Autore Ilan Pappé
CoautoreNoam Chomsky
Titolo Palestina e Israele: che fare?
EdizioneFazi, Roma, 2015, Le terre 238 , pag. 224, cop.fle., dim. 13,5x19,8x1,8 cm , Isbn 978-88-7625-800-8
OriginaleOn Palestine [2015]
CuratoreFrank Barat
TraduttoreMichele Zurlo
LettoreGiangiacomo Pisa, 2015
Classe paesi: Palestina , paesi: Israele , guerra-pace , storia contemporanea , storia criminale












 

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Indice


    PALESTINA E ISRAELE: CHE FARE?

    Introduzione                                         11

1.  Le vecchie e le nuove conversazioni                  19


    PARTE PRIMA. Dialoghi

2.  Il passato                                           59

3.  Il presente                                          89

4.  Il futuro                                           111

5.  Viaggio al centro di Israele                        133

6.  Viaggio al centro degli Stati Uniti                 151


    PARTE SECONDA. Riflessioni

7.  I tormenti di Gaza, i crimini di Israele,
    le nostre colpe                                     159

8.  Breve storia del genocidio progressivo di Israele   161

9.  Incubo a Gaza                                       169

10. L'inutilità e l'immoralità della partizione
    della Palestina                                     180

11. I cessate il fuoco e le loro incessanti violazioni  193

12. Discorso alle Nazioni Unite                         206


    Note                                                219
    Ringraziamenti                                      222


 

 

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Pagina 19

1. Le vecchie e le nuove conversazioni
di Ilan Pappé



Nel preparare questa lunga conversazione sulla Palestina, Frank Barat, Noam Chomsky e io abbiamo suddiviso il lavoro in tre sezioni: una discussione sul passato, incentrata sull'analisi del sionismo come fenomeno storico; una sul presente, con particolare attenzione all'opportunità o meno di applicare il modello dell'apartheid a Israele, oltre che all'efficacia del movimento BDS quale strategia solidaristica; e infine, parlando del futuro, abbiamo discusso della scelta tra la soluzione a due Stati e quella a uno Stato.

Lo scopo principale di questi incontri era di chiarire a noi stessi il nostro punto di vista, alla luce dei drammatici mutamenti intervenuti negli ultimi anni non soltanto in Israele e in Palestina, ma nell'intera regione. Siamo partiti dal presupposto che, come per noi, anche per i lettori l'opinione di Noam Chomsky sulla Palestina, in questa particolare congiuntura storica, sia un contributo fondamentale al dibattito. La nostra speranza è che queste conversazioni siano d'aiuto nel chiarire la questione palestinese, in particolare perché evidenziano una transizione in atto nel movimento di solidarietà ai palestinesi, con notevoli ricadute sulla lotta interna a Israele e Palestina. Abbiamo scelto di non affrontare tutti gli aspetti del problema per concentrarci su quelli che ci sembravano controversi e ci siamo impegnati perché questo scambio fosse moderato (a parte una o due impennate meno docili) per un movimento che ha bisogno di rimanere unito. Contribuiscono a rinfocolare questo dissenso la frammentazione dello stesso movimento di liberazione, la mancanza di una leadership chiara e le ambiguità che attraversano il fronte pacifista israeliano. Ciononostante, un dialogo tra coloro che credono nella pace deve essere possibile!

A quanto pare, siamo nel mezzo di una transizione dalla vecchia narrazione sulla Palestina a una nuova. Io mi sento a mio agio con la nuova, ma non vorrei perdere per strada i compagni ancora legati a quella vecchia. Ecco perché in questa prima parte del libro cercherò di delineare le due narrazioni, prima di avviare con Noam una conversazione sui temi al centro della questione.


La vecchia ortodossia pacifista e i suoi oppositori

L'esigenza di trovare una nuova narrazione per la Palestina nasce innanzitutto dai drammatici sviluppi degli ultimi anni nel territorio. Le vicende sono certamente note alla maggior parte dei lettori, cosicché mi limiterò a riassumerle nel modo più aggiornato possibile, sul finale di questo intervento, e a valutarne l'impatto su quella narrazione.

L'esigenza di trovare nuove idee e un nuovo linguaggio sulla Palestina nasce da una crisi che dura da molto tempo. Tale crisi è stata caratterizzata dall'incapacità di tradurre le grandi conquiste raggiunte al di fuori della Palestina, in particolare il cambiamento operato sull'opinione pubblica mondiale, in concreti passi avanti sul territorio. Questa nuova ricerca mira dunque a sanare i divari e i paradossi che funestano il movimento di solidarietà alla Palestina a causa di quel fallimento.

[...]

Lo stesso trionfalismo, naturalmente, non anima i cittadini palestinesi di Israele che vivono nella Galilea e nel Naqab (il Negev), i quali continuano a vedersi espropriata la terra e demolite le abitazioni e sono soggetti a una nuova sequela di leggi razziste che ne minano i diritti più elementari. I palestinesi della Cisgiordania continuano a essere umiliati quotidianamente ai checkpoint, arrestati senza processo, costretti a consegnare la propria terra ai coloni e alla Israel Land Authority, senza potersi recare nemmeno nella città più vicina per colpa dei muri e delle barriere segregazioniste che circondano le loro case. Quelli che ci provano pagano con la vita o con l'arresto. Il popolo di Gaza, poi, è ancora soggetto a quel feroce connubio di assedio, bombardamenti e sparatorie che perdura nel carcere a cielo aperto più grande del mondo. Né vanno dimenticati i milioni di rifugiati palestinesi che tuttora languiscono nei campi profughi e il cui diritto a ritornare in patria è del tutto ignorato dalle potenze mondiali.

Il terzo paradosso è che il movimento di solidarietà condanna le singole scelte politiche israeliane, ma non il regime in sé o l'ideologia da cui scaturiscono quelle scelte. Gli attivisti e i simpatizzanti della Palestina hanno ad esempio manifestato contro il massacro di Gaza nel 2009 e l'assalto alla flottiglia del 2010; eppure tra queste pubbliche proteste nessuno ha osato attaccare l'ideologia su cui si fondano tali azioni. Non si denuncia il sionismo, e persino il Parlamento europeo bolla queste forme di protesta come antisemite. È come se, nei giorni del Sudafrica suprematista, non si fosse consentito di protestare contro il regime dell'apartheid, ma solo contro il massacro di Soweto o contro qualche altra atrocità del governo sudafricano.

L'ultimo paradosso risiede nel fatto che quella della Palestina è una storia di colonialismo ed espropriazione, ma il mondo la legge come se fosse una vicenda complessa e sfaccettata, difficile da comprendere e ancor più ardua da risolvere. In realtà la storia della Palestina era già nota: è identica a quella dei coloni europei giunti in terra straniera e lì insediatisi, per poi massacrare o espellere in massa i popoli indigeni. I sionisti non hanno inventato nulla di nuovo da questo punto di vista. Eppure Israele è riuscito, con l'aiuto dei suoi alleati in tutto il mondo, a imbastire una narrazione così intricata e complessa da risultare comprensibile soltanto a loro. Qualsiasi interferenza del mondo esterno è etichettata nel migliore dei casi come ingenua, nel peggiore come antisemita.

[...]

La sfida all'ortodossia pacifista

Il vocabolario dell'ortodossia pacifista è scaturito da una fiducia quasi religiosa nella soluzione a due Stati. Per molto tempo si è pensato che la partizione della terra di Palestina (con la quale fu assegnato l'80 percento della terra a Israele e il restante 20 percento ai palestinesi) fosse un obiettivo realistico da raggiungere con l'aiuto della diplomazia internazionale e una trasformazione in seno alla società israeliana. In base a questa proposta, due Stati sovrani dovrebbero convivere fianco a fianco, trovando una soluzione condivisa al problema dei rifugiati palestinesi e decidendo insieme quale debba essere la fisionomia di Gerusalemme. Questa soluzione aveva in sé anche l'augurio che Israele fosse uno Stato per tutti i suoi cittadini e non uno Stato ebraico che mantiene la propria connotazione ebraica.

