Copertina
Autore Giampaolo Pansa
Titolo Romanzo di un ingenuo
EdizioneSperling & Kupfer, Milano, 2000, , pag. 355, dim. 125x195x20 mm , Isbn 978-88-8274-527-1
LettorePiergiorgio Siena, 2004
Classe narrativa italiana , storia contemporanea d'Italia
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Indice

Ringraziamenti              VII
La città crudele              1
Colera, malaria, miseria     15
Al massacro dell'Hermada     35
Il sogno di Bela Kun         51
Fare come in Russia          64
I fanti di picche            79
Storia d'amore               99
Superman con i ramponi      111
Il samba del 18 aprile      121
Le ragazze dell'alluvione   139
Rockstar a palazzo Campana  150
La frusta di Gidibì         165
Tina del Vajont             178
L'inganno del Sessantotto   190
La cartolina di Nenni       206
Piazza Fontana              219
L'enigma del Principe Nero  231
Le preghiere del Padrino    242


 

 

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Pagina 15

Colera, malaria, miseria



«LA campagna era persino più misera della città», raccontò Ernesto, «e si vendicava scagliando contro i borghesi di Casale la freccia avvelenata di una malattia che, solo a nominarla, ti faceva battere i trentadue: il colera. Quello che arrivò in Monferrato quando nascevano mio padre Giovanni e mia madre Caterina, i tuoi nonni.» Il colera del 1867 partì da Giarole, un paese di pianura ai limiti del circondario di Casale. Narrò il medico municipale: «Si viveva in piena tranquillità igienica, e senza alcun sospetto, quando nelle ore pomeridiane del 4 luglio, una donna, Margherita Corna, ritornata da Occimiano dove s'era recata a visitare la figlia ammalata di febbre tifoidea, fu presa da un malessere con sintomi colerici. Chiamato presto a visitarla, feci una diagnosi di febbre perniciosa. L'ulteriore andamento mi provò che ero nel vero, poiché la Corna, migliorata nel secondo giorno, ebbe nel terzo, il 6 luglio, un peggioramento parossismatico con ingruenza a freddo, seguito da morte. La notte tra il 10 e l'11 luglio recò la certezza che anche a Giarole si era sviluppata la malattia colerosa, essendo stati colpiti in modo quasi fulminante Stefano Bellingeri, d'anni 72, e Albina Roncarolo, d'anni 33. Il colera continuò fino al 20 agosto con 48 casi di cui 30 con esito letale».

Il 16 luglio il morbo apparve in un comune vicino: Pomaro Monferrato, che aveva 1100 abitanti. Come si vivesse allora nelle campagne lo descrisse con minuzia il dottor Ravio Valerani, membro della Società italiana di medicina, incaricato della relazione sul caso di Pomaro: «All'amenità del sito, e alla bellezza della natura, non corrisponde degnamente l'opera dell'uomo. In Pomaro le case e i tuguri vi stanno agglomerati in ispazio ristretto. I cortili sono piccoli e ripieni di letamai e di altro sudiciume. L'interno degli abituri è quasi dovunque ingombro, malsano e insufficiente al numero delle persone che vi hanno dimora. Si aggiunga che nella vicinanza del villaggio scorre la roggia Grana, nella quale gli abitanti di questo e dei comuni vicini hanno la pessima abitudine di porre a macerazione la canapa: l'acqua vi si corrompe e ne vengono le più fetide emanazioni e i miasmi più pestilenziali. L'acqua potabile scarseggia. Il vitto è poco riparatore. Le regole igieniche sono trascurate quasi tutte. Quest'anno, infine, la scarsità del raccolto dei cereali aggravò le misere condizioni della popolazione, preparando il terreno all'invasione del terribile morbo».

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Pagina 64

Fare come in Russia



«QUANDO ritornai in Italia, nel febbraio del 1920», riprese Ernesto, «mi accorsi che anche noi avevamo i nostri Bela Kun. Erano i socialisti più accesi, bravissime persone, ma prigioniere di un sogno: che la rivoluzione proletaria stava per cominciare e avrebbe spazzato via i padroni, i preti e i carabinieri. Siccome avevo visto il bordello insanguinato di Budapest, ho capito che la rivoluzione non sarebbero mai riusciti a farla. Anzi, a forza di predicarla, avrebbero generato un Horthy italiano, con un'altra scopa di ferro. E difatti arrivò Benito Mussolini.»

