Autore Brian Panowich
Titolo Bull Mountain
EdizioneNN, Milano, 2017, La Stagione , pag. 304, cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-99253-53-0
OriginaleBull Mountain [2015]
TraduttoreNescio Nomen
LettoreLuca Vita, 2017
Classe narrativa statunitense , thriller












 

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Indice


  9  Capitolo primo     Western Ridge, Johnson's Gap

 21  Capitolo secondo   Clayton Burroughs

 43  Capitolo terzo     Clayton Burroughs

 53  Capitolo quarto    Kate Burroughs

 61  Capitolo quinto    Halford e Clayton Burroughs

 69  Capitolo sesto     Simon Holly

 75  Capitolo settimo   Cooper Burroughs

 85  Capitolo ottavo    Gareth Burroughs

 89  Capitolo nono      Annette Henson Burroughs

 95  Capitolo decimo    Gareth Burroughs

     [...]


 

 

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Pagina 9

CAPITOLO PRIMO



Western Ridge, Johnson's Gap
Bull Mountain, Georgia
1949



1

«Famiglia» disse il vecchio tra sé e sé.

La parola aleggiò nell'aria in uno sbuffo di respiro gelido prima di svanire nella nebbia di inizio mattina. Riley Burroughs adoperava quel termine come un mastro falegname ricorre a un martello. Talvolta con colpetti leggeri per insinuare il proprio modo di pensare nella testa dei suoi, oppure con la delicatezza di un maglio da cinque chili.

Il vecchio stava su una sedia a dondolo di legno che oscillava avanti e indietro con un lento cigolio sulle assi di pino della veranda, malconce e imbullonate insieme. La baita era uno dei tanti capanni da caccia edificati nel corso degli anni dalla famiglia Burroughs in ogni angolo di Bull Mountain. Suo nonno, Johnson Burroughs, aveva costruito proprio quello. Rye s'immaginò l'anziano capoclan seduto in quel punto preciso mezzo secolo prima e si domandò se avesse mai sentito la testa così pesante. Era sicuro di sì.

Tirò fuori dal cappotto l'astuccio con il tabacco e si rollò una sigaretta sul grembo. Da quando era ragazzino veniva sempre laggiù per assistere al risveglio di Johnson's Gap. Sul presto il cielo era un livido viola. Il coro caotico di rane e grilli stava cedendo il posto al canto degli uccelli e al brulichio degli insetti: un cambio di guardia nel bosco. In mattine tanto fredde, la nebbia che ammantava i viticci di kudzu sembrava una coperta di cotone, talmente fitta che non riuscivi a vederti i piedi mentre l'attraversavi. Rye sorrideva sempre al pensiero di poter guardare dall'alto le nuvole che la gente comune contemplava dal basso. Probabilmente a Dio succedeva lo stesso.

Alle sue spalle il sole aveva già cominciato a sorgere, ma quella gola era l'ultima a esserne sfiorata. L'ombra del Western Ridge abbassava la temperatura di altri dieci gradi rispetto al resto della montagna. Solo nel pomeriggio avanzato il calore avrebbe sciolto la brina che splendeva sugli alberi. La spessa tettoia di rami di quercia e pino silvestre veniva penetrata solo da sporadiche e sottili lame di luce. Da bambino credeva che i raggi brillanti e tiepidi sulla pelle fossero le dita del Signore, scese dal cielo a benedire quel luogo. Ma da adulto non ci credeva più. Forse solo i marmocchi e le donnette potevano prestare fede a tali sciocche superstizioni ma, secondo Riley, se un dio da catechismo aveva il compito di proteggere quella montagna, allora se ne occupava di rado.

Il vecchio restò seduto a fumare.


2.

Il rumore di pneumatici sulla ghiaia gli guastò la mattinata. Rye spense la sigaretta mentre il malandato Ford pick-up del fratello minore si fermava sul vialetto. Cooper Burroughs scese afferrando il fucile dal supporto sul lunotto. Cooper era il suo fratellastro, nato quasi sedici anni dopo di lui, ma non si sarebbe mai detto osservandoli fianco a fianco. I due condividevano i lineamenti squadrati del padre in comune, Thomas Burroughs, ma avevano le guance segnate dal peso della vita su Bull Mountain: sembravano molto più vecchi di quanto non fossero. Cooper si calcò il cappello sulla chioma rossa e arruffata e prese lo zaino dal sedile anteriore. Gareth, il figlio di nove anni, spuntò dal lato del passeggero e fece il giro del pick-up per unirsi al padre. Rye scosse il capo emettendo l'ultimo sbuffo di fumo ghiacciato.

È tipico di Cooper trascinarsi dietro qualcuno se gli animi rischiano di scaldarsi. Sa che non gli darei una strigliata davanti a suo figlio. Peccato che non sia mai così sveglio quando serve davvero.

Rye scese dalla veranda e spalancò le braccia.

«Buongiorno, fratello... e nipote».

Cooper non gli rispose subito e non si preoccupò di nascondere il disprezzo. Arricciò le labbra e sputò ai piedi di Rye uno schizzo viscido di saliva mista a tabacco.

«Lascia perdere, Rye, tanto arriveremo presto al dunque. Devo mangiare qualcosa, non posso sopportare le tue stronzate a stomaco vuoto». Si pulì la barba dai rimasugli di saliva.