Questa visione si fondava evidentemente sul desiderio di aiutare i palestinesi ma anche su valutazioni di realpolitik, essendo guidata, come lo è sempre stata, dall'eccessiva attenzione per i desideri e le ambizioni del potente fronte israeliano e da una preoccupazione esagerata per gli equilibri di potere internazionali. Il linguaggio che la caratterizza è nato dagli ambienti delle scienze politiche americane e serve a conformarsi alle posizioni degli Stati Uniti. La maggior parte di coloro che adoperano il linguaggio legato alla soluzione a due Stati probabilmente lo fa in assoluta buona fede, eppure esso ha avuto un ruolo di non scarso rilievo nell'impotenza delle diplomazie e del mondo politico occidentale – deliberata o inevitabile – dinanzi al perdurare dell'oppressione israeliana. Frasi ed espressioni come "una terra per due popoli", "processo di pace", "conflitto israelo-palestinese", "la necessità di fermare la violenza da ambo le parti", "negoziati" e "soluzione a due Stati" giungono direttamente da una versione contemporanea di 1984 di Orwell. E tuttavia questo linguaggio viene portato avanti anche da persone che normalmente considererebbero moralmente ripugnante e insoddisfacente quel tipo di soluzione (come ha ben sintetizzato Chomsky durante le nostre conversazioni), ma che non intravedono altre vie realistiche per porre fine alla dispotica occupazione della Cisgiordania e all'assedio nella Striscia di Gaza.

Il linguaggio dominante nelle stanze del potere in Occidente e tra i politici israeliani e palestinesi sul territorio si fonda ancora sul vecchio vocabolario.

Se la visione ortodossa va perdendo gradualmente terreno nel mondo dell'attivismo, il fronte pacifista tradizionale in Israele e le organizzazioni sioniste liberali in tutto il mondo ancora vi aderiscono, così come la gran parte della sinistra europea. Anche alcuni autorevoli sostenitori della causa palestinese continuano in certa misura a caldeggiarla – talvolta con religiosa convinzione – in nome della realpolitik e del pragmatismo. La stragrande maggioranza degli attivisti, invece, cerca una nuova soluzione. L'ascesa del movimento BDS (anche grazie alla richiesta di iniziative di questo genere da parte della società civile palestinese fuori e dentro la Palestina), il crescente interesse e consenso per la soluzione a uno Stato e il formarsi di un fronte pacifista antisionista, per quanto piccolo, in Israele hanno favorito la nascita di un pensiero alternativo.

Il modello della nuova organizzazione, che gode dell'appoggio degli attivisti di tutto il mondo, di Israele e della Palestina, è quello del movimento antiapartheid. Ciò è divenuto evidente con l'importanza data al Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni quale strategia principale adottata nei campus universitari durante l'Israeli Apartheid Week; un termine – apartheid – ormai comune e condiviso che viene utilizzato dagli studenti che fanno attività a sostegno della causa palestinese. A questo è seguita di recente l'iniziativa di diversi studiosi per ampliare la ricerca comparativa sui due casi studio, il Sudafrica dell'apartheid e Israele/Palestina, usando come paradigma il colonialismo degli insediamenti.

Il colonialismo degli insediamenti è una rielaborazione raffinata delle teorie e delle manifestazioni storiche del colonialismo. I movimenti dei coloni alla ricerca di una nuova vita e di una nuova identità in paesi già abitati non si limitano certo al caso della Palestina. Nelle Americhe, nella punta meridionale dell'Africa, in Australia e in Nuova Zelanda i coloni bianchi hanno annientato le popolazioni locali con vari mezzi, il genocidio in primis, per reinventarsi quali possessori di quelle terre e loro abitanti originari. Questa espressione – colonialismo degli insediamenti – è ormai comunemente usata nel mondo accademico per definire il sionismo, mentre in ambito politico ha aiutato gli attivisti a discernere con maggior chiarezza la somiglianza tra il caso di Israele e Palestina e il Sudafrica, e a equiparare il destino dei palestinesi a quello dei nativi americani.

Questo modello mette in luce le profonde differenze tra l'ortodossia pacifista e il nuovo movimento. In base alla nuova visione, tutta la Palestina storica merita una trasformazione, perché l'intera Palestina è stata ed è colonizzata e occupata, in un modo o nell'altro, da Israele; e in questa area più vasta i palestinesi sono soggetti a leggi oppressive di diverso genere che però emanano dalla stessa fonte ideologica: il sionismo. Essa evidenzia inoltre lo stretto legame tra quell'ideologia e le attuali posizioni israeliane in merito alla demografia e alla razza, considerati i principali ostacoli alla pace e alla riconciliazione in Israele e Palestina.

[...]

Infine, il nuovo movimento non recede dal chiedere con forza una soluzione che non è gradita né agli israeliani né all'Autorità Palestinese né ai vertici politici dell'Occidente: la soluzione a uno Stato. Sicuramente può contribuire a un cambio di rotta il fatto che attivisti e studiosi definiscano il sionismo come una forma di colonialismo degli insediamenti e Israele come uno Stato segregazionista. Per l'ortodossia tale cambio risiede nel processo di pace, quasi che Israele e Palestina fossero stati in passato due Stati indipendenti e Israele avesse poi invaso parte della Palestina, da cui ora dovrebbe ritirarsi per il bene della pace.

Il nuovo approccio propone invece la decolonizzazione di Israele/Palestina e la sostituzione dell'attuale regime israeliano con una democrazia aperta a tutti, mettendo dunque in discussione non soltanto le politiche dello Stato ma anche la sua ideologia. Questo punto di vista considera inoltre come una posizione razzista, più che pragmatica, il rifiuto di Israele di consentire ai profughi del 1948 di ritornare. I nuovi attivisti proclamano il loro appoggio incondizionato al diritto di ritornare dei rifugiati palestinesi, e lo fanno forse ancora più apertamente di alcuni leader palestinesi.

[...]

Il nuovo vocabolario: il passato

Ristabilire l'equazione "Sionismo uguale a Colonialismo" risulta di cruciale importanza non soltanto perché chiarisce al meglio le politiche israeliane di giudaizzazione all'interno di Israele e le politiche insediative in Cisgiordania, ma soprattutto perché è perfettamente coerente con il modo in cui i primi sionisti percepivano e descrivevano il loro progetto.

Sin dal 1882 il movimento sionista prima e lo Stato di Israele poi hanno usato i verbi le-hitnahel, o le-hityashev, e i termini hitanchalut e hitayasvut per descrivere l'acquisizione di terra in Palestina. La traduzione esatta è 'insediarsi' e 'colonizzare', e 'insediamento' e 'colonizzazione'. I primi sionisti usavano fieramente questi termini, poiché all'epoca il colonialismo veniva accolto positivamente dall'opinione pubblica (e ha continuato ad esserlo fino alla fine della prima guerra mondiale). Da quando però, dopo la seconda guerra mondiale, le fortune del colonialismo cambiarono e il termine cominciò a connotare negativamente le politiche e le pratiche europee, il movimento sionista e lo Stato di Israele hanno provato a dissociare la terminologia ebraica da quella coloniale e hanno iniziato a adottare un linguaggio più universale e positivo per descrivere le loro politiche.

Nonostante tutti i tentativi per dimostrare che il sionismo non aveva nulla a che fare con il movimento colonialista mondiale, non si poteva fare a meno di interpretare i due termini ebraici come connessi a un atto di colonizzazione. Nel vocabolario accademico e politico del XX e del XXI secolo la parola 'insediarsi' implica un atto di colonizzazione. C'è poco da fare: anche se per il movimento sionista prima e lo Stato di Israele poi l'espropriazione delle terre palestinesi (spesso accompagnata dall'espulsione delle popolazioni indigene) non è un atto di colonizzazione, tutti gli altri lo considerano tale.