Ma bisognava farne di passi prima di veder spuntare il futuro Duce. Il passo numero uno giocò a favore dei socialisti ed ebbe un nome semplice e aspro: il carovita. Lo chiamarono così i soldati reduci dal fronte, all'inizio del 1919, quando scoprirono che tutto costava un occhio della testa. A cominciare dal pane, dal vino, dallo zucchero, per non parlare della carne, del carbone vegetale, del caffè, del lardo, del baccalà. Il massimo del rincaro riguardava la carne bovina e le patate: rispetto all'anteguerra costavano cinque volte tanto. E che tetraggine si rivedeva in giro! Le case dei poveri erano fredde. Comprarsi un vestito o un paio di scarpe risultava un affare da milionari. La luce elettrica andava e veniva senza un perché. Anche il petrolio per l'illuminazione mancava.

A patire di più erano i salariati sempre in miseria e i nuovi disoccupati. Le industrie che avevano lavorato per l'esercito chiudevano o sfoltivano le maestranze. Anche i cementifici avevano ridotto la produzione di un buon terzo. A inacidire tutto, c'era la constatazione rabbiosa che il macello della guerra non aveva cambiato niente: i ricchi erano sempre ricchi e i poveri sempre poveri.

L'unica differenza era che l'aria stava cambiando. Adesso, chi stentava la vita non s'accontentava più di sfottere i signori che andavano alle feste da ballo. I poveri volevano dare un giro diverso alla ruota. E intendevano fargliela pagare ai padroni: tutti prepotenti, sfruttatori del lavoro di tanti disperati, avari, dei pidocchi rifatti, pronti ad ammazzare di nuovo Gesù Cristo pur di non cedere una briciola della loro fortuna. «Anche a Casale», continuò Ernesto, «questi diseredati cercavano un santo in paradiso che li aiutasse a tirare su la testa. E di santi ne trovarono due. Uno l'abbiamo già incontrato: l'avvocato Rampini. L'altro era pure lui un avvocato e si chiamava Umberto Ricolti.»

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Pagina 190

L'inganno del Sessantotto



MILANO incontrò quel giovanotto umbro la sera del Sant'Ambrogio 1968. Nella bruma condita di smog, la Scala era una fortezza assediata. Reparti di polizia, in assetto antisommossa, stavano schierati a difesa di palazzo Marino, simbolo del potere comunale. Agenti dell'ufficio politico tenevano d'occhio la piazza e i luoghi vicini: l'imbocco di via Manzoni, la Galleria, via Filodrammatici, dove sorgeva il santuario di Mediobanca.

Su quella scena di guerra, lui si presentò con un seguito smilzo. Ma esibì per la prima volta i segni distintivi del proprio personaggio. Una barba ben curata, né lunga né corta. Un vocione quasi da baritono. Un megafono. Un bel mantello nero da carabiniere...

«Ma di chi stai parlando?» mi interruppe Ernesto. Giovanna fu più svelta di me: «Non l'hai capito? Di Capanna, di Mario Capanna, quello famoso. E di quando contestò una prima della Scala. Era lui il giovanotto in mantello e megafono. E anche con le uova marce. Le tirarono addosso alle signore che entravano nel teatro. Che brutta azione! Pensa al lavoro che c'era dietro quelle toilettes!»

«Già, Capanna, l'eroe del Sessantotto», borbottò Ernesto. «Adesso che ci siamo arrivati voglio sapere come mai hai scritto così poco del Sessantotto. Dico bene o sbaglio?». «Sì e no. A quel tempo stavo al 'Giorno' di Italo Pietra e mi occupavo delle cronache lombarde. Ma ho poi raccontato, e tante volte, il seguito del Sessantotto, il suo sviluppo caotico e tragico. Così ho compreso tutto lo stesso. Con i terremoti sociali succede quel che accade con gli esseri umani: bisogna aspettare un po' per capire se butteranno bene o male.»

Per la verità, dove sarebbe sfociato quel terremoto lo compresi quasi subito. E per un dettaglio che, nella mia testa, suonò come una sirena d'allarme: la prima scossa si registrò a Torino, a palazzo Campana, dove avevo incontrato i miei maestri e gettato le basi del mio avvenire. Il Movimento studentesco lo occupò il 27 novembre 1967. Tutta la faccenda durò un mese, poi, fra Natale e Capodanno, la polizia fece sloggiare gli occupanti. Quando seppi dello sgombero, pensai che avrebbero dovuto provvedere subito, sin dal primo giorno. Ci saremmo risparmiati un mese di abusi, di vandalismi, di violenze verbali, un bordello esaltato da una rabbia fanatica, senza motivo. Leggevo sbalordito le cronache dell'occupazione. E mi sembrava parlassero di un pianeta alieno. L'università che i capi del movimento descrivevano era l'opposto di quella che avevo conosciuto, appena dieci anni prima. Anche i docenti venivano dipinti con falsificazioni grottesche. Possibile che fossero tutti dei kapò nazisti? E che a palazzo Campana esistesse un lager per torturare i rampolli della borghesia torinese di sinistra che avevano deciso di fare la rivoluzione?