Rye piantò i tacchi nella ghiaia e strinse i pugni. Avrebbe sistemato la faccenda e al diavolo il ragazzino. Gareth si piazzò tra i due nel tentativo di mitigare la tensione.

«Ciao, zio».

Dopo un paio di occhiatacce, Rye distolse lo sguardo dal fratello e si accovacciò per salutare il nipote. «Ciao, giovanotto». Non appena fece per abbracciarlo, Cooper spinse il figlio in avanti, su per i gradini della baita. Rye si raddrizzò e infilò le mani nelle tasche del cappotto. Tornò a scrutare solenne le querce dalle foglie appuntite e le macchie di aceri, ripensando al nonno. Se lo vide di fronte a osservare gli alberi, proprio come lui. A sentire lo stesso dolore nelle ossa. La mattinata si annunciava lunga.

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Pagina 21

CAPITOLO SECONDO



Clayton Burroughs
Waymore Valley, Georgia
2015



1.

Non va a finire sempre così? Trascorri l'intera settimana, e buona parte del weekend, chiuso in ufficio a riordinare scartoffie oppure a spuntare la lista delle faccende di casa, giusto per goderti qualche ora di pace la domenica mattina, e una telefonata manda tutto in vacca.

Sarebbe stato meglio non rispondere.

Clayton parcheggiò il Ford Bronco nel posto con la scritta RISERVATO ALLO SCERIFFO DI MCFALLS COUNTY. Scese e si bloccò dove ci sarebbe dovuta essere l'auto del suo vice (che naturalmente non c'era) e chinò rassegnato la testa. Il sole stava facendo capolino da dietro il motel e l'ufficio postale sul lato opposto della strada. Gli sarebbe piaciuto abbronzarsi in un altro modo, magari immerso fino alla vita nel torrente. Con uno sbuffo lungo e perplesso, si tirò su il cinturone penzolante ed entrò nella stazione di polizia.

«Buongiorno, sceriffo».

«Dubito che sia buono, Cricket».

Cricket, la sua segretaria, era uno scricciolo sui vent'anni, bella di una bellezza nascosta. Se la luce la colpiva nella maniera giusta meritava una seconda occhiata, ma in genere, con i capelli castano chiaro raccolti in una severa coda di cavallo da bibliotecaria, aveva l'abilità camaleontica di confondersi con la tappezzeria. Si spinse sul naso gli occhiali spessi dalla montatura in plastica e finì qualunque cosa stesse facendo al computer.

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Pagina 34

«D'accordo. Come le ho detto, non è a me che deve dare una mano, ma a se stesso, e probabilmente questo sarebbe vantaggioso per entrambi».

Lo sceriffo si grattò la barba in silenzio.

«Forse, se comincio dall'inizio, il mio discorso le sarà più chiaro».

«Ottima idea».

«Sono nell'ATF da due anni, durante i quali mi sono concentrato su un unico caso».

«Quello che riguarda Halford Burroughs, ci scommetto».

«No, mi sono accorto del ruolo di suo fratello solo di recente. Per qualche tempo mi sono dedicato a un'organizzazione di Jacksonville, Florida, che tra le altre cose rifornisce di armi Halford e i suoi soci. Un mucchio di armi. Negli ultimi anni questi criminali hanno anche procurato a suo fratello la materia prima per produrre metanfetamina».

Clayton sentì l'emicrania alleviarsi. Non di molto, ma di un po'.

«Il loro capo è un gentiluomo di nome Wilcombe. Ne ha mai sentito parlare?».

«Nossignore».

«Per il trasporto della merce viene usata una banda di biker da strapazzo, i Jacksonville Jackals. Sono pezzi di merda, astuti e leali, ma pezzi di merda restano. I membri dell'organizzazione sono in affari con la sua famiglia da secoli, addirittura da quando suo padre vendeva erba all'alba degli anni Settanta. Li ha presente?».

«Nossignore». La risposta di Clayton suonò meno efficace del solito.

«Si consideri fortunato. Sono brutte persone, coinvolte in parecchie faccende losche. Droga, riciclaggio di denaro sporco, smercio illegale di armi eccetera. Di recente siamo venuti a sapere che sono implicati anche nella tratta di esseri umani, grazie a cui sono diventati più ricchi e potenti. Halford li conosce bene. È al corrente delle operazioni in atto e loro si fidano ciecamente di lui». La tirata di Holly acquistò una sua logica prima dell'inevitabile conclusione.

«Vuole servirsi di mio fratello». Clayton trattenne una risata. «Vuole che Hal tradisca i tizi della Florida per consentirle di incastrare quel Wilcombe».

L'agente annuì.

«In cambio di che cosa?».

«Libertà condizionata».

«A patto di...».

«Rinunciare al commercio di speed».

«Halford non accetterà. Non è il classico spacciatore. Ha un contorto senso dell'onore. Sarebbe disposto a morire piuttosto che fregare chiunque ritenga parte della famiglia. Compresi quei motociclisti, ci metto la mano sul fuoco, soprattutto se come dice lei sono pappa e ciccia con la mia famiglia da anni. Mio fratello non farebbe mai la spia. Mai».

«Potremmo lasciare da parte il suo distorto senso dell'onore e sfruttare qualche altro punto debole».

«Cioè?».