[...]

Il presente: la pulizia etnica e le riparazioni

Se si vogliono emendare i mali del passato, bisogna definire come un crimine, e non più una tragedia o perfino una catastrofe, ciò che è accaduto ai palestinesi dal 1948 in poi. Stabilire il paradigma della pulizia etnica serve a individuare una vittima e un aggressore e, ancor più importante, un meccanismo di riconciliazione.

Esso chiarisce il rapporto tra l'ideologia sionista e le politiche di quel movimento nel passato e di Israele nel presente, entrambi decisi a istituire uno Stato ebraico impossessandosi di un'area quanto più possibile estesa della Palestina storica e lasciandovi il minor numero possibile di palestinesi. Al cuore del conflitto che imperversa dal 1882 vi è sempre stato il desiderio di trasformare la multietnica Palestina in uno spazio etnicamente puro. Questa spinta, mai condannata né ostacolata da un mondo che stava a guardare senza far nulla, portò nel 1948 all'espulsione di 750.000 persone (la metà della popolazione del paese), alla distruzione di oltre 500 villaggi e alla demolizione di decine di città.

Il silenzio del mondo su questo crimine contro l'umanità (l'espressione con cui il vocabolario del diritto internazionale definisce in generale la pulizia etnica) ha fatto della pulizia etnica l'impalcatura ideologica sulla quale è stato edificato lo Stato ebraico. Quest'ultima si innervò nel DNA della società ebraica israeliana, diventando un pensiero fisso per chi era al potere e per tutti coloro che avevano a che fare con le diverse comunità palestinesi controllate da Israele. E fu anche il mezzo per realizzare un sogno che ancora non si era avverato: se gli israeliani non volevano semplicemente sopravvivere ma prosperare, doveva rimanere il minor numero possibile di arabi, qualunque forma di Stato si intendesse istituire.

La pulizia etnica ha guidato le politiche israeliane nel corso dei decenni, non solo ai danni dei palestinesi ma anche nei confronti dei milioni di ebrei arrivati dai paesi islamici e arabi. Se costoro volevano condividere il sogno sionista dovevano essere dearabizzati (cioè perdere ogni legame con la madrelingua e dimostrare concretamente quanto fossero non arabi manifestando ogni giorno il loro odio verso se stessi, cioè verso tutto ciò che era arabo, come ha spiegato Ella Habiba Shohat). Invece di diventare un ponte verso la riconciliazione, gli ebrei arabi ne furono al contrario uno dei maggiori impedimenti.

La tecnica più diffusa di pulizia etnica consiste nell'espulsione e nell'allontanamento, ma in Israele non sempre vi si poteva ricorrere. Questa limitazione costrinse gli israeliani a trovare altri modi per perseguire l'ideale di uno Stato con una schiacciante maggioranza ebraica. Capirono allora che quando non è possibile cacciare qualcuno, gli si può sottrarre la libertà di movimento. Isolare la popolazione nei villaggi e nelle città, impedire qualsiasi espansione degli habitat umani divenne il tratto distintivo della pulizia etnica israeliana dopo il 1948, una tecnica ancora oggi usata con ottimi risultati. Interrogate sul perché non si sia consentita l'edificazione di altre città e villaggi palestinesi tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo (un divieto a favore dell'altro gruppo etnico, che attualmente costituisce metà della popolazione palestinese), la risposta ufficiale delle istituzioni israeliane è che i palestinesi non hanno bisogno di tanto spazio quanto gli israeliani e che anzi sono felici di rimanere incollati alle loro case, senza un libero accesso a zone verdi attorno a loro. In passato, sarebbe bastato sorvolare la Cisgiordania per capire come si presentassero i villaggi palestinesi: dolcemente adagiati sulle colline della Palestina orientale, soavemente immersi nel paesaggio circostante. Oggi invece sono stati soffocati, specie se si trovano nelle vicinanze degli insediamenti ebraici o incastrati tra di loro, come avviene in Galilea. Al contrario gli insediamenti ebraici, su entrambi i versanti della Linea Verde, formano sobborghi molto estesi.

Il rifiuto di rimpatriare i profughi; il giogo militare imposto ai palestinesi rimasti all'interno di Israele (1948-1966); l'occupazione militare della Cisgiordania e il trattamento riservato ai palestinesi che vi abitano; l'erezione del muro segregazionista; i "trasferimenti silenziosi" da Gerusalemme; l'assedio di Gaza e l'oppressione sui beduini nel Naqab: sono tutte fasi o elementi costitutivi di una pulizia etnica tuttora in corso.

[...]

Infine, l'ideologia della pulizia etnica spiega anche la disumanizzazione dei palestinesi; una disumanizzazione che può dare ragione delle atrocità di cui siamo stati testimoni a Gaza nel gennaio del 2009. Essa è il frutto amaro della corruzione morale insinuatasi in Israele con la militarizzazione della società ebraica. I palestinesi sono un obiettivo militare, un rischio per la sicurezza e una bomba demografica. È una delle ragioni principali per cui, dalla fine della Seconda guerra mondiale, la pulizia etnica viene giudicata dalla comunità internazionale un crimine orrendo che può condurre al genocidio: in entrambi i casi, devi disumanizzare la tua vittima se vuoi realizzare il tuo sogno di purezza etnica. Che tu decida di espellere o di massacrare le persone, compresi i bambini, devi ridurle a oggetti, a bersagli militari; non devi considerarli esseri umani.

Chiunque abbia vissuto, come me, per un po' di tempo in Israele sa che la peggiore corruzione dei giovani israeliani è l'indottrinamento che ricevono e che li porta a disumanizzare i palestinesi. In un bambino palestinese un soldato israeliano non vede, appunto, un bambino ma lo identifica con il nemico. Per questo in tutti i documenti militari – che si tratti di quelli in cui si ordinava l'occupazione dei villaggi nel 1948, o quelli che per bombardare Gaza nel 2009 intimavano all'aeronautica di ricorrere alla Dottrina Dahiya (la strategia che doveva servire a sconfiggere Hezbollah nell'attacco contro il Libano nel 2006 con bombardamenti a tappeto sull'eponimo sobborgo meridionale di Beirut, roccaforte degli sciiti) – gli insediamenti civili sono indicati come basi militari. Sin dal 1948, la pulizia etnica in Israele non è mai stata soltanto una scelta politica, ma uno stile di vita; e il fatto che vi si faccia costantemente ricorso rende criminale lo Stato, non soltanto le sue politiche.

[...]

Prendere per buona l'interpretazione sionista della partizione e, più di recente, quella sionista liberale del processo di Oslo, corrompe ogni sentimento umano e umanitario nell'Occidente. La partizione, sia nel 1947 sia nel 1993, ha significato in pratica autorizzare l'imposizione di uno Stato ebraico razzista sul 56 percento della Palestina nel primo caso, e di oltre l'80 percento nel secondo.

Proprio questo tema smaschera l'immoralità e disonestà di molti illustri politici e politologi israeliani e filoisraeliani occidentali: costoro dichiarano, e insegnano, che uno Stato ebraico esteso su gran parte della Palestina, sempre che sussista un'entità palestinese ad esso vicina, è una realtà assolutamente democratica. Una democrazia da difendere con ogni mezzo possibile per salvaguardare la maggioranza ebraica in quella terra. Questi mezzi possono anche contemplare, e così è stato, il genocidio e altre azioni efferate per assicurarsi che quello Stato incarni l'identità etnica di un solo gruppo.

Gli israeliani non trovano del resto strano o inaccettabile che ci si arroghi l'autorità di determinare l'esito del processo democratico stabilendo con la forza a priori la composizione dell'elettorato, così da ottenere il risultato desiderato: uno Stato esclusivamente ebraico in un paese a doppia nazionalità. L'Occidente crede a questa messinscena: Israele è una democrazia perché è la maggioranza a decidere. Peccato che la maggioranza si sia formata grazie alla colonizzazione, alla pulizia etnica e, negli ultimi decenni, alla ghettizzazione dei palestinesi nella Striscia di Gaza, al loro confinamento nelle aree A e B della Cisgiordania, nei villaggi isolati della Grande Gerusalemme, nella valle del Giordano e nelle riserve beduine del Naqab.

