbero troppo potere intellettuale a una donna, sia pure a una madre. Ma, soprattutto i suoi detrattori, hanno insistito su questa "macchia originale". A dire il vero, un secondo filone di detrattori ha invece sottolineato come Johanna fosse un personaggio notevolissimo e che quindi la misoginia e il pessimismo di Schopenhauer devono avere un'altra radice. Tutti, comunque, hanno ribadito quello che Schopenhauer voleva ignorare: che suo padre, nella sua formazione, ha contato ben poco. In fondo, tra le tante insensatezze che sparse sulle donne, Schopenhauer riuscì anche a scrivere, nel suo Diario di viaggio: «Ogni uomo eredita la sua moralità dal padre, la sua intellettualità dalla madre...». Poi, come per correggersi e ispirandosi alle false credenze degli antichi, aggiungeva: «al momento del concepimento il padre dà la base, la radice della nuova vita, la madre solo il contenitore, la forma. La coscienza individuale non può perdurare se consiste soltanto nell'incontro di due elementi eterogenei».

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Italo Calvino
ed Eva Mameli

«Mia madre era una donna molto severa, austera, rigida nelle sue idee tanto sulle piccole che sulle grandi cose [...] L'unico modo per un figlio per non essere schiacciato da personalità così forti era opporre un sistema di difese. Il che comporta anche delle perdite: tutto il sapere che potrebbe essere trasmesso dai genitori ai figli viene in parte perduto». Giudizio quasi senza appello di Italo Calvino su sua madre, Eva. Vero: nel suo studio dominava il silenzio. Tanto che la complicità tra Eva Mameli e il figlio Italo Calvino era fatta «di sguardi e gesti più che di parole». Ma che donna fuori dall'ordinario!

Eva, sembra un contrappasso biblico, «non usciva mai dal giardino etichettato pianta per pianta». Un giardino magnifico. Tra le prime donne a laurearsi in una facoltà giudicata poco femminile, scienze naturali (il solito paradosso: le donne sarebbero tutte "natura", ma della natura non capirebbero nulla), fu, in barba a tanta proclamata severità, l'autrice, con il marito Mario di un delizioso prontuario, 250 quesiti di giardinaggio risolti, nato dalla fusione delle risposte ai lettori della rivista Il giardino fiorito e di recente ripubblicato, dopo un silenzio di 70 anni.

Giuliana Luigia Evelina Mameli era nata a Sassari il 12 febbraio del 1886. La famiglia apparteneva alla borghesia medio-alta: il papà, Giovanni Battista Mameli, era colonnello dei carabinieri. La mamma si chiamava Maddalena Cubeddu. Eva era la sua primogenita.

Fu subito "diversa": frequentò un liceo pubblico, tradizionalmente riservato ai maschi, e si laureò in matematica all'Università di Cagliari nel 1905. Ma la sua passione erano le scienze. Dopo la morte del padre, si trasferì a Pavia: andò a vivere con suo fratello Efisio, che insegnava nell'ateneo locale Chimica farmaceutica, Chimica organica e Tossicologia. Efisio fu anche tra i fondatori del Partito sardo d'azione. Lei si iscrisse a scienze naturali, e prese a frequentare il laboratorio crittogamico di Giovanni Briosi, già conosciuto tra gli esperti di tutta Italia per gli studi sulle piante "inferiori", come muschi ed alghe.

La passione per la botanica spinse Eva a proseguire le sue ricerche come assistente volontaria, cioè non pagata, anche dopo la laurea in scienze naturali, che ottenne nel 1907. Nei tre anni successivi prese anche il diploma della scuola di magistero e l'abilitazione per la docenza in scienze naturali per le scuole normali. Vinse anche due concorsi per borse di studio di perfezionamento che le permisero di continuare l'attività di ricerca. Nel 1911 le fu assegnato il posto da assistente di Botanica. Ottenne una cattedra di scienze presso la scuola normale di Foggia, ma chiese ed ebbe il distaccamento presso il Laboratorio crittogamico dell'Università di Pavia.

Nel 1915 fu la prima italiana a conquistare la libera docenza in Botanica. Il suo primo corso universitario fu "La tecnica microscopica applicata allo studio delle piante medicinali e industriali": poca teoria, molta tecnica. Dopo la Prima guerra mondiale, per la sua opera come crocerossina, fu anche insignita della medaglia d'argento della Croce rossa e di quella di bronzo del Ministero dell'Interno.

Però, anche una donna così estranea agli stretti binari delle esistenze femminili, doveva fare i conti con la realtà: il matrimonio, in un Paese che ancora imponeva alle donne la tutela maritale, ovvero l'impossibilità di gestire in proprio interessi e affari, pareva una scelta quasi inevitabile. Eva aveva 34 anni e, dopo la morte del maestro Briosi e il trasferimento del fratello Efisio alla cattedra di Chimica farmaceutica di Cagliari, si era ritrovata sola. Il futuro non si prospettava roseo.