«Il denaro».

«Mio fratello se ne sbatte dei soldi».

«Non sia sciocco, sceriffo. Non c'è niente di più fondamentale dei soldi. Sono l'unica cosa che conta».

Clayton scosse la testa. «No, non è così, ecco perché voi continuerete a perdere. Non capite come funziona quassù. Il denaro non è il fine ultimo per Hal. Non lo è mai stato. È solo una conseguenza dello stile di vita al quale è stato abituato da nostro padre». Clayton si allungò sulla poltrona, sollevò le braccia e intrecciò le dita dietro la nuca. Si stiracchiò la schiena meditando sulla strada da prendere con Holly. In genere i federali se ne fregavano delle sue spiegazioni. Restavano seduti con gli occhiali scuri calati sulla faccia fingendo di ascoltarlo, impazienti di sparare la cazzata successiva. Clayton riabbassò le braccia e spolverò con l'indice una piccola foto incorniciata sulla scrivania. Era stata scattata durante la luna di miele con Kate a Tybee Island. La loro prima e unica volta al mare. Lui detestava la vita da spiaggia, ma quel giorno era stato speciale. Con un sorriso, decise di imboccare la strada più lunga. «È sposato, agente?».

«Lo ero, ma non ha funzionato».

«Ha una fidanzata?».

«Sì, per il momento». Anche Holly si allungò sulla poltrona, proseguendo nella conversazione spicciola. «Finché dura».

«Una fidanzata. Bene, bene». Lo sceriffo si sporse in avanti per afferrare la fotografia. «Non fate mai i bagagli e ve ne andate dalla città per un paio di giorni? O magari succedeva con la sua ex moglie? Giusto per sottrarsi alla routine, scovare un angolino sperduto dove rilassarsi e godersela in coppia?». Più che a Holly, Clayton si stava rivolgendo all'immagine di lui e Kate.

«Non quanto ci piacerebbe, però sì, cerco di tagliare la corda ogni tanto».

«D'accordo. Perfetto. Siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Adesso provi a ricordare la sensazione dell'ultima volta che si è concesso un periodo di ferie, ha caricato le valigie in auto, magari insieme a una cassa di birre e a una macchina fotografica, ed è partito con la fidanzata per un posticino appartato in montagna, oppure vicino a uno stagno o a un laghetto. Mi segue?».

Il federale annuì, in attesa che si arrivasse al nocciolo della questione.

«Queste pause rendono sopportabili il peso e la pressione delle responsabilità che gravano per il resto del tempo sulla maggior parte del genere umano, non le pare?».

«Certo. Di tanto in tanto, tutti abbiamo bisogno di una vacanza. Ma che cosa...».

«Un attimo di pazienza. Ora si immagini la stessa scena, il grazioso quadretto che si è costruito in mente, come perno della sua esistenza quotidiana. Come il fulcro di tutto, lavoro, famiglia, relazioni, dispiaceri, decisioni e via dicendo. È un atteggiamento mentale totalmente opposto. Per la gente di qui non si tratta di una pausa dalla vita, ma della vita stessa, e il bisogno di difenderla, di tenersela stretta, può essere feroce».

Holly fece per intervenire, ma Clayton continuò imperterrito.

«Quassù esiste una sottile simbiosi tra la terra e chi la considera la propria casa, un rapporto che persone come lei non sembrano riuscire a comprendere, malgrado passino in rassegna centinaia di fascicoli o si addestrino per ogni evenienza. Non è colpa sua; non è di qui, punto e basta. La faccenda va ben al di là di onore e orgoglio. Lei può sentirsi orgoglioso di una moto rossa nuova di zecca o una promozione. Qui è diverso. È qualcosa di viscerale. Qualcosa che gli abitanti del posto non si sono guadagnati né hanno dovuto lottare per ottenere. È un diritto di nascita e sono pronti a combattere fino alla morte se qualcuno minaccia di sottrarglielo. È parte integrante di ciò che sono, di ciò che siamo». Clayton si pulì il dito impolverato sui calzoni, distolse lo sguardo dalla foto e lo riportò su Holly.

«Il punto è che i soldi non hanno la minima importanza. Non sono io l'ingenuo, le cose stanno così. Non vogliono sentirsi dire che cosa possono o non possono fare sulla propria terra. O sulla propria montagna. Nessuno ruberà quello che Dio ha donato loro. E mi creda, Hal pensa che Bull Mountain è sua. Darebbe fuoco a tutto il suo denaro piuttosto che rinunciare alla sua casa o deludere la sua gente. Il vostro piano è destinato a fallire. Mio fratello non tradirebbe mai la famiglia».

«Lei compreso?» chiese il federale.

Clayton non aveva una risposta a quella domanda.

