Copertina
Autore Enrico Panunzio
Titolo I signori scaduti
EdizioneLa Lepre, Roma, 2013, Visioni , pag. 140, cop.fle., dim. 13,5x21x1,1 cm , Isbn 978-88-96052-88-4
LettoreMargherita Cena, 2013
Classe narrativa italiana , regioni: Puglia
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Indice


  9    Prefazione

 11    L'ultima villeggiatura

 49    L'alba nel pagliaio

 69    La scalogna

 81    Ritorno a palazzo Fraggiacomo

101    Il coprifuoco

107    Le sorelle Ceci

117    Lo zio Demostene

127    Scampagnata alla Murgia


 

 

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Pagina 13

I



Per chi come me viene dal mare, Ruvo la rossa, chiusa da ogni parte dai nebbiosi vigneti, deve aver l'aria di una cittadella addormentata da secoli. Il suono delle campane di quel paese di sasso, raccolto a grumo intorno alla torre severa del Duomo, è duro, quasi lugubre; chi l'ascolta tra le strade soffocate dai muraglioni non ci fa mai caso. Per i ruvesi i giorni sono i figli antichi del vento: cresce il grano nei grandi appezzamenti sotto il sole acceso, che si misurano col cielo, e la vite d'estate mette tutto il suo sangue nei tralci; qualche puledro ancora scavezzato, libero più del vento, galoppa felice sui sassi rotti della Murgia e il campanaccio inonda il silenzio, leva i falchi dalle macchie o spaventa, finché dura, le cicale.

«Vedete! — mi dice il massaro che ha messo al passo la cavalla sullo stradone. — Questi campi a sinistra erano del nonno. Tutta terra benedetta da Dio». Scrolla il capo, poi ride: «C'è tanto vino qui, che gli uccelli se beccano s'ubriacano. Non mi credete?». M'indica "le mattine" lontano, ai piedi della Murgia; si distinguono appena perché il sole abbaglia. «Il nonno non ci pensa più alle "mattine" che gli davano l'olio buono. Dice che senza la proprietà si campa meglio e sicuro».

L'aria è frizzante quassù, spalanca i polmoni; se resto più a lungo con gli occhi stregati alla criniera della bestia che sbuffa, mi casca addosso il sonno.

«Uff! — si lamenta il massaro. — Questa polvere è un castigo. Arriveremo bianchi fino ai capelli».

«E il nonno che fa? – gli chiedo dopo un po'. – Lui abituato al paese...».

«Prima non ne voleva sapere di venire alla Murgia. È donna Amalia che ha paura delle bombe e quando s'è saputo dello sbarco in Sicilia ha detto: "Non resto più un minuto, me ne vado". Il nonno, sapete, non sa vivere senza di lei; s'è preso i libri, il fucile e adesso anche lui s'è scordato della guerra. Non vuole sentirne parlare».

I chilometri che ci lasciamo intanto dietro le ruote sono fiumi d'erba illuminata, qua e là rompe il verde maturo un coltivo arato e ha ragione massaro Nicola se dice che quella terra fresca tra i seminati è un pezzo di carne viva.

«Come un ventre di donna gravida».

«I tedeschi stanno al Castello — borbotta. — Chissà che combinano lassù, soli come il diavolo. Dice il nonno che il re Federico va gridando la notte nelle torri che quei figli di cani assassinano l'Italia e un giorno li ucciderà tutti con lo spavento. Chi ce l'avrebbe detto? — rumina poi, torcendosi sul sedile. — Non ditelo ad anima viva, ma ho sentito che i tedeschi hanno minato il Castello».

Passato il Ponte di Jatta, ci lasciamo alle spalle i recinti quadrati di pietra silenziosa dove appena l'edera, asfissiata e decrepita, si diverte di un soffio d'aria. Il massaro ride della mia meraviglia e mi opprime a citare i nomi delle ville claustrali tra i pini sbilenchi, dei signori che tengono la terra in un pugno senza sudare, delle masserie isolate dove abbaiano i cani e i galli di terracotta, in bilico sui pilastri, non fanno mai niente.