[...]

Conclusioni: Palestina e Israele 2014-2020

Per risolvere tutte queste contraddizioni è necessario abbandonare le idee del vecchio fronte pacifista. Se vuole davvero aiutare la Palestina, la comunità internazionale deve appoggiare le iniziative per isolare Israele fino a quando continuerà ad attuare politiche di apartheid, espropriazione e occupazione.

[...]

Osservando ciò che accade sul territorio si percepisce quanto sia inconsistente questo egemonico e ortodosso discorso sulla pace e quanto sia inutile qualsiasi sforzo per resuscitarlo. La sinistra sionista, ad esempio, è scomparsa completamente dalla scena politica israeliana, e le uniche alternative rimangono una coalizione tra la destra e il centro laico oppure tra la destra e gli ebrei ultraortodossi. Né oggi appare probabile la comparsa in Israele di una nuova forza maggioritaria di sinistra. Chi ancora spera in questa eventualità sottovaluta il processo mentale sviluppatosi nella società ebraica israeliana sin dalla nascita dello Stato nel 1948: essa fu messa sotto il rullo compressore dell'indottrinamento, che coagulò le antiche fobie ebraiche per i gentili ostili in Europa con le tipiche ansie colonialiste rispetto agli indigeni, creando una spaventosa versione locale del razzismo. Un razzismo così sedimentatosi non si estirpa facilmente e non scompare da solo, come ha dimostrato il caso dell'apartheid sudafricano.

Si può in realtà trasformare dall'interno una società come quella israeliana grazie a un progetto di istruzione alternativa a lungo termine, alla resistenza attiva e a un'enorme pressione dall'esterno. Tuttavia, l'istruzione alternativa è un processo molto lungo mentre i pericoli immediati derivanti dal fallimento della diplomazia hanno un potenziale così devastante da vanificarne gli sforzi.

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2. Il passato



FRANK BARAT: Quanto è importante il passato per capire il presente? Con sempre maggiore insistenza si chiede ai palestinesi di guardare avanti, di dimenticare il passato, la Nakba del 1948, la questione dei rifugiati. Che cosa ne pensate?

NOAM CHOMSKY: Succede sempre così. È tipico dei potenti dire: «Lasciate perdere, ripartiamo da qui». Che poi in realtà significa: «Ho avuto ciò che volevo, tu lascia perdere i tuoi interessi. Tanto mi prendo ciò che voglio». Vale anche per la questione palestinese. Lasciarsi alle spalle il passato significa tralasciare il futuro, perché il passato contiene aspirazioni e speranze, alcune del tutto condivisibili, che possono essere perseguite nel futuro se opportunamente alimentate. Alla fine è come dire: «Lasciamo perdere le speranze e le aspirazioni, perché abbiamo già ottenuto ciò che volevamo».

ILAN PAPPÉ: Sono d'accordo. Siamo ancora qui a dare la nostra opinione sulla questione palestinese perché in Palestina la devastazione procede da sempre a un ritmo molto più veloce delle proposte messe in campo per trovare una via d'uscita. Questo stallo permane per colpa della posizione monolitica, sempre la stessa da anni, di chi gestisce il cosiddetto processo di pace, di quanti si sono fatti interpreti della realtà palestinese e israeliana e credono di avere la soluzione in tasca. Alla base vi è una ricetta per la pace che si ostina a escludere il passato dal dibattito. Secondo questi mediatori, l'unico passato che conta in un processo di pace è il momento in cui quel processo comincia. Tutto ciò che è accaduto prima è irrilevante. Secondo questo ragionamento, ad esempio, è impensabile smantellare gli enormi insediamenti ebraici presenti da decenni in tutta la Cisgiordania; si può semmai valutare uno scambio di territori, ma non lo smantellamento degli insediamenti già esistenti. Ecco dunque che il passato, agli occhi dei cosiddetti mediatori, diventa un ostacolo, mentre per i popoli oppressi che subiscono l'occupazione il passato è tutto.

NC: Come ho già detto, questo accade ovunque. Così, il presidente Obama invita a dimenticare í crimini che sono stati commessi in passato, l'invasione dell'Iraq, e ad andare avanti. Che poi significa continuare a fare ciò che si è sempre fatto. È l'arma dei potenti.

IP: Verissimo.


FB: Oggi il termine "sionismo" contempla diverse definizioni e interpretazioni, tanto che non se ne conosce più il significato. Potete spiegarci che cosa ha significato il sionismo nella storia?

IP: È vero, il sionismo ha diverse interpretazioni. Una definizione neutra è che si tratta di un'ideologia, ossia di un complesso di idee che orienta l'agire in modo che le azioni siano coerenti con quelle idee. Ciò che più conta, a mio avviso, è l'interpretazione di quell'ideologia da parte di chi detiene il potere, non l'interpretazione asettica che ne danno gli studiosi. A me interessa l'impatto che l'ideologia sionista ha sulla vita concreta delle persone. Osservato da questa prospettiva, il sionismo è un'ideologia che, sin dall'avvio del progetto sionista in Palestina, ha sempre visto nel giudaismo un movimento nazionale con il pieno diritto di possedere la più vasta area possibile della Palestina, con il minor numero di palestinesi; questa era la condizione necessaria per costruire la nuova realtà ebraica. È inevitabile che, se per tanti anni uno Stato fa di un'ideologia simile la sua infrastruttura etica, essa si innervi sempre di più nella vita di un popolo.

In questo non è diversa da tante altre ideologie nazionali o culturali. La sua eccezionalità risiede altrove: il sionismo moderno è un'ideologia di potere pressoché unica nella storia perché è rivolta contro un gruppo di persone ben preciso. Di solito le ideologie hanno un raggio d'azione più vasto; il sionismo invece si focalizza su un obiettivo particolare.

[Se si possa] sostituire il sionismo con un'ideologia più progressista costituisce un'ottima domanda. La cosa migliore, a mio avviso, è che chi ne è vittima e chi vi si oppone si domandi fino a che punto si può progredire sotto la spinta di valori universalmente accettati quali i diritti umani e civili. Infatti, la versione moderna del sionismo viola ed è in contraddizione con i diritti umani e civili fondamentali di chiunque non sia un ebreo israeliano. Più che trovare un'ideologia alternativa, dunque, sarebbe opportuno creare un fronte compatto che reclami il rispetto dei più elementari diritti umani e civili.


FB: Esiste una definizione del sionismo moderno? Chi sono, oggi, i sionisti?