«Mettiamola in un altro modo» proseguì Holly. «Il governo degli Stati Uniti sta organizzando un'unità operativa di oltre cento elementi di varie agenzie, dall'FBI all'ATF e alla DEA, fino alla polizia statale. È addirittura coinvolto il Dipartimento della sicurezza interna. Sono persone preparate, addestrate, motivate, capaci di mettere a ferro e fuoco l'intera Bull Mountain. Non è una minaccia, ma un dato di fatto. Conosciamo l'ubicazione dei sedici laboratori clandestini e le vie per il trasporto della droga verso Alabama, Carolina e Tennessee. Siamo pronti e stiamo tenendo lei, sceriffo, all'oscuro di tutto. Si rischia una carneficina. Le regole del gioco sono cambiate. Le disposizioni successive all'11 settembre ci permettono di agire senza rendere conto a nessuno. Questa operazione è in piedi da un po', all'incirca da quando suo fratello Buckley è stato ucciso, rivelando il legame con Wilcombe. Le autorità sono così impazienti di mettere le mani sul reddito generato da Bull Mountain che preferirebbero incendiare la montagna intera piuttosto che farsi fregare un altro giorno da Hal».

«E perché non lo fanno?» domandò Clayton.

«Perché ci sono di mezzo io». Holly risfoderò il sorriso da squalo. Lasciò che le parole aleggiassero nell'aria prima di gettare l'esca. «Ho un piano migliore. Per questo sono qui».

«Continui» lo spronò lo sceriffo.

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Pagina 102

4.

Gareth e Val lasciarono che gli occhi si abituassero alla luce elettrica bluastra e passarono in rassegna ambiente e avventori. Sulla sinistra, due biker giocavano a biliardo sotto una lampada della Pabst Blue Ribbon e un barista smilzo stava dietro il bancone. Gli enormi baffi alla Wyatt Earp lo facevano assomigliare a un tricheco. Tutti e tre sfoggiavano toppe dei Jacksonville Jackals. Uno dei giocatori aveva l'aria di sapere il fatto suo, alto e con masse di muscoli strette in un giubbotto di jeans. Invece l'amico sembrava non avere mai saltato un pasto nel corso dei suoi cinquant'anni. Era paffuto e molliccio, con una lunga e stopposa coda di cavallo grigia. I conti tornavano. Tre uomini nel locale e tre Harley posteggiate fuori. Naturalmente senza considerare che cosa potesse nascondersi sul retro, nel bagno a destra o dietro la porta alle spalle del bancone. Forse c'erano una cucina o un magazzino, perfetti per un'imboscata o come via di fuga. Ma, se fosse andata storta, Gareth capì subito che avrebbe avuto solo il cinquanta per cento delle probabilità di cavarsela. Si rilassò un poco, ma non troppo, anche se a casa aveva rischiato di peggio.

Lui e Val si fermarono sulla soglia con gli sguardi dei tre puntati addosso.

Comprensibile. Gareth non aveva un aspetto minaccioso, non con il cappello da cowboy di paglia e il giubbotto di tela. In fondo era un tizio qualunque con i capelli rossi e la carnagione pallida, sui settanta chili al massimo. Però Big Val era un'altra storia. Ogni grammo dei suoi centotrenta chili parlava di un ragazzo dai muscoli sodi cresciuto in campagna. Era anche nero come una notte senza stelle. Sembrava una montagna di carbone del Kentucky in camicia di flanella.

I due attraversarono il locale con calma e Gareth si sedette al bancone. Val restò dietro di lui con le braccia incrociate, scambiando occhiatacce con i Due Marmittoni al tavolo da biliardo. A giudicare dal rigonfiamento sotto i giubbotti, avevano almeno una pistola ciascuno.

«Cosa ti do? Una birra?» chiese il tricheco a Gareth.

«Due. La marca non importa».

«Una a testa?».

Gareth lo guardò inespressivo. «C'è qualche problema?».

«No, non con te. Ti stavamo aspettando. Però il tuo schiavetto dovrà aspettare fuori».

«Il mio schiavetto? Oh, ti riferisci a Val». Gareth lo indicò con un cenno del pollice. «Albert Valentine. Gli hanno dato il nome del padre. Alcuni lo chiamano Albert, ma non tutti. Per la maggior parte della gente, lui è Val. Il diminutivo di Valentine».

«Non me ne frega un cazzo del nome dello schiavetto».

«Me ne sono accorto. In caso contrario ti saresti reso conto che è davvero maleducato chiamarlo così. Nessuno si è mai azzardato a farlo. Tu sì, e già due volte. Meglio che non ce ne sia una terza».

Tuesday's gone rimbombò dal jukebox, riempiendo l'attimo di silenzio durante cui il barista studiò Gareth.

Well, when this train ends, I'll try again, but I'm leaving my woman at home...

Gareth esaminò la porta dietro il bancone, alla ricerca di eventuali ombre o movimenti. Non notò nulla. Nonostante fossero entrati solo da pochi minuti, erano partiti con il piede sbagliato. Gli sudavano i palmi. Non gli restava che comportarsi da duro per tenere in riga quei tre, ma senza esagerare, per non doversene pentire. «Mi dai queste due birre o devo prendermele da solo?» domandò.

Il barista strinse gli occhi e si curvò in avanti appoggiando i gomiti sul bancone. «Come ti dicevo, se sei il tizio per cui mi hanno telefonato, allora ti stavo aspettando. Sarei ben felice di spillarti una birra, ma questo è il mio locale e ho il diritto di servire chi cazzo mi pare. Quindi, anche se sei culo e camicia con il capo, di' al tuo scimmione ammaestrato di aspettare fuori oppure tornatevene entrambi nella palude del Mississippi da dove siete spuntati».

«Siamo della Georgia».

«Ascolta, me ne sbatto da dove venite. Le regole sono queste».