«Vedete dove stanno quei fichi? — riprende buio. — Là è stato ucciso un ladro, l'altra notte. Il nonno non ne sa nulla, mai sia lo venisse a sapere. Era un morto di fame, è stato un proprietario che gli ha sparato e dicono invece al paese che era un disertore alla macchia. A certa gente gli torcerei il collo».

E qui schiocca la frusta, e ci facciamo da un lato perché passi un traino oppresso di legna.

«Noi tra poco stiamo a Sfondascarpe — mi annunzia, quando non sentiamo più abbaiare il cane del carro. — Il nonno sarà contento di vedervi; siete atteso come la Provvidenza».

Anche la bestia sente l'aria di casa, non c'è più bisogno di aizzarla ed è senza giudizio se agli svolti s'impenna, scarta i fossi scosciando. Laggiù c'è una quercia enorme che getta un mare d'ombra, è tutta impeciata di sole e di caldo, allarga i rami come se volesse scappare e il massaro che ha imbracciato il fucile con una schioppettata secca nelle foglie disperde un nuvolo di uccelli. «Ohè! Ohè! — grida — Oggi è festa grande».

Ho lasciato senza oppormi che egli mi informasse sui nostri vicini di villeggiatura. A sentir lui è gente matta, si tratta di intere famiglie maniache rifugiatesi qui già da mesi.

«Il nonno non può vedere nessuno — conclude schifato. — Cristiani che rubano l'aria che si respira e sciupano la grazia di Dio per la pancia».

Gli chiedo se nonno Emanuele si occupa di campagna.

«Se non gli è rimasta che Sfondascarpe! Però non dovete toccargliela. Dice che Sfondascarpe gli è più cara di una pupilla e vuole, quando sarà, essere sepolto sotto i fichi con la bandiera rossa».

«Così non ha mutato idea?».

«Mai sia, io non vi dico niente. Devo tagliarmi la lingua. "Massaro — fa — vivo solo per l'anima, e il mondo, uno di questi giorni, si sveglierà socialista". Proprio così».

Quando rido, egli si adombra: «Maledetto sono. Dovrei tagliarmi la lingua».

S'intravede ora meglio, in salita, la carcassa bianca di Sfondascarpe sepolta tra i mandorli. Nel viottolo inerpicato e sghembo, poco è che il carrozzino non crollava. Le piogge torrenziali corrodono i sentieri spietrati e più ancora i fumanti bracieri delle stoppie avvampate. Crescono sui margini le potenti schiere dei fichidindia. Come facciano a vincere il sasso nemmeno il massaro sa spiegare, ma ecco che siamo stati avvertiti dal nonno che spara a salve dal terrazzo e chiama nelle mani:

«Ohè! Ohè! Sei tu, Enzo? Sei tu?».

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Pagina 103

Liborio Spada uscì tardi quella sera – a due ore suonate – con un magro cartoccio sottobraccio. Camminava di traverso, a passi ladri, lungo la squallida muraglia nel vicolo della cattedrale, stretto e solitario, dove s'ingolfava il vento. Un po' di luce filtrò in fondo dal finestrone opaco della sagrestia, a ridosso dell'abside mezzo diroccata, e il vecchio infilò l'uscio incassato tra i tufi corrosi dalle ortiche.

A quell'ora insolita, la chiesa con le sedie perse un po' dovunque, i banchi di sghimbescio, le ombre appena scovate sotto gli archi dal barlume dei ceri e l'organo laggiù sprofondato nel buio, gli mise spavento. Egli s'inginocchiò dinanzi all'altare dove i santi allampanati dentro le nicchie lo guardavano con occhi fervidi, quasi volessero tornarsene con lui in cielo, ma il suo cuore era spento.

Forse Poltruccia non l'aspettava più; non si vedevano da una settimana. Chissà come l'avrebbe trovata quella figlia dall'ultima volta che non gli era parsa più la stessa, mangiata dalla febbre.