NC: Anche in questo caso bisogna innanzitutto esaminare il passato. Il sionismo dell'epoca precedente alla fondazione dello Stato era una cosa diversa rispetto a quello del periodo posteriore. Dal 1948 in poi il sionismo è diventato l'ideologia e anzi la religione dello Stato, esattamente come l'americanismo o l'eccezionalismo francese. E anche dopo il 1948, la nozione di sionismo ha subito delle modifiche. Nel 1964 trascorsi un po' di tempo in Israele, e ricordo che per gli intellettuali di sinistra il sionismo era una specie di barzelletta, una propaganda da bambini. Appena tre anni dopo, nel 1967, tutto cambiò e quelle stesse persone diventarono dei nazionalisti convinti; vi fu una profonda trasformazione nel modo in cui gli israeliani percepivano se stessi e la fisionomia dello Stato. In sostanza, prima del 1948 il sionismo non era una religione di Stato. Io stesso, a metà degli anni Quaranta, sono stato un leader studentesco sionista, per quanto fermamente contrario a uno Stato ebraico. Ero a favore di una collaborazione tra la classe operaia ebraica e quella araba per la costruzione di una Palestina socialista, ma aborrivo l'idea di uno Stato ebraico. Sono stato un leader studentesco sionista perché allora il sionismo non era una religione di Stato. Ancor prima, mio padre e la sua generazione avevano aderito al sionismo, ma della corrente di Ahad Ha'am: erano alla ricerca di un epicentro culturale in cui la diaspora potesse finalmente convivere con i palestinesi. Questo fermento ebbe fine nel 1948; da quel momento il sionismo divenne in pratica una religione di Stato, che impresse alle scelte politiche un abbrivio ben diverso. È fondamentale tenere a mente questo cambio di rotta. Poi, a metà degli anni Settanta, gli arabi si mostrarono disponibili a un accordo politico. Siria, Egitto e Giordania proposero una soluzione a due Stati al Consiglio di Sicurezza ONU, ma gli USA opposero il veto. In realtà l'Egitto aveva già offerto un pieno accordo di pace con Israele. Fu quindi necessario innalzare nuovi muri per fermare i negoziati, e il concetto di sionismo mutò ancora. La nuova condizione era che tutti dovevano accettare il "diritto di esistere" di Israele. Il punto è che uno Stato non detiene in sé il diritto di esistere. Il Messico non riconosce il diritto di esistere degli Stati Uniti su metà del suo vecchio territorio. Gli Stati si riconoscono reciprocamente, ma non riconoscono l'uno all'altro il diritto di esistere; non esiste un concetto simile. Invece Israele ha innalzato quel muro per pretendere che i palestinesi considerassero legittime le loro politiche di oppressione e di espulsione. Attenzione, non pretendeva solo che se ne riconoscesse la verità storica, ma proprio che quelle azioni fossero giustificate. Naturalmente i palestinesi non lo avrebbero mai accettato; quindi si trattò di un simpatico espediente per bloccare i negoziati. Ora la faccenda è più complicata, e le pressioni per arrivare a un compromesso sono talmente forti che gli israeliani hanno dovuto innalzare ancora di più l'asticella: i palestinesi devono riconoscere Israele in quanto Stato ebraico. Questa è la chiave di volta di tutti i discorsi di Netanyahu. Perché? Perché sanno che è impossibile: nessuno riconoscerebbe Israele in quanto Stato ebraico, così come non riconosceremmo gli Stati Uniti come Stato cristiano. Certo, il Pakistan si autodefinisce uno Stato islamico, ma gli USA non lo riconoscono in quanto tale. Il sionismo di Stato ha dovuto cambiare strada, per elevare muri sempre più alti dinanzi alle diverse proposte di accordo politico. E se in futuro sarà necessario, inventeranno qualcosa di nuovo. Il sionismo in quanto linea politica è un concetto camaleontico, che muta secondo le esigenze dello Stato.

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FB: Vorrei ritornare sulla questione dello Stato ebraico. Se gli ebrei sono un popolo, perché non devono avere uno Stato? E perché non dovremmo riconoscere Israele come uno Stato ebraico?

IP: Non mi risulta che qualcuno abbia mai messo in dubbio il diritto di un popolo di ridefinire se stesso su base nazionale, etnica o culturale. Di certo non ci sono i margini per contestarlo nell'ambito del diritto e dell'etica internazionali, che del resto non metterebbero mai in discussione quel principio in questo momento storico, a prescindere dal modo in cui un determinato gruppo ha definito se stesso in passato (nel nostro caso, su base religiosa).

Il punto è un altro. Qual è il prezzo da pagare per questa metamorfosi, e chi lo deve pagare? Se questa ridefinizione avviene a spese di un altro popolo, allora sì che diventa un problema. Se un gruppo è vittima di un crimine e cerca un rifugio, non può ottenerlo espellendo un altro gruppo dallo spazio che quello ha scelto come rifugio. C'è una bella differenza tra ciò che vuoi e i mezzi che usi per ottenerlo. Il problema non è il diritto degli ebrei di avere un proprio Stato; quella è una questione che riguarda solo gli ebrei. Magari gli ebrei ortodossi possono sollevare qualche obiezione, ma ai palestinesi non importa se gli ebrei creano uno Stato in Uganda, come qualcuno propose nel 1902-1903. A nessun palestinese interessa questo scenario. Il punto è questo: con quali mezzi eserciti il tuo diritto all'autodeterminazione.

NC: L'idea di uno Stato ebraico è un'anomalia. Un fenomeno simile non si è mai verificato in nessuna parte del mondo, e la domanda parte da un presupposto sbagliato. Si prenda la Francia: ci è voluto molto tempo prima che divenisse uno Stato, innumerevoli violenze e repressioni sono state compiute. Invero, tutti gli Stati presuppongono un processo di formazione estremamente violento; infatti l'Europa è stata per secoli la regione più cruenta del pianeta. Ma una volta fondato lo Stato, tutti ne sono cittadini. Non importa chi tu sia: se sei un cittadino francese, sei francese a tutti gli effetti. Se vivi in Israele e sei un cittadino israeliano, non per questo sei ebreo. Il concetto di Stato ebraico è un'anomalia che non ha eguali nel mondo moderno, ed è dunque evidente perché non dovremmo accettarla. Perché dobbiamo acconsentire a un'anomalia unica nel suo genere?

Tutti gli Stati della storia sono nati dalla violenza; non v'è altro modo di imporre una struttura uniforme a persone che hanno interessi, vissuti, lingue differenti. Solo con la violenza si può riuscire nell'intento. Ma una volta che sia stato fondato, chiunque fa parte di quello Stato, quantomeno nei sistemi moderni, è in teoria un cittadino uguale agli altri. Naturalmente non è così nella realtà, ma il principio è quello. In Israele, invece, la situazione è completamente diversa e si fa distinzione tra cittadinanza e nazionalità. Non esiste una nazionalità israeliana, non si può essere semplicemente di nazionalità israeliana. Il problema arrivò nelle aule di tribunale già negli anni Sessanta, ed è riemersa anche di recente: alcuni israeliani volevano che sui loro documenti di identità ci fosse la dicitura "israeliano", non "ebreo". La richiesta arrivò fino alla Corte suprema, che la respinse. Questa vicenda illustra bene quanto sia anomalo il concetto di Stato ebraico, che non trova alcuna corrispondenza nell'attuale sistema politico internazionale.

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FB: Israele sarebbe esistito se non ci fosse stato l'Olocausto?

NC: È un argomento spinoso, ma penso di sì. Erano state create delle istituzioni nazionali – quelle di cui parlava prima Ilan – ed erano solide, c'era una forza militare, un'ideologia, e tutto questo godeva dell'appoggio delle potenze straniere, per diverse ragioni. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti si trattava soprattutto di un sostegno di natura religiosa. Il sionismo cristiano è una realtà molto potente, nata ancor prima del sionismo ebraico, ed è sempre stata un fenomeno elitario: Lord Balfour, Lloyd George, Woodrow Wilson, Harry Truman leggevano tutte le mattine la Bibbia, dove è scritto che Dio ha promesso la terra agli ebrei. Questa era la situazione nelle potenze straniere: il consenso esisteva già, tant'è vero che proprio sotto il mandato britannico nacquero le istituzioni nazionali ebraiche. Dunque la mia ipotesi è che Israele sarebbe nato anche senza l'Olocausto. Va inoltre precisato che negli anni Quaranta l'Olocausto non era una questione di primo piano, tutt'altro; lo divenne soltanto dopo il 1967. Tutti i musei e i progetti di studio sull'Olocausto risalgono agli anni successivi al '67; e fu così in particolare negli Stati Uniti. A questo punto bisogna porsi una semplice domanda. Dopo la guerra si contavano numerosi sopravvissuti al genocidio, e molti di loro vivevano in alcuni campi di concentramento; luoghi non diversi dai campi di sterminio nazisti, a parte il fatto che non c'erano i forni crematori. Da alcuni studi del governo USA, emerse che queste persone vivevano nelle stesse condizioni in cui avevano vissuto durante l'occupazione nazista. Ed ecco la domanda: quanti di loro si trasferirono negli Stati Uniti? Quasi nessuno. Se gli avessero chiesto dove volevano andare, con ogni probabilità avrebbero risposto in America. Metà dell'Europa voleva andare negli USA, soprattutto i sopravvissuti all'Olocausto. Ma non fu così. La verità è che il governo statunitense non li voleva, così come non li voleva la comunità ebraica americana. Furono gli emissari sionisti a prendere il controllo dei campi: la regola era che bisognava far imbarcare per la Palestina tutti gli uomini e le donne abili al lavoro tra i diciassette e i trentacinque anni di età. Il primo libro su questo tema, censurato per molto tempo, è stato pubblicato un paio di anni fa, ed è di Yosef Grodzinsky.