Big Val, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, come se la conversazione alle sue spalle non lo riguardasse, finalmente si girò e sedette sullo sgabello accanto a Gareth. Sempre in silenzio, allungò la mano e tirò fuori dalla tasca della camicia di flanella un rotolo di contanti grande quanto un pugno. Sfilò un biglietto da cento e lo posò sul bancone. Osservò il barista mentre lo fissava, e vide la sua espressione passare da razzista arrabbiato a razzista curioso.

«Signore» disse infilando in tasca le banconote «capisco, questo è il tuo locale e hai il diritto di gestirlo come ti pare».

«Esatto» commentò il barista, senza smettere di guardare il bottino.

«È evidente che non ti piacciono i neri e anche questo è un tuo diritto. Però chiamarmi scimmione non è stato carino. Non sono una scimmia, ma un essere umano. In tutta onestà, hai un po' ferito i miei sentimenti».

Il barista non rispose ma spostò lo sguardo dalla banconota a Val.

«Me ne farò una ragione. Sono una persona adulta. Niente danno, niente affanno. Ma le cose stanno così, il mio amico deve incontrare qualcuno, il tuo capo, e questo è il posto scelto per l'appuntamento. Quindi, ci troviamo in un vicolo cieco».

«Non è un problema mio».

«No, non lo è. Però il mio amico ti ha solo chiesto due birre, una ciascuno, per ingannare l'attesa. Non siamo in cerca di guai. Ci bastano le birre. Niente di più».

Il tricheco tornò ad abbassare lo sguardo sul pezzo da cento.

«È ancora troppo presto. Non posso cambiartelo».

«Tieni il resto».

Il barista sospirò pesantemente sotto i baffi giganteschi. «E va bene. Una birra ciascuno, e se la finirete prima dell'arrivo di Oscar, tu risalirai sul pick-up».

«Affare fatto».

Il tricheco afferrò la banconota e la infilò nella tasca della camicia. Prese due boccali ghiacciati dal frigorifero e li osservò per un attimo, come se stesse riflettendo. Ne ripose uno e tirò fuori da sotto il bancone un grande bicchiere rosso di plastica. Lo liberò dal cellophane, guardò Val con una smorfia soddisfatta e iniziò a spillare. Poi piazzò le birre davanti ai due: vetro per Gareth e plastica per Val. «Non ha senso sporcarne uno pulito» disse con un sorriso. Val fissò il bicchiere rosso e la mascella gli si irrigidì per la tensione. Gareth se ne accorse e gli appoggiò una mano sulla spalla per calmarlo.

«Grazie» disse. Il barista sorrise ancora e si allontanò. Gareth bevve un sorso e si ripulì la barba dalla schiuma. Val lo imitò dopo un istante di esitazione. Uno dei giocatori di biliardo, mister Muscolo, si avvicinò al fondo del bancone.

«Tutto bene, Pinky?».

«Tutto a posto, Rodd».

«È lui?» chiese Rodd, indicando Gareth con un cenno della testa.

«Sì, esatto».

Mister Muscolo tamburellò le dita sul bancone e tornò al tavolo da biliardo.

«Pinky?» bisbigliò Gareth a Val. Il nero alzò le spalle. Gareth riprese a bere lentamente, ma Val finì in due sorsate. Gareth reclinò il capo con un sospiro.

Il barista prese il bicchiere e lo gettò nella spazzatura. «E adesso togli il disturbo». Il nero fissò il punto dove c'era stata la birra, la faccia come di pietra.

Gareth si levò altra schiuma dalla barba e pescò un tovagliolino da un contenitore di plastica. «Sicuro, Pinky» rispose, sollevando una mano per distogliere l'attenzione del barista da Val. «Ma prima posso chiederti una cosa?».

«Basta che lui sparisca».

«Dimmi un po', che accidenti è questo baccano infernale?».

Pinky parve confuso. «Intendi la musica?».

«Questa è musica?».

Il barista si concentrò ad ascoltare, quasi temesse di sbagliare risposta. Ronnie Van Zant stava implorando di concedergli Three steps towards the door.

«Sono i Lynyrd Skynyrd, l'orgoglio di Jacksonville» ribatté indignato Pinky. «Il miglior gruppo al mondo di southern rock».

Gareth soffocò una risata e diede una gomitata a Val, che continuava a osservare il bancone. «Questa non è musica del sud. Dove sono banjo e violino? Sembra un branco di ritardati che cerca di chiavarsi un buco della serratura».

«Forse non è per te, Gareth» disse Val senza alzare lo sguardo. «Forse piace soltanto ai froci rottinculo di nome Pinky».

«E che cazzo!» esclamò il barista, rosso in faccia come se l'avessero schiaffeggiato. «Prova a ripeterlo, schiavetto».

«E con questa sono tre» commentò Gareth.

Pinky estrasse una mazza da baseball di legno da sotto il bancone, ma per un uomo delle sue dimensioni Val reagì con la velocità di un cobra. Afferrò al volo la mazza, gliela tolse di mano e gli mollò una testata in faccia. Lo schiocco del naso di Pinky che si rompeva strappò a Gareth una smorfia. Il barista lasciò andare la Louisville Slugger e barcollò all'indietro su una fila di bottiglie di liquore, che caddero e si infransero a terra. Gareth si girò di scatto sullo sgabello, con la pistola puntata sui biker, ma i due avevano già sfoderato le loro. «Merda» mormorò.