Ansiosi di realizzare la loro utopia libertaria, i leaderini studenteschi sfoderarono subito un'arma che poi sarebbe stata usata dappertutto e contro tutti gli avversari: la deformazione sistematica della verità. Sono troppo duro nel giudizio? Dimentico i tanti ragazzi e le tante ragazze che, nel Sessantotto, scoprirono il piacere di una libertà pacifica? Può darsi. Ma quelli che li guidavano, i loro pifferai, non meritano tenerezze. Erano dei bugiardi faziosi allora. E molti hanno continuato a esserlo oggi, nell'età dei capelli grigi.

Ebbero una schiera di complici, questi pifferai. Primo fra tutti, il vecchio Pci. O almeno una delle due anime del partitone rosso, allora governato da Luigi Longo. Nel giugno 1968, Giorgio Amendola scrisse su «Rinascita» che il movimento studentesco era «un rigurgito di infantilismo». Ma già nell'autunno, un giovane dirigente dal luminoso avvenire, Achille Occhetto, capovolse la frittata. E proclamò che il movimento «era parte integrante del più grande processo rivoluzionario». Quindi sentenziò, sempre su «Rinascita»: «I giovani si sono messi in cammino perché siamo entrati in una fase di movimento della lotta per abbattere il capitalismo».

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Pagina 199

Una pistola, e non una spranga, mise invece nei guai un altro eroe del Sessantotto: Adriano Sofri, gran capo di Lotta continua e grandissimo sciamano, o stregone, di tutti gli aspiranti rivoltosi di quell'epoca.

La prima volta che sentimmo parlare di lui mancava ancora un bel po' al terremoto sessantottino. Correva il marzo 1963, Sofri andava per i ventun anni e studiava Lettere a Pisa. Piccolino, smilzo, sul nevrotico glaciale, volto da bambino, ma sguardo indimenticabile, per i lampi cattivi. E poi cultura di quelle toste, logorrea elegante, dialettica aggressiva, da far saltare i nervi a collaudati pachidermi politici. In quel marzo, Guido Quazza, il professore della mia laurea, aveva organizzato a Pisa un corso di rilettura critica della Resistenza. Testimoni di spicco: Lelio Basso per i socialisti, Fanfani per la Dc e Togliatti per il Pci. E fu lì che Sofri sbocciò.

Anni dopo, ad Alberto Papuzzi, della «Gazzetta del popolo», Quazza raccontò che cos'era successo: «Andai a prendere Togliatti all'aeroporto e in macchina gli dissi: qui i più in gamba sono tutti alla sinistra del tuo partito, anche i cattolici. Togliatti sorrise e fece una lezione come sapeva fare lui». Rievocò anche il suo incontro nell'aprile 1944, a Napoli, con l'americano Robert Murphy, amico del presidente Roosevelt, un vecchio e abile diplomatico che rappresentava gli Stati Uniti nella Commissione alleata di controllo. Murphy aveva osservato: se in Italia vincesse il comunismo e gli italiani si alleassero con voi, che male ci sarebbe? Ma Togliatti gli aveva risposto, serafico: no, ambasciatore, noi comunisti proporremmo agli italiani una repubblica democratica.

Si aprì il dibattito e chiese la parola Sofri. Con la sua aria da Gian Burrasca al veleno, si rivolse al segretario del Pci, dandogli del tu, ostentatamente: «Spiegami, compagno Togliatti: nel 1944 chi era il segretario del partito? Tu o Murphy?» Intendeva dirgli: l'americano era più a sinistra di te, che volevi soltanto la repubblica della borghesia! «A quel punto, Togliatti perse la sinderesi», raccontò Quazza, «e replicò a Sofri: 'Parli tu, che hai ancora il latte sulle labbra!'. Si scatenarono gli interventi, tutti di sinistra, molto molto accesi. Togliatti se ne andò furente: 'Estremisti, estremisti!', mi borbottava in macchina».