IP: Esiste solo in lingua ebraica, giusto?

NC: No, ne esiste anche una versione inglese, ma è stata talmente boicottata che nessuno ne sa nulla. È difficile da trovare, ma esiste. In inglese il libro è stato pubblicato con il titolo In the Shadow of the Holocaust, ma il titolo originale ebraico significa "ottimo materiale umano". L'idea di fondo è che quell'"ottimo materiale umano", i sopravvissuti, sarebbero poi diventati carne da macello. Nessuno si occupò della questione, ma di sicuro quelle persone avrebbero preferito venire negli Stati Uniti. Ecco che cosa significò l'Olocausto in quel periodo, e lo si intuisce anche dalla propaganda dell'epoca; Truman, ad esempio, fu glorificato per aver praticamente costretto i britannici a mandare gli ebrei in Palestina. Nessuno si chiede come mai Truman non propose di accogliere un centinaio di migliaia di ebrei negli USA. In fondo, gli Stati Uniti erano il luogo che avrebbe potuto accoglierli con più facilità. Gli Stati Uniti possono accogliere chiunque, non avendo un'alta densità di popolazione ed essendo il paese più ricco del pianeta. Non lo fecero perché è vero che l'Olocausto serviva a demonizzare il nemico, ma per il resto non era un concetto che rivestisse una grande importanza. Quando uscì la prima ricerca accademica sull'Olocausto, realizzata da Raul Hilberg, fu demolita; non volevano che si rimestasse in quella vicenda.

[...]


NC: Hai ragione. Peraltro, questo ci svela un altro elemento importante della cultura occidentale. Quando costoro andarono nei campi di concentramento rimasero sconcertati, ma il loro primo pensiero non fu di salvare i sopravvissuti, bensì che qualcun altro doveva pagare il prezzo della loro salvezza.

IP: Esatto.

NC: Tutto questo deriva dalla mentalità profondamente imperialista che affligge l'Occidente. All'epoca, pur rendendosi conto che quelle persone si trovavano in condizioni disperate e che avrebbero potuto aiutarle, agli occidentali non venne in mente nemmeno per un momento di farlo: qualcun altro, che al contrario non era in condizioni di aiutarle, se ne sarebbe dovuto fare carico.


FB: Si trattò solo di una scelta imperialista, o in parte ciò fu dovuto all'antisemitismo occidentale?

NC: Sionisti o meno, avrebbero reagito nello stesso modo.

IP: Sono d'accordo.

NC: Si pensi agli Stati Uniti, che sono l'esempio più eclatante. Dopo la seconda guerra mondiale, si creò una situazione unica; c'era qualche pressione da parte sionista, ma non contava niente. Semplicemente, non li volevano, e nemmeno la comunità ebraica americana li voleva.


FB: Tutto questo era frutto di antisemitismo?

NC: Sì, era dovuto in parte all'antisemitismo ma, in generale, «perché dovremmo farci carico di questo fardello?».

IP: Né loro né nessun altro: non ci dovevano essere ebrei.

NC: Nel 1924 fu emanata negli Stati Uniti una legge per limitare l'ingresso nel paese di ebrei e italiani. Non era spiegato il motivo, si parlava soltanto di persone dall'Europa orientale, sudorientale e meridionale.

IP: La patologia del sionismo è fondamentale per comprendere il quadro generale. Volendo osservare la situazione da una prospettiva storica, non va dimenticato che nessuno sapeva ciò che sarebbe successo. Quando si ripercorre il dibattito sionista degli anni Trenta sul nazismo e il fascismo, bisogna ricordare che queste persone non sapevano nulla della "soluzione finale". Non erano terrorizzati, anzi ritenevano che si dovesse dialogare con i nazisti, visto che gli interessi convergevano: i nazisti volevano gli ebrei fuori dalla Germania, ma lo volevano anche i sionisti. Ecco perché avviarono addirittura dei negoziati. Con questo non si vuol certo associare il sionismo al nazismo; ma c'erano anche altri fronti in campo, e costoro avrebbero dovuto chiedersi quali interessi stavano servendo, oltre ai propri. È fin troppo ovvio.

NC: Sì, è impressionante. È vero: non bisogna dimenticare che negli anni Trenta nessuno sapeva quello che stava succedendo, e questo valeva anche per gli ebrei tedeschi. In un libro del 1935 intitolato Wir Juden, l'umanista sionista Joachim Prinz sosteneva che gli ebrei avrebbero dovuto solidarizzare con i nazisti perché condividevano lo stesso tipo di ideologia: il Sangue, la Terra e così via. Insomma, qualcosa del tipo: «Siamo d'accordo con loro, se soltanto riusciamo a fare loro comprendere che siamo dalla stessa parte smetteranno di perseguitarci». Questo era il clima nel 1935. E in effetti nel 1941, prima di Pearl Harbor, il console americano a Berlino inviava note positive sui nazisti. Il suo nome era George Kennan, ed è stato uno degli architetti dell'ordine mondiale nel dopoguerra.

IP: Sì, Kennan, lo stratega americano secondo il quale per mantenere il loro stile di vita gli USA avrebbero dovuto controllare il 50 percento delle risorse naturali mondiali.

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FB: Professor Chomsky, in una precedente intervista lei mi ha detto che le politiche israeliane porteranno Israele all'autodistruzione. Ad esempio, ha raggiunto livelli assurdi la scelta di portare in Israele quanti più ebrei possibile, indipendentemente dalla loro "effettiva" evraicità: ebrei russi, ebrei etiopici... Questo, tra l'altro, alimenta in modo preoccupante e problematico il razzismo intestino, tra gli ebrei charedì, gli aschenaziti, i mizrhai ecc. Ci può dare una sua opinione?

NC: Quel che avviene tra gli ebrei è certamente uno degli aspetti del problema. Ma a me preme sottolineare un altro dato. Nel 1971 Israele fece una scelta che a mio avviso segnò per sempre il suo destino: l'Egitto propose un pieno accordo di pace, ma il governo israeliano guidato allora da Golda Meir lo respinse perché voleva colonizzare il Sinai. Per gli israeliani si trattava di scegliere tra la sicurezza e l'espansione. Un trattato di pace con l'Egitto, checché se ne possa pensare, avrebbe garantito la sicurezza, anzi una sicurezza durevole, visto che quel paese era all'epoca l'unica potenza militare araba di rilievo. Gli israeliani ne erano consapevoli ma preferirono espandersi nel Sinai. Fu una decisione fatale, e da allora è sempre stato così: da quel momento in poi Israele ha sempre preferito l'espansione alla sicurezza. Dunque, gli israeliani hanno imboccato la stessa strada intrapresa dal Sudafrica segregazionista, e la conseguenza immediata sarà la medesima: Israele sarà sempre più isolato, uno Stato paria, sarà delegittimato, proprio come il Sudafrica, e riuscirà a sopravvivere solo fino a quando gli USA continueranno ad aiutarlo. La storia del Sudafrica è esemplificativa: basta sostituire il nome del paese e si avrà l'identico copione. Intorno al 1960, il regime segregazionista si rendeva già conto di essere isolato a livello internazionale. Grazie ad alcuni documenti desecretati, è emerso che il ministro degli Esteri sudafricano chiamò l'ambasciatore USA per dirgli che il suo paese era consapevole che tutti votavano contro di lui, ma che gli importava ben poco finché ci fossero stati gli Stati Uniti ad appoggiarlo. E infatti così fu: nel 1988, e anche dopo, gli USA continuarono ad aiutare il Sudafrica. Anche la Thatcher lo faceva, ma erano soprattutto Reagan e gli Stati Uniti a sostenere il paese. Non appena le politiche statunitensi cambiarono, l'apartheid crollò. Israele sta seguendo la stessa parabola: ormai riceve aiuto praticamente soltanto dagli USA, e va perdendo legittimità. Naturalmente questo è fonte di preoccupazione, ma per il momento continua così. Fa parte della logica espansionista ignorare l'opinione pubblica mondiale e violare il diritto internazionale: si può tirare avanti finché c'è il bullo del quartiere a proteggerti. Ma ormai anche quella è una garanzia debole, perché pure negli USA il sostegno a Israele va scemando, proprio come avvenne per il Sudafrica. Anche se negli Stati Uniti il movimento antiapartheid non nacque prima degli anni Ottanta, ossia vent'anni dopo l'Inghilterra, esso divenne molto potente e influì sul cambio di rotta del governo americano.