Pinky vacillò dietro il bancone, premendosi il naso sanguinante, provò a parlare ma gli uscì solo un grugnito sordo.

«Non ti piacciono i negri» gli disse Val. «Soprattutto se ti spaccano il naso. Adesso hai un valido motivo per odiarci». Si voltò e vide i due con le armi spianate. Stringeva ancora la mazza.

«Abbassa la pistola» intimò Rodd, quello più massiccio.

«Scordatelo» rispose Gareth. «Il tuo amico se l'è cercata. Mettete giù le armi e parliamone».

«Mi dispiace» gli bisbigliò Val. Lui gli rivolse un'occhiata tagliente senza aprire bocca.

«Siamo due contro uno» proseguì Rodd. «Dammi retta o ti faccio saltare la testa».

«No, scommetto che riuscirò a beccare almeno uno di voi» rispose Gareth. «Ci sono abituato. Sicuro di potermi colpire da laggiù? Mi sembri indeciso. Invece io non lo sono».

«Non sarà necessario» disse Pinky alle loro spalle caricando un fucile. Val emise un lungo respiro e Gareth fu obbligato ad arrendersi e abbassare la pistola. In quel preciso istante la porta d'ingresso si spalancò e altri due uomini si unirono alla festa.

«Che diavolo sta succedendo?» chiese Oscar Wilcombe.


5.

Wilcombe era un ometto magro e basso, con radi capelli color paglia. Indossava un completo nero, occhiali dalla montatura di metallo e una valigetta con i bordi rinforzati in acciaio. Il tizio dietro di lui era l'esatto opposto. Una quercia d'uomo, ben oltre il metro e ottanta, con la pelata tirata a lucido e gli occhi grigio-azzurri. Indossava un paio di jeans sbiaditi e un giubbotto senza maniche, dello stesso tessuto. Sulle braccia, coperte dalla spalla al polso da un groviglio di tatuaggi probabilmente completato nel giro di una vita, risaltavano vene e muscoli. Sulla schiena del giubbotto, i colori dei Jackals, e una toppa con la scritta PRESIDENTE sulla tasca davanti.

«Jackals, abbassate subito le armi» comandò Wilcombe.

Pinky si pulì contro la spalla il sangue che gli tingeva i baffi enormi, ma non mosse il fucile. «Oscar, questi figli di...».

«Ho detto di abbassare le armi, Pinkerton».

Pinky obbedì di malavoglia. Gli altri biker fissarono il gigante dietro Wilcombe. Lui annuì e i due seguirono l'esempio del barista. Gareth si rese conto che il tizio doveva essere il numero uno della truppa. Gli ordini arrivavano da Oscar Wilcombe, però gli uomini avevano bisogno dell'approvazione del gigante prima di metterli in atto. Buono a sapersi.

«Immagino che lei sia il signor Burroughs» disse Wilcombe.

«Esatto» rispose Gareth.

L'ometto avanzò di un paio di metri fino al centro della stanza. «Sarebbe meglio riporre tutte le armi».

Gareth abbassò lo sguardo sulla Colt che stringeva in pugno. «Naturalmente» disse, e la rimise nei pantaloni. Big Val gettò la mazza sul pavimento mentre lui e il gigante pelato si studiavano a vicenda. Sembravano quasi gemelli. Un dettaglio che aumentò il disagio di Gareth. Si era fatto accompagnare da Val a scopo intimidatorio, ma il presidente neutralizzava il vantaggio sperato.

«Non avevamo fissato l'appuntamento per le nove in punto?» domandò Wilcombe.

«Sì. Siamo arrivati in anticipo» chiarì Gareth.

Wilcombe appoggiò la valigetta sul tavolo e si presentò, tendendo la mano a Gareth e poi a Val. Gliela strinsero entrambi, anche se Val non staccò gli occhi dal presidente.

«Sono Oscar Wilcombe e lui è il mio socio, Bracken Leek». Il gigante pelato non strinse la mano a nessuno, ma si girò e fece scattare la serratura della porta.

«Piacere di conoscervi» disse Gareth.

«Che cosa ti è capitato, Pinky?» chiese Bracken.

Fu Val a rispondere. «Colpa della sua linguaccia».

«Vaffanculo, mangiabanane» ringhiò il barista attraverso lo strofinaccio zuppo di sangue premuto sulla faccia.

Val guardò Bracken Leek. «Visto?».

«Gli hai dato una lezione? E andata così?». Leek si spostò verso il fondo del bancone per verificare l'entità della frattura. «Hai il vizio di entrare in casa d'altri e pestarli quasi a morte?».

«Sì, se sono dei razzisti di merda» rispose Val.

«Perché non provi con me?». Bracken gli si accostò, ma Gareth piazzò una mano tra i due. «Fermi». Si girò in direzione di Wilcombe. «C'è qualche problema?».

«Signor Burroughs, deve spiegare al mio socio che cos'è successo qui in modo da lasciarci la questione alle spalle».