Appena fuori dal vicolo, col vento in faccia che sbatteva le lampade, don Liborio imboccò un paio di strade deserte nel vecchio quartiere. Il mare non lontano si rompeva con un boato sulle banchine ed egli, come sempre, dietro la spalla caduta di un muro, rimase a guardarlo. Anche il mare, aperto dalla tramontana che gelava, gli fece pena, nero e solo come lui nella notte sotto la lama del faro, e si attaccava alle pietre come una creatura. Gli giunsero nel vento gli accordi rotti di una fisarmonica. C'erano alcune luci dorate in alto, alle finestre di un secondo piano, dove si trascinava una festa ed egli, prudente, si ristrinse nell'ombra, quasi gli stessero dietro. Davvero era un azzardo restar fuori di notte, che i Commandos non vedevano più dal vino e assaltavano i portoni in quel labirinto di viuzze fuori mano. La gente se ne stava barricata in casa, intorno al braciere, se avanzava un poco di carbonella, per il rammendo delle reti, sennò meglio buttarsi a letto con quattro sarde in corpo (tanto le sere erano fredde e piovose), ma nel primo sonno si udivano le fucilate, lì dove erano le osterie sempre aperte sotto Natale.

Proprio allora Poltruccia stava per andarsene a letto quando entrò don Liborio senza bussare.

«Sono io – disse. – Sono venuto a vedere come stavi».

Poltruccia si coprì in fretta, mezzo svestita com'era, si annodò poi lo scialle sul petto scavato e cercava coi piedi le scarpe sotto la coltre. «Potevi farne a meno di venire con questo freddo. Vuoi morire anche tu?».

Don Liborio posò il cartoccio sulla tavola vuota. C'erano sul tappeto sfilacciato ai bordi i segni impressi dai bicchieri, l'impronta più viva delle tazze, qualche briciolo di pane e le macchie del latte.

«Non ti vedo da un secolo. T'ho portato il pesce se hai fame».

«Così lo sanno tutti a casa che sono alla miseria».

«Che dici? Non se ne sono nemmeno accorti – riparò don Liborio, che si risparmiava per lei i bocconi. – Un po' di pesce fritto fuori tavola».

Poltruccia odorò le triglie avanzate nella carta oleata e le nascose sopra la cantoniera per paura del gatto, accovacciato sul fuoco a vapore. Dove una volta erano le due caldaie di rame ora si vedevano due grandi buchi e si capiva che il fuoco non bruciava più, dal momento che essa se ne serviva per tenervi i carboni. Un pentolino d'acqua calda bolliva sul braciere e ogni tanto il liquido svasato sfriggeva sulla cenere.

«Non ce la faccio più», disse regolando la fiamma del petrolio. La luce zampillò calda e gialla nel tubo. «Che ci sto più a fare al mondo, così?».

«Starai meglio, Poltruccia. È la stagione adesso. Questa luna ha portato il freddo e i malanni. Sapessi come mi sento anch'io che non chiudo più un occhio la notte».

«Vedi? Mi lagno sempre. Ma che m'importa se me ne vado... Mi sai dire a che servo?».

Don Liborio la guardò di soppiatto: ancora più smagrita, gridavano gli occhi lucidi di febbre su quella faccia digiuna.

«Non darmi questa pena: sentirti parlare così. E invece stai meglio dell'altra volta».

«Me ne muoio – disse Poltruccia. – Ancora qualche mese e mi tolgo il fastidio della vita».

«Se almeno potessi convincerti ad andare in ospedale. Una stanza, a pregarli, si trova».

«Mai! — urlò Poltruccia. — Non muoio lì dentro per pietà».

«Va bene, calmati. Chi parla di morire? Ti porto io il dottore. Siamo sempre signori».

Si era accasciata sulla sedia col capo tra le mani, stretto nel fazzoletto per l'emicrania che non la lasciava mai.

«Non voglio nessuno, – si sentì appena – voglio essere lasciata sola».

«Domani torno con il dottore – riprese don Liborio. – Vedrai che si trova il rimedio, con tante medicine ora in giro. Dicono che la penicillina fa miracoli».

«Qui dentro? – esplose. – Fargli sentire questo puzzo? E che deve pensare anche lui con tutto quello che m'hanno detto?».

«Non tormentarti — ingiunse — ché ti fai più male».

«Una puttana sono, una puttana! — tornò a urlare Poltruccia. — E mi do anche ai cani per tirare, io che ero una Spada».

«Figlia mia! — singhiozzò don Liborio, coprendosi le orecchie. — Che brutto destino abbiamo avuto noi due».

Si sentì scricchiare un tarlo, lì in fondo allo stanzone dove si alzava il letto.