Secondo un'altra versione, raccolta nel 1988 da Mino Fuccillo per «Repubblica», Sofri aveva detto a Togliatti, con il sarcasmo freddo che presto avremmo imparato a conoscere: «Ci voleva l'ingenuità di quell'americano per credere che il Pci volesse il comunismo!» Togliatti si bloccò. Poi accettò il diverbio e replicò a Sofri: «Provaci tu a fare la rivoluzione!» Al che Adriano, bamboccio spietato, ribattè: «Ci proverò, state sicuri che ci proverò».

Trascorsero tre anni e, nel 1966, Sofri cominciò a provarci. Espulso dal Pci di Massa per «indegnità politica e frazionismo», fondò a Pisa un gruppo a sinistra del partitone. E lo chiamò Potere operaio, come la rivista che avrebbe fatto uscire nel febbraio 1967. La sede era al 12 di via Fucini, stradina della città vecchia, accanto alla mescita di vini Da Margherita. Qui iniziò a progettare la sua arma vera: Lotta continua.

Chi lo ricorda allora, lo descrive in preda a un fuoco interno, istrione energico, teorico settario. Attorno a lui, un gruppo di giovani intellettuali. Nottate a discutere. Prime battaglie di strada. Prime sconfitte fatte passare per vittorie. Come l'assalto alla Bussola, la sera del 31 dicembre 1968. Volevano regalare un Capodanno indimenticabile ai ricchi che festeggiavano nel locale: «Le signore con l'abito lungo e i potenti col fiocchino e le facce inamidate». I carabinieri li caricarono sparando. E l'unico che avrebbe ricordato per sempre quella serata balorda fu lo studente Soriano Ceccanti: colpito da un proiettile e inchiodato su una sedia a rotelle.

All'inizio del novembre 1969 andai a Pisa per «La Stampa» di Alberto Ronchey, il successore di Gidibì. Stavo scrivendo un'inchiesta sulla sinistra extraparlamentare e volevo raccontare di questo Sofri, quasi niente conosciuto. Ma non trovai più i potopisti. S'erano concessi un ottobre su di giri, concluso con l'occupazione del municipio di Sarzana, un bel fastidio per il sindaco comunista Paolo Ranieri. Poi avevano scelto di emigrare al Nord, per stare dentro l'autunno caldo. L'ultimo ad andarsene fu un giovanotto di ventisei anni, con un nome che allora non diceva nulla al pubblico: Giorgio Pietrostefani, figlio del prefetto di Arezzo. Sembrava soltanto uno studente dalla battuta pronta. Un giorno, un amico gli disse: «Ma stai zitto! Non vedi che siete quattro gatti?» Lui rispose, serissimo: «Quattro gatti? No, siamo settecento milioni».

Parlava della Cina, naturalmente. Ma siccome la Cina seguitava a restare lontana, fu a Torino che Sofri e i suoi compagni decisero di far nascere Lotta continua. Uno che li conosceva bene mi spiegò: «La partita pesante si gioca nelle fabbriche di Torino, Milano, Marghera. Lì è possibile una vera lotta continua. In che cosa consiste? Nel non pagare più l'affitto, la luce, il riscaldamento, il tram, i libri di scuola, le merci prese nei supermarket». «Ma non è illegale?» chiesi, da vero ingenuo. E lui: «Illegale? Aspetti e vedrà. Che cosa c'è di illegale in un regolamento di conti?» Furono i loro conti a rivelarsi sbagliati. Un errore dopo l'altro, dimenticati con indifferenza. Senza mai dare un'occhiata alle tragedie che si lasciavano alle spalle. La più orrenda: quella dei giovanissimi di Lotta continua finiti nel terrorismo, e destinati a uccidere o a essere uccisi. Mi domandai, non da solo: ma questi capi di Lotta continua sono degli illusi o dei furbastri? Il Sofri che incontrai a Reggio Calabria mi convinse che erano l'una e l'altra cosa insieme.

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Pagina 339

Disincanto



«E DOPO che cosa accadde?» domandò Ernesto. «Dopo ci fu Tangentopoli. O Mani pulite, se vogliamo vedere la faccenda dal lato dei giudici e dei cittadini che chiedevano un po' di pulizia, e non dal versante della città dei corrotti, grande quanto l'Italia.»

«Hai scritto molto su Tangentopoli», osservò Ernesto. «Sì, tanto. E mi fa rabbia il ricordo di ciò che osò strillare qualche sepolcro imbiancato, quando la storia ebbe inizio. Gridò: anche prima che arrivasse Di Pietro con lo spauracchio del carcere, tutti sapevano e nessuno banfava. Tu sai che non è vero, Ernesto. E c'è la prova che non tutti, allora, fecero scena muta.»