«D'accordo. Il suo uomo, Pinky, non gradiva la presenza del mio amico nel bar. L'ha chiamato scimmione. L'ha chiamato schiavetto. Tre volte, se ricordo bene. Val detesta queste stronzate. Io anche. Ho dato a Pinky la possibilità di lasciar perdere, ma lui ha preferito trasformarsi in Ty Cobb, cercando di spaccare la testa del mio amico con quella mazza da baseball laggiù». Gareth indicò la Louisville Slugger a terra. «Il mio amico se l'è presa a male».

Bracken e Val erano abbastanza vicini da baciarsi.

«In tal caso, signor Burroughs, nessun problema. Per favore, Rodd, tu e Jeremy aiutate Pinkerton a riaggiustarsi il naso. Pulitelo e poi rimettete in ordine dietro il bancone». I due aspettarono di nuovo un cenno di assenso da Bracken, che si staccò da Val, raccolse la mazza e la lanciò a Pinky. Poi i tre biker sparirono attraverso la porta sul retro. Bracken si versò un whiskey.

«La prego di accettare le mie scuse, signor Burroughs. Se avessi saputo che aveva intenzione di arrivare in compagnia di un gentiluomo di colore, mi sarei premurato di avvisarla».

«E invece, visto che siamo della Georgia, ha immaginato che ce ne andiamo tutti in giro con un cappuccio bianco in testa».

Wilcombe abbozzò un sorriso, allargò le braccia e poi fece un cenno verso il séparé alle sue spalle. «Ci accomodiamo?».

«Certo» rispose Gareth. Val tornò sullo sgabello al bancone.

L'ometto si sedette e si spinse gli occhiali sul naso. «Allora, che cosa posso fare per lei?».


6.

«Devo essere in grado di proteggere gli interessi della mia famiglia. Da quanto ho capito, lei può aiutarmi».

«Per "interessi" intende la marijuana?». Wilcombe aveva un tono pratico, quasi stesse parlando del tempo. Gareth lo scrutò. «Jimbo ha la lingua troppo lunga».

«Il signor Cartwright mi ha solo informato dei vostri affari».

«Se per affari intende oltre mille ettari della migliore erba del sud-est, forse ha afferrato la portata della nostra attività».

«In caso di bisogno, abbiamo accesso a questo tipo di prodotto direttamente in Florida». Wilcombe aveva una voce piatta. Fredda. Indifferente.

«Non sono qui per vendere, ma se lo fossi, nessuno di queste parti sarebbe in grado di competere con noi. Per il prezzo e l'assoluta mancanza di rogne. Scommetto che quaggiù i cubani si sbattono a tenere lontani i federali da merce e mezzi di trasporto. Mi sbaglio? Mi chieda come abbiamo fatto a coltivare l'erba per oltre vent'anni di fila senza la minima intromissione dei federali».

«D'accordo, abbocco. Come ve la siete cavata? Strano che gli elicotteri della DEA si siano lasciati sfuggire un appezzamento di quelle dimensioni».

«Assetto geografico» rispose Gareth con un ampio sorriso.

«Assetto geografico» ripeté Wilcombe.

«Già. Vede, mio padre ha costruito la fortuna della famiglia sulla sua abilità di far sparire qualunque cosa tra i boschi. All'epoca le distillerie dovevano funzionare giorno e notte, se volevamo produrre abbastanza alcol per entrare nel giro grosso. Non potevamo permettere che ne venisse scoperta nessuna. Nemmeno una. E ci siamo riusciti. È stato fondamentale conoscere la conformazione del terreno. Papà era un asso in questo. Abbiamo fatto fuori quegli scopacugine della Virginia. E senza nessuna conseguenza».

«Sbaglio o mille ettari sono più difficili da nascondere di una banale distilleria clandestina?».

«Giusto, ma mio padre, da quel volpone bastardo che era un tempo, aveva capito che il versante settentrionale della montagna possedeva un assetto geografico particolare. Ha disboscato la zona in modo da creare una serie di punti invisibili dall'alto. Possiamo coltivare le piantagioni tutti i giorni della settimana salutando con la manina i federali che ci volano sopra la testa. Quegli imbecilli non se ne rendono neppure conto».

Wilcombe aveva un'aria sinceramente colpita. «È uno stratagemma di cui andare fieri. Come avete spiegato la faccenda alle imprese appaltatrici? Come avete ottenuto i permessi?».

Gareth si grattò la barba adagiandosi contro lo schienale del séparé. «Imprese appaltatrici? Mai avuto bisogno. Eravamo in sei, me compreso. Accidenti, ero solo un ragazzino. Abbiamo ripulito, preparato e seminato quell'area basandoci sugli schemi tracciati da papà con matita e regolo».

«Davvero notevole, signor Burroughs».

«Già».

«E la lavorazione del prodotto?».

«Ce ne occupiamo noi con gente che conosco da una vita. Lo coltiviamo, lo facciamo asciugare, lo essicchiamo, lo raccogliamo in balle e lo impacchettiamo. Tutto per conto nostro, senza aiuti dall'esterno».

«Però eccola qui a chiedermi una mano».

«Sì, eccomi qui».

Wilcombe tornò a spingersi gli occhiali sul naso. «Non ho idea di quanto le abbia riferito il nostro comune amico, ma se lei progetta di espandersi in Florida, mi dispiace che sia arrivato fin quaggiù per sentirsi dire che non posso aiutarla».

Gareth si grattò di nuovo la barba. «Se così fosse, dispiacerebbe anche a me. Per fortuna è come le ho detto. Non sono qui per vendere, ma per comprare. Ci servono armi».