«È meglio così — riprese Poltruccia. — Ora anche se me ne muoio non c'è nessuno che mi piange e me ne vado come sono venuta».

«Ti supplico! — fiatò don Liborio. — Bella gioia che dai a tuo padre».

«Non ero cattiva — disse Poltruccia come in un soliloquio, e fissava sopra il comò il soprammobile della primavera di bronzo dorato, tra le rose di carta nei due portafiori. — Mi hanno guastata i dolori».

«Se non fossimo così poveri — echeggiò don Liborio — adesso sarebbe diverso. Non è mai che devo vivere per sbaglio perché mio figlio mi ha spogliato da vivo e tu, poveretta, in questo stato... La colpa è tutta mia che non ti dovevo generare».

Cantavano a perdifiato nella strada; poi crepitò uno sparo nella vampa verde di un bengala.

«Povera figlia mia! — gemé don Liborio, rannicchiato sul braciere. — Gesù Cristo ci vede tutti e due».

Poltruccia non disse niente, stretta contro il muro. E piangeva.

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Pagina 129

Non c'era un'anima ad attenderlo in Piazza di Nòe, ma che poteva pretendere a un'ora così avanzata della notte che a vivere nel suo paese c'erano le lampade e le statue? Bonifacio, con le valigie a terra, si tolse dalla tasca l'ultimo panino, lo sbucciò dalla carta oleata e le polpe pepate del salame gli si sciolsero tra i denti. Inghiottiva e pativa, all'impiedi contro un palo, e tra un boccone e l'altro guardava ora i magri oleandri storpiati dall'inverno, ora i palazzi morti coi vecchi signori dentro le stanze: gli Spada, gli Jatta, i Ceci, i Fenicia che hanno terre e dolori, ma nessuno gli vuole bene. Tiratosi dietro un bagaglio per volta, poté infine imboccare il vicolo di casa, guidato dallo scroscio rauco della fontana, ed ecco che allo svolto il Duomo gli stava innanzi.

Come sempre, Bonifacio si riempì di tenerezza per quel vecchio gigante legato al suolo e, lasciate cadere le valigie sotto il portone di casa, sul fianco del sagrato, si diresse al portale dove dormivano i due leoni di pietra, a zampe arcuate, come in tutti quegli anni dentro la sua memoria; li carezzò lungamente sulla criniera rotta dal vento. L'orologio dall'alto della torre campanaria lasciò cadere i suoi tocchi ed egli riconciliato, mansueto, volle restarsene ancora un poco in compagnia di quella luna di marzo che buttava freddo e silenzio.

Suo padre era ancora in piedi, a quell'ora, come diceva nell'angolo l'invetriata chiara della luce. "Starà cuocendosi l'uovo!" e, sollevato il battente, restò in ascolto dei passi trascinati sul pianerottolo. Di lì a poco senti frullare il cordino del sottoscala e la voce di suo padre, curvo sulla ringhiera: «E devo proprio crederci? Gesù, chi t'aspettava!».

Gli disse anche di chiudere forte col ferro, per via che i ladri giravano. Non si stancò Don Luigi di guardarlo, come l'ebbe tra le braccia, né gli diede modo di rifarsi il respiro: «Pensavo che fosse don Federico. Abita al piano sopra e la sera, se non è di servizio in caserma, si ferma qui mezz'ora, mi dà un fiato. E invece eccoti qua, che bella improvvisata! Fatti vedere meglio, alla luce».

Bonifacio, arreso, si lasciò studiare e a sua volta osservava il padre con quel giaccone di casa buttato sulle spalle, che lo ingobbiva. A vedergli i piedi nudi e sporchi nelle pantofole, sentì di amare il vecchio e lo lasciò salmodiare.

«Però una voce me lo diceva. Vedrai che Bonifacio viene, stanotte viene e mi sveglia. Hai mangiato?».

Bonifacio cadde di peso sul divano.

«Digiuno sono, – confessò tra i denti – mi contento di un paio di uova».

«Ma si capisce che devi mangiare! – gli fu subito sopra. – Ti metto ora la tavola, figlio buono. Ma che piacere! Però un rigo potevi pure scriverlo. Mi hai fatto stare in pena questo inverno: eri morto? Eri vivo? Salvatore, te lo ricordi? Quello di Nunziatina...».