Nel 1920 sposò il ligure Mario Calvino, già conosciuto alcuni anni prima, che dirigeva la Stazione agronomica di Santiago de Las Vegas, a Cuba. Lo aveva incontrato di nuovo nell'aprile di quell'anno. Mario Calvino (1875-1951) era venuto a trovarla durante una sua breve visita in Italia. Mario era un uomo taciturno ma con tanti impegni scientifici, educativi e sociali, un "apostolo agricolo sociale", come lei lo definì nella sua biografia. Era nato a Sanremo ma, dal 1908, si era trasferito in Messico e poi a Cuba dove, da tre anni, dirigeva la Stazione agronomica. Calvino era alla ricerca di un valido collaboratore di genetica vegetale. Eva, con il suo solito coraggio, accettò sia il matrimonio, sia l'incarico e lo seguì sull'isola caraibica. Lì, il 15 ottobre 1923, nacque il primo figlio, Italo Giovanni.

Eva intanto continuava a collaborare con il marito, che sperimentava nuovi modi di coltivare la canna da zucchero. Nel frattempo era stato nominato capo del dipartimento di Botanica della Stazione sperimentale agronomica di Santiago de la Vegas, capo del dipartimento di Botanica della Stazione sperimentale agricola Chaparra di S. Manuel e docente di Botanica della stessa Scuola agraria Chaparra.

Nel 1925, Eva e Mario tornarono in Italia, a Sanremo: lui era stato scelto come direttore della nuova Stazione sperimentale di floricoltura Orazio Raimondo. Due anni dopo Eva vinse il concorso per la cattedra di Botanica sia all'Università di Catania sia a quella di Cagliari. Certo, non si parlava nemmeno di equipararla a un uomo, nonostante i suoi meriti scientifici: fu nominata "professore non stabile". E poi dicono che la precarietà sia un male dei nostri tempi. Scelse l'Università di Cagliari, accettando di fare la pendolare tra la famiglia, che viveva a Sanremo, e le aule universitarie. Ne approfittò anche per ripristinare l'Orto botanico di Cagliari, che era stato abbandonato. Si trattò di un'operazione di grande valore perché il parco conteneva molte specie autoctone, importanti e rare, dell'isola, che erano andate distrutte negli anni della guerra. Eva riportò nell'Orto le palme, i sempreverdi Podocarpus e la cicade sudafricana Encephalartos altensteinii, il Ficus magnolioides o Fico della Baia di Moreton, la messicana Yucca elephantipes, la marocchina Argania spinosa, come pure i pini, gli eucalipti e i lecci, che nell'antichità coprivano la Sardegna.

Nello stesso tempo, insieme, Eva e Mario, resero l'Istituto sperimentale per la floricoltura di Sanremo uno dei più importanti d'Italia e tra i primi in Europa.

Eva passava lunghe ore sui libri, tra gli erbari e il microscopio, nella stanza più isolata della villa ligure. «Ho di lei un'immagine ricorrente nella mia memoria, la ricordo sempre al suo tavolo, intenta a guardare nell'oculare del microscopio», raccontava Libereso Guglielmi , giardiniere e allievo prediletto di Mario Calvino, nato a Bordighera nel 1925 e quindi coetaneo dei figli. Repubblicana e anticlericale come il marito, proprio come lui Eva non amava la vita sociale. Eppure i colleghi li apprezzavano molto. Ma loro preferivano rintanarsi alla Meridiana, una villa liberty immersa in un parco magnifico, allora a confine tra città e campagna, che fu anch'essa, di fatto, "destinata" alla stazione.

Eva era una donna minuta in barba alla forza che sapeva sprigionare. Ancora Libereso Guglielmi la descriveva così: «una piccolina così, pensa che era figlia di un capitano dei carabinieri sardo (...), con quei bei grandi rotoli di capelli, sai... Una volta me la sono trovata davanti con tutti i capelli sciolti e mi sono spaventato: sembrava un fantasma!». Era anche una donna inflessibile: l'ordine che regnava in casa si doveva a lei. Non che Mario fosse meno severo: era «molto austero e burbero ma la sua severità era più rumorosa, collerica, intermittente». Di fatto sembrava, con la sua barba bianca, un Darwin arrabbiato. Gli piaceva accarezzare i tronchi degli alberi e nel frattempo dispensare preziosi consigli di botanica. A tanto amore per le piante ne corrispondeva evidentemente uno meno vivido per gli animali: la caccia era una sua grande passione.

Nato il secondo figlio, Floriano, Eva decise di rientrare a Sanremo e abbandonare Cagliari. Si dedicò completamente alla stazione diretta dal marito, come assistente. Alla morte di lui, nel 1951, ne divenne direttrice. Vi lavorò per altri otto anni.

Durante il fascismo, sfidando le leggi razziali, Eva aprì la sua casa agli ebrei e per questo finì anche in carcere. Nel 1944 i Calvino furono presi in ostaggio per alcuni mesi dalle SS tedesche. L'aver dato rifugio ad alcuni partigiani costò a Mario pure due finte esecuzioni sotto gli occhi della moglie.

Un'eredità morale così importante non poteva che consegnarsi integra ai figli. Però Italo avrebbe minimizzato e ironizzato: «Sono figlio di scienziati: mio padre era un agronomo, mia madre una botanica; entrambi professori universitari. Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano un onore; un mio zio materno era un chimico, professore universitario, sposato a una chimica (anzi ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche); mio fratello è un geologo, professore universitario. Io sono la pecora nera, l'unico letterato della famiglia».


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