La prova stava negli archivi dei giornali e sugli scaffali delle librerie. Per rimanere a Milano, la città dove comparve per prima Mani pulite, qualcuno aveva parlato, aveva scritto, aveva denunciato. L'aveva fatto un consigliere comunale missino, Riccardo De Corato, un fascista onesto, coraggioso, tignoso. L'aveva fatto il consigliere verde Basilio Rizzo. L'aveva fatto Società civile, un club di cittadini guidato da un altro grande ingenuo, uno mai disposto a mollare: Nando dalla Chiesa. L'avevano fatto un giornalista, Gianni Barbacetto, e un politico, Elio Veltri, con un libro: «Milano degli scandali». L'avevano fatto preti e laici, cani sciolti di sinistra e di destra, conservatori borghesi ed estremisti rossi. Risultato? Parole al vento. Acqua sulle pietre.

Anch'io avevo gettato secchiate d'acqua sul marmo, con tanti articoli per «Repubblica» e due libri. Il primo s'intitolava «Lo sfascio» e uscì nel 1987. Il secondo, «Il malloppo», venne pubblicato nel 1989, tre anni prima che emergesse Tangentopoli.

«Hai venduto molte copie di questi libri?» m'interruppe Ernesto. «Sì, ma senza risultato. Non avevo costretto nessun politico a dimettersi. E nessun giudice s'era sognato di chiamarmi a deporre. L'unico effetto furono tre querele, contro di me. E cara grazia, come si dice a Milano, che non venni condannato.»

Insomma, noi giornalisti, pochi, davvero pochi, non avevamo tenuto il sasso in bocca. Ma i padroni di Tangentopoli se n'erano sbattuti della nostra carta stampata. Carta da cesso, dicevano. Robaccia da partito irresponsabile. Meglio far finta di niente e tirare diritti sull'autostrada della mazzetta. Eppure quelle parole stampate esistevano e sarebbero durate nel tempo. Ed esisteva una pattuglietta di onesti che, anno dopo anno, avevano visto crescere il mostro della cleptocrazia.

«Che parola ostica! Cosa vuoi dire?» domandò Ernesto. Cleptocrazia veniva dalla Germania e l'aveva tradotta così Angelo Bolaffi. Identificava il potere fondato sul furto. E riassumeva la formula magica del politico corrotto: conquista una poltrona, ruba, diventa più potente, ruba sempre di più, e con il bottino dei furti resisti su poltrone sempre più grandi e per un tempo indefinito. Ecco la fotografia di ciò che era accaduto in Italia, più o meno sempre, dal dopoguerra in poi, ma con un'intensità spaventosa dall'inizio degli anni Ottanta.

«Poi è cambiato tutto di colpo. E la ruota si è girata un giorno di febbraio del 1992», osservò Eraesto. «Non ho mai capito perché proprio in quell'epoca, e non prima o dopo.»

I perché furono tanti. E solo se li consideriamo nell'insieme è possibile costruire una risposta. Il 9 novembre del 1989 era caduto il muro di Berlino e tutto il partitismo italiano traballava per i contraccolpi. Non dimentichiamoci che in Italia esisteva il più forte partito comunista dell'Occidente, il Pci. Alle Botteghe Oscure si facevano finanziare dai compagni sovietici. E siccome questi soldi, e il denaro raccolto con le collette dei militanti, non bastavano a tenere in piedi il gigantesco macchinone dell'apparato, dei giornali e delle case editrici, molti altri quattrini venivano pompati soprattutto dalle cooperative rosse. Che in cambio ricevevano dal partito una bella spinta per i loro affari.

Ma anche gli avversari del Pci si facevano finanziare. Dagli Stati Uniti, nei primi tempi. Poi dai padroni dell'economia italiana. Infine con le tangenti o con i contributi nascosti, sganciati da chi aveva bisogno della benedizione dici o socialista per ottenere una commessa, concludere un contratto, impiantare un'azienda. I partiti di governo erano come le vergini dello sberleffo popolare; sane davanti e rotte di dietro. Sapevano bene di reggersi sopra un letamaio di corruzione e di soldi neri. Però dicevano, con la sicumera di chi possiede un alibi di ferro: il denaro sporco è indispensabile per tenere testa ai servi di Mosca organizzati nel Pci, dunque benedetto chi ce lo da e santo chi lo riceve. Nel novembre 1989 quell'alibi cadde di schianto, insieme al muro di Berlino e al comunismo europeo.

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