«Salvatore Modugno», soccorse Bonifacio.

«Dunque, Salvatore è tornato dall'Australia, dopo l'Epifania, ma non è più lo stesso di una volta, sempre a letto a poltrire e così il cervello si guasta. Tu no, che sei un Centrone, e cammino a testa alzata domani stesso in paese, e ho due braccia sane su cui appoggiarmi. C'è chi ti ha preso a cuore e ti sistema presto al Comune, come reduce».

«E sarebbe?», chiese Bonifacio che sognava le uova nella salsa.

«Don Federico Traetta, l'appuntato», spiegò ancora suo padre.

«E tu che hai da spartire con i carabinieri?», s'accigliò Bonifacio.

«Si vede che i tedeschi t'hanno tolto il giudizio! – disse suo padre, curvando gli occhi a terra. – Possiamo fargli, io e te, una statua d'oro a don Federico».

Intanto Bonifacio per scacciare la fame con una sola occhiata passò in rassegna la stanza: come l'aveva lasciata, né più, né meno. Le stesse lesioni paurose che ferivano il muro dietro la cantoniera a vetri, i due fasci di fotografie a ventaglio sull' étagère dei defunti, i quadri delle stagioni offesi dalla polvere, gli stessi fiori di colla, gialli, tutti di sbieco, ancor più sfatti dall'umido che perdeva dal soffitto e si era quasi mangiato lo stemma dei Centrone a quattro colori.

«Mi dispiace – lo ridestò il padre – che trovi il braciere morto. Domani ti faccio trovare l'acqua calda nella tinozza grande, non ci pensare. Vecchio sono e non me la fido, solo qui dentro come una scopa, con quei quattro centesimi di rendita».

«La campagna ti frutta sempre?», interruppe Bonifacio che si era tolte le scarpe dal dolore.

«Quest'anno le olive andarono bene, ma la terra chi le sta dietro? Senz'acqua, senza bestie, sopra la Murgia a seccare. Ho campato, questi anni che tu non c'eri, su qualche staio d'olio, qualche sacco di mandorle vendute all'ammasso: una vera miseria. Non è che il pane mi sia mancato, direi una bugia, ma adesso che sei venuto tu bisogna governarla quella terra».

Bonifacio restò sollevato a vedere che il padre stava spiegando l'incerata. Disse: «Lascia stare, ti aiuto?».

L'altro lo rimbeccò: «Tu non ti devi muovere di lì. Chissà che fame che hai, povero figlio. Fortuna che capiti giusto, c'è un po' di ragù d'avanzo. Peccato che è tutto grasso a quest'ora».

«Così lo voglio — saltò su Bonifacio. — Che ragù è, di maiale?».

«Carne di cavallo qui dentro non è mai entrata! – spiegò il padre aggiustandosi il giaccone che lo copriva. – Sacrifici ne faccio, eccome, ma signore ero e signore sono, e non si deve dire che i Centrone hanno perduto la sorte. Sarà che gli altri comprano vigne e vigne, tutti i santi giorni della settimana, quattro pezzenti arricchiti con la farina e la carne a peso d'oro e, appena un signore scaduto se ne va alla rovina, loro subito gli stanno addosso, gli succhiano il sangue. La forca ci vorrebbe, lo dico sempre a don Federico».

«Una vera indecenza!», confermò Bonifacio, che non perdeva un gesto del padre, specie adesso che affettava sotto la luce la pagnotta del pane e aveva tolto dal piano della credenza il cesto dei finocchi. Appena egli accampò il bottiglione di vino buono al centro della tovaglia, Bonifacio si schiodò dal divano e, raggiunta la tavola a fatica, lo ghermì per il collo, se ne fece un bicchiere.

«E che si beve nel bicchiere grande dell'acqua? – gli piombò sopra l'altro. – È moscato. Questo ti leva la stanchezza e la fame. Che te ne pare?».

«Una delizia!», spirò Bonifacio, ora che il vino lento sulle gengive gli sapeva di polvere.

«Per forza dev'essere buono, – disse don Luigi – viene da Calentano. Basta però a bere, ti fa male».