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4. Il futuro



FB: Una Primavera israeliana è possibile?

NC: La mentalità e la politica israeliana, soprattutto negli ultimi dieci anni, hanno virato a destra, verso il nazionalismo e l'estremismo, arroccandosi sulle proprie posizioni, un po' com'è avvenuto nell'ultima fase del regime sudafricano. «Il mondo ci odia perché tutti sono antisemiti, perciò noi facciamo quel che vogliamo»; non è mai colpa loro, sono sempre gli altri a sbagliare. E intanto compiono le peggiori efferatezze, talvolta davvero inimmaginabili. Penso ad esempio alle scene a cui abbiamo assistito durante l'operazione "Piombo Fuso", con gli israeliani seduti in spiaggia o appostati sulle colline ad applaudire ogni volta che cadeva una bomba su Gaza. Una vera indecenza. Purtroppo, però, è un sentimento che appartiene a gran parte della popolazione. Esistono naturalmente anche delle spinte opposte, ma per quel che ne so sono troppo deboli. Si prendano le proteste di viale Rothschild a Tel Aviv: a prima vista possono somigliare alla rivolta degli "indignati", ma a ben guardare sono molto più limitate, del tipo: «Voglio qualcosa di meglio per me, voglio riuscire ad avere un appartamento». Non è un caso che gli organizzatori abbiano deciso di non fare alcun accenno ai palestinesi, quindi quella protesta serviva solo a strappare qualche concessione e a migliorare il proprio stile di vita. La società israeliana è passata da un modello socialdemocratico simile a quello scandinavo a una versione estrema del neoliberismo, o meglio a una caricatura del neoliberismo, come negli Stati Uniti, con profonde disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e dei privilegi. Poi però si cerca in tutti i modi di attirare i giovani occidentali e la cultura giovanile sbandierando lo stile di vita laico di Tel Aviv, dove ad esempio ci sono molti locali per omosessuali, e anzi potrebbe diventare la capitale gay per eccellenza del Mediterraneo.

La deriva della società israeliana è preoccupante, e in un certo senso sta diventando una società suicida. Gli israeliani temono la "delegittimazione", e in effetti è un'ipotesi plausibile; ma sono loro che hanno scelto di delegittimare se stessi. Sono convinto, come ho già detto, che tutto questo sia il risultato inevitabile della scelta fatta nel 1971, quando gli israeliani rinunciarono alla sicurezza per l'espansione; da quel momento si sono succeduti una serie di eventi non dico ineluttabili ma certamente prevedibili. E questo processo è ancora in corso: ci sono state delle piccole evoluzioni nel regime repressivo verso i palestinesi, ma non so quanto possano davvero incidere in futuro. Un esempio lo si ritrova nelle leggi che riguardano la terra, le più razziste in assoluto. Finora circa il 92 percento dei terreni della Palestina è stato gestito dal Keren Kayemeth, il Fondo Nazionale Ebraico, un ente parastatale incaricato di operare esclusivamente a vantaggio delle «persone di razza, religione e origine ebraica» (le parole usate sono proprio queste), il che significa che tutto il ginepraio di disposizioni, strutture amministrative e burocrazia attribuiva in pratica il controllo di oltre il 90 percento della terra agli ebrei, liberandola dagli arabi. Di recente, si è aperta una falla in quel sistema: circa quindici anni fa, la Corte suprema ha invalidato questo principio con una decisione su uno specifico insediamento. La Corte stabilì che non si potevano estromettere gli arabi, e circa cinque o sei anni dopo la coppia di arabi coinvolta nella vicenda giudiziaria poté finalmente ritornare nella terra che era stata confiscata. Purtroppo non mi risulta che quella sentenza abbia avuto ricadute positive su altre controversie simili, e intanto in Parlamento si vuol far passare una legge per annullare tutto. Questo ci fa capire quanto siano inamovibili le politiche israeliane; ma si possono enumerare molti altri episodi per me sconvolgenti. Ad esempio, ho saputo di recente da Ruchama Marton, una donna straordinaria che è a capo dell'organizzazione Israeli Physicians for Human Rights, che negli ospedali israeliani le cittadine palestinesi devono essere ricoverate in un reparto maternità separato da quello delle ebree. Cose del genere sono all'ordine del giorno.

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FB: In base a quel che avete detto finora mi pare di capire che per lei, professor Pappé, la nuova realtà è già, di fatto, un regime unico, un sistema politico unico che governa sia i palestinesi sia gli ebrei israeliani, un'entità statuale unica; dunque lei ci sta esortando a impegnarci per cambiare la natura di quel sistema, le sue regole, le sue leggi interne ecc. Invece per lei, professor Chomsky, che ha difeso per anni l'idea di uno Stato comune, o unico, o a doppia nazionalità, ora bisogna orientarsi verso la soluzione a due Stati per ragioni di consenso, per arrivare in seguito a un unico Stato?

NC: Sì, perché per come la vedo io Israele e Stati Uniti non accetteranno mai la soluzione a uno Stato. Dal loro punto di vista esiste un'alternativa migliore, che è quella che ho appena descritto, ossia assumere il controllo su tutta l'area e creare un Grande Israele in cui rimangano pochi palestinesi, di sicuro una percentuale molto inferiore rispetto ad oggi. I palestinesi andranno altrove, i loro insediamenti saranno al di fuori di quest'area. L'unica alternativa pensata per loro, secondo me, è andare in malora, oppure scegliere di fuggire. Nascerà a quel punto una struttura tipicamente neocoloniale, con un grosso centro per le classi elevate; gli occidentali in visita a Ramallah ci troveranno belle case, teatri, locali, e vedranno quant'è bella la Palestina. Del resto è così in tutti i paesi del Terzo Mondo: anche nella nazione più povera dell'Africa centrale esistono delle aree pensate apposta per le élite, non diverse dai quartieri di Parigi o di Londra. Negli anni Novanta, gli industriali israeliani chiesero esplicitamente al governo di abbandonare il modello coloniale, come essi stessi lo definirono, per adottarne uno neocoloniale, ossia un'entità con queste caratteristiche da Terzo Mondo: la maggioranza della popolazione poverissima, ma un grosso centro per i palestinesi ricchi, i privilegiati, le élite. Se questo progetto dovesse tradursi in realtà, allora ci saranno due possibilità: o rimarranno pochissimi palestinesi, e il resto andrà altrove, oppure nasceranno due Stati. Quella a due Stati è una soluzione ormai degradata, ma almeno ha il merito di contare su un enorme appoggio internazionale; certo, è in stallo da trentacinque anni per colpa degli Stati Uniti, ma almeno riscuote consenso. Non credo che gli insediamenti siano un fatto irreversibile.