Wilcombe sorrise. «Forse allora posso esserle utile». Sollevò da terra la ventiquattrore e l'appoggiò sul tavolo. Compose la combinazione girando le rotelline con i pollici e fece scattare le chiusure. La aprì e voltò il contenuto verso Gareth per consentirgli di ispezionarlo. Dall'interno sagomato Gareth estrasse le parti smontate di un fucile da assalto AR-15. Le rigirò tra le mani e inserì il calcio con uno scatto. «Se potesse recuperarne qualcun altro, mi sarebbe davvero d'aiuto».

«Ne ho tanti quanti ne vuole. Sono cari, però».

Gareth sorrise.

«Bracken, due dita di Jameson per me e il signor Burroughs».

Il gigante pelato prese con riluttanza il whiskey irlandese dallo scaffale. Lo versò, prese i bicchieri e li portò al tavolo.

Il numero uno della truppa resta comunque un numero, pensò Gareth, spingendo via il bicchiere. «Preferisco l'Evan Williams, presidente, e non scordarti di offrirne uno anche al mio amico».

Bracken fissò Wilcombe, che fece un cenno di assenso, e tornò al bancone. Si ripresentò con un bicchiere pulito e la bottiglia di Evan.

«Serviti da solo».

«Grazie, Brack-en» rispose Gareth calcando la pronuncia. Si versò tre dita di bourbon che scolò in un sorso. Val, rimasto in silenzio fino ad allora, si girò a guardare l'amico e si schiarì la gola, abbastanza forte perché gli altri lo sentissero.

«Nessun problema, Val» lo rassicurò Gareth. Wilcombe e Bracken si scambiarono una rapida occhiata incuriosita. Gareth riempì di nuovo il bicchiere e lo svuotò, come se fosse succo di mela. Lo versò una terza volta e lo lasciò stare. Bracken si sedette accanto a Wilcombe.

«Brack-en» ripeté Gareth. «Ma che razza di nome è?». Il gigante non aprì bocca. Gareth appoggiò il fucile sulla valigetta, senza preoccuparsi di smontarlo, e fece scivolare il tutto verso Wilcombe. «Le fate voi?» gli chiese indicando l'arma.

«In effetti temo che il nostro comune amico abbia – come ha detto lei prima? la lingua troppo lunga. Le basti sapere che ne ho parecchie».

«Preferisco che i miei uomini mi tengano informato, niente di più. Quindi... le fate voi?».

«Sì».

«Non sono rubate?».

«No». Wilcombe sembrò offeso. Passò velocemente la valigetta a Bracken, che smontò il fucile e lo risistemò nell'interno di gommapiuma sagomata. Poi chiuse la ventiquattrore e l'appoggiò tra i piedi.

«Pezzi di moto» rimuginò Gareth ad alta voce. «Così è entrato in contatto con gli Hells Angels?».

Bracken si mosse a disagio sul sedile del séparé e fu sul punto di reagire, ma Wilcombe gli mise una mano sul braccio per ricordargli chi guidava la conversazione. «Signor Burroughs, sono certo che capisca meglio di tanti altri la nozione di rispetto, come dimostrato poco fa dal suo amico ai danni di Pinkerton. Ho difeso la vostra reazione perché ero convinto fosse giusta. Però adesso sta rischiando di umiliare me e la gente che considero la mia famiglia. Per lei la famiglia è importante?».

Gareth restò zitto, e in ogni caso Wilcombe non aspettò che rispondesse. «Leek e mio padre, che riposi in pace, hanno fondato questo gruppo di biker nel 1965, e da allora i Jacksonville Jackals sono parte integrante degli affari che l'hanno spinta a bussare alla nostra porta. Sono persone d'onore e meritano di essere trattati come tali. Su questo siamo sulla stessa lunghezza d'onda?».

Gareth finì il bourbon e se lo rigirò in bocca prima di deglutirlo. «E va bene. Ne voglio duecento giusto per iniziare».

«D'accordo. Venticinquemila dollari d'anticipo e la seconda metà alla consegna».

«Perfetto».

«Suppongo che li abbia con sé».

Gareth sorrise. «Sono qui vicino. Li avrò al momento opportuno».

Bracken infilò una mano nel giubbotto. Val se ne accorse, si irrigidì e si preparò al peggio. «Calma» disse il gigante pelato, limitandosi a tirare fuori un pacchetto accartocciato di Lucky Strike. Ne fece uscire una e posò il resto sul tavolo. Gareth pescò una sigaretta, attendendo invano che Bracken gliel'accendesse.

«Per questo genere di transazioni uso un magazzino poco lontano dalla statale. Il signor Cartwright sa dov'è. Mi auguro che sia venuto con lei».

«È nei paraggi» spiegò Gareth.

«Domattina incontratevi lì con il mio socio, consegnategli i contanti e i vostri problemi a casa saranno risolti».

Bracken si alzò e Wilcombe scivolò via dal séparé. Salutò Gareth e Val con un cenno del capo, si aggiustò qualche piega del completo e lasciò la valigetta sul pavimento.

«Alle otto e mezza spaccate» precisò Bracken.

«Non mancheremo».

Gareth fece un gesto a Val e i due seguirono Wilcombe alla porta.

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