Gli occhi del figlio si caricarono di sospetto: «Vuoi fare economia?».

«Per il tuo bene lo dico. Cos'è la guerra! Tornate tutti allo stesso modo. Ti hanno fatto patire? A tuo padre puoi dirlo».

«È vino nostro?», chiese Bonifacio.

«Che ti sei scimunito in Germania? Si capisce che è nostro. Non ti ricordi di quello che tieni. Va bene che tu manchi da...», e qui il padre arretrò, cercando sul soffitto gli anni naufragati, spenti, dentro la sua memoria.

«Dal Natale '40», l'aiutò Bonifacio.

«L'anno che morì tua madre – s'incupì don Luigi, che sfilava con l'unghia la trama sdrucita del tovagliolo. – Su, aiutami».

Si curvò a togliere la fiasca del petrolio dall'ultimo tiretto dell'armadio e la passò a Bonifacio, il quale era già pronto con lo zolfanello acceso e il tegame a mezz'aria, lucido d'olio.

«Ti sei bruciato? – disse il padre, perplesso a scrutare nel ventre opaco del fiasco, finché lo arrovesciò. – Accidenti, petrolio non se ne vede. Proprio stanotte doveva mancare».

«Perché? C'è pericolo che non basti? Due uova fanno presto a cuocere».

«Di bastare basta», rassicurò don Luigi, sgrumando con un dente di forchetta lo stoppino e regolando subito dopo la fiamma che scoppiettò incerta, tanto che Bonifacio non la lasciò più d'occhio e quasi la soccorse pregando mentalmente. L'olio cominciò a sfrigolare nella creta, si gonfiò di piccole bolle sotto il cucchiaio e punse l'aria del forte odore della cipolla che spande sempre allegria.

«E il ragù? – annaspò Bonifacio, curvo sulla spiritiera. – Non me lo ricordo più com'è fatto».

«Sei rimasto creatura! – compatì don Luigi, guardandosi da vicino il figlio con occhi avidi, come una sua cosa. – Non t'è servito a niente andartene per il mondo e la guerra non ti ha guastato. Dove l'ho messo il ragù?».

«Forse nella dispensa», soccorse Bonifacio che gli si era attaccato dietro, e tutti e due infilarono l'uscio stretto e slombato dello stanzino dove alla luce gialla della lampadina stavano i capi di prosciutto, le corone paonazze di salsiccia che cadevano quasi addosso alle forme di formaggio, sane sulle scansie.

«E cantavi miseria!», si stupì Bonifacio, ma il sospetto non gli durò, aggredito dall'odore violento che impregnava il bugigattolo, perduto a contemplare le damigiane di vino, sfiancate e gravide di tenerezza, gli zinchi d'olio su cui la luce scivolava, i sacchi squarciati di farina, le brocche accovacciate delle olive alla calce, i piatti della bilancia oppressi dalle noci. Poi gli tornarono gli occhi sulla schiena ingobbita del padre che frugava in ginocchio nel mucchio di barattoli e di giarre.

«Da dove ti è cascata tutta questa provvidenza? La guerra ti ha fruttato, eccome!».

Don Luigi liberò infine un tegame schizzato di unto dove si era rappreso il ragù sotto la crosta del lardo.

«È ancora buono – disse, quando l'ebbe fiutato. – Ti leccherai le dita».

Poi chiuse lo stanzino a doppio giro di chiave.

«Vecchio, seccante e avaro!», pensò Bonifacio e la nausea gli venne, acuita dalla spossatezza, per il padre che non capiva più, per se stesso, estraneo nella casa: un intruso. Tutto lo ripugnava e però quel disgusto smanioso, che ora gli cresceva col sospetto, subito gli si sfasciava dentro a vedere come suo padre si trascinava sulle pantofole stoppose, più solo, più inutile di lui.

«Cos'è?», trasali a sentire che il campanone del Duomo si era sciolto in piena notte e chiamava a morto.

«Siamo entrati in quaresima – si segnò don Luigi, accasciato sopra il divano. – Figlio, fatti la croce».

Bonifacio che godeva degli ultimi bocconi affondò il capo tra le mani, vinto dal dolce torpore, e mille miglia lontano dal mondo non vide che suo padre, in silenzio, piangeva.

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