[...]

La soluzione a uno Stato può essere un'idea da coltivare nella mente, ma al momento non mi sembra un'opzione concreta. Secondo me sono queste due le scelte in campo, ed è fuorviante che qualcuno, in qualsiasi ambiente – che sia lo Shin Bet, la dirigenza palestinese o gli analisti stranieri – parli come se la scelta fosse tra i due Stati o lo Stato unico. Non è questa l'alternativa: la scelta è tra il Grande Israele o i due Stati. E nel Grande Israele non sono contemplati i palestinesi, o ve ne sono molto pochi.

IP: Io la vedo un po' diversamente. Secondo me, alla luce degli equilibri di potere sul territorio e delle relazioni di Israele con gli Stati Uniti e la comunità internazionale, è inevitabile che la soluzione a due Stati sarà realizzata più o meno secondo le modalità gradite a Israele.

La versione israeliana corrisponde, appunto, al Grande Israele. Sebbene in teoria la comunità internazionale appoggi una soluzione con due Stati diversi, il risultato finale sarà sicuramente che le due entità saranno indistinte. La differenza risiederebbe nella legittimazione internazionale e nell'indipendenza simbolica di cui godrebbero i palestinesi, che potrebbero persino esporre qualche vessillo nazionale, ma le relazioni tra israeliani e palestinesi non cambierebbero nella sostanza.

Non mi pare logico appoggiare un accordo che finirebbe col legittimare di fatto il Grande Israele. Nel 2014, la soluzione a due Stati punta ormai a un unico obiettivo, ossia la legittimazione a livello mondiale di questo compromesso: la comunità internazionale cerca qualcuno, come Abu Mazen, che accetti la versione israeliana della soluzione a due Stati. Se questo dovesse verificarsi, il Grande Israele potrà perpetuarsi grazie a quella legittimazione.

Sono convinto che occorra invece contrapporre al Grande Israele, che di fatto esiste già, una campagna per promuovere il cambio di regime basata sull'uguaglianza dei diritti civili, e sperare che vi siano degli sviluppi a livello regionale e internazionale che lo portino a maturazione. L'atteggiamento della comunità internazionale ricorda quella vecchia storiella ebraica del tizio che cerca la chiave non dove l'ha persa, ma dove c'è più luce.

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IP: Anche se può suonare strano, secondo me un risvolto positivo c'è, e cercherò di spiegarlo. È evidente che il modello del Sudafrica post apartheid non si possa applicare in Israele: non si può convincere gli israeliani a rinunciare alla loro ideologia razzista semplicemente prospettando dei vantaggi economici. Non funzionerebbe. L'apartheid, se possiamo chiamarla così, o l'ideologia razzista israeliana ha una matrice molto più religiosa e dogmatica rispetto al suprematismo bianco del Sudafrica. Sebbene anche il suprematismo avesse le sue chiese e le sue giustificazioni teocratiche e religiose, esso serviva fondamentalmente a mantenere [intatti] i privilegi, e una volta che questi furono messi al sicuro anche nel sistema post apartheid fu facile guadagnarsi il sostegno di una larga fetta della popolazione bianca; tutto questo in Israele non funzionerebbe. Non è possibile convincere, ad esempio, l'industria tecnologica che per preservare la sua ricchezza debba operare in un sistema più democratico. In che cosa consiste allora il risvolto positivo? Per quanto io sia pessimista sulla volontà delle giovani generazioni di costruire un mondo migliore, nel XXI secolo quello scenario è troppo spudoratamente deplorabile e inaccettabile. Il mondo si accorgerà dell'esistenza di una società segregazionista mossa esclusivamente da un'ideologia razzista, e sarà più facile vedere come stanno realmente le cose. Ecco perché la diversa situazione rispetto al Sudafrica può tornare utile.

NC: Non so se dico una cosa diversa, ma io insisterei sul fatto che la differenza cruciale tra Israele e Sudafrica è che Israele è separazionista, mentre il Sudafrica non lo era. Il Sudafrica doveva incorporare anche la popolazione di colore; Israele invece vuole sbarazzarsi dei palestinesi. E può riuscirci tracciando i confini attorno al Grande Israele ed espellendo i palestinesi che vi abitano. Ciò che di fatto stanno già facendo, lentamente, è creare passo dopo passo un'entità mostruosa – il Grande Israele – in cui rimarranno pochissimi palestinesi. Il compromesso sudafricano non è praticabile in Israele.

IP: No, infatti. In Israele non è possibile.

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5. Viaggio al centro di Israele



FB: Ilan, lei è uno storico, ha pubblicato numerosi libri, tra cui l'ormai celebre, e per taluni controverso, La pulizia etnica della Palestina, del 2006. Nel 2007 si è trasferito in Inghilterra, dove insegna storia all'Università di Exeter. Fa parte dei cosiddetti "nuovi storici", che analizzano e raccontano in modo nuovo la storia del sionismo e della nascita di Israele. In più di un'occasione ha assunto una posizione netta contro lo Stato di Israele. Quando e perché ha deciso di stare dalla parte dei palestinesi? E quali sono state le ripercussioni per lei, che è israeliano?

IP: Modificare il proprio punto di vista su una questione di così cruciale importanza è il frutto di un lungo viaggio, non avviene da un giorno all'altro o per un singolo evento. In uno dei miei libri, Controcorrente, ho cercato di descrivere questa fuga dal sionismo e l'approdo a una posizione critica nei suoi confronti. Dovendo scegliere un evento epifanico che ha ribaltato la mia prospettiva, è stato certamente l'attacco israeliano al Libano del 1982. Per chi, come me, è cresciuto in Israele, quella fu la prima guerra non concordata, frutto di una scelta deliberata: Israele non era stato attaccato, Israele attaccava. E dopo scoppiò la prima Intifada.

[...]

FB: Può tracciare un profilo storico del primissimo caso di Intifada, quello di fine anni Trenta, e della rivolta contro l'imperialismo britannico?

IP: Bisogna risalire ai decenni precedenti al 1936 per capire il fenomeno, ossia alla fine del XIX secolo, quando nacque il movimento sionista. Esso aveva due nobili scopi: trovare un luogo in cui gli ebrei non si sentissero più minacciati dall'antisemitismo che andava affermandosi, e ridefinire la propria ebraicità su base nazionale, non più soltanto religiosa. Il problema sorse quando costoro scelsero la Palestina per realizzare le loro aspirazioni: era ovvio che, essendo quella terra già abitata, si dovessero imporre con la forza, contemplando anche la possibilità di espellere la popolazione indigena. Tuttavia, la comunità palestinese non si rese subito conto che il piano era quello. Nemmeno con la Dichiarazione Balfour del novembre del 1917 la popolazione prese coscienza di quanto stava avvenendo, cosicché i palestinesi non si ribellarono alle politiche britanniche e alla strategia sionista. Nel 1936 quella strategia diede i suoi primi frutti: í palestinesi furono espulsi dalla terra che nel frattempo era stata acquistata dal movimento sionista, e si ritrovarono disoccupati perché i sionisti avevano assunto il controllo del mercato del lavoro. Allora fu chiaro che la questione ebraica dell'Europa sarebbe stata risolta in Palestina. Furono questi eventi a far reagire i palestinesi, che provarono per la prima volta a ribellarsi. Per sedare le rivolte fu necessario l'intervento dell'impero britannico; ci vollero tre anni e si ricorse a una serie di misure altrettanto violente di quelle usate dagli israeliani per reprimere l'Intifada del 1987 e quella del 2000.


FB: Quella del '36 fu una vera rivolta popolare: furono i fellah, i contadini, a imbracciare le armi. Leggendo i suoi libri; ho capito tra l'altro che la repressione violenta di quella rivolta facilitò il compito all'organizzazione sionista Haganah nel 1947-48. In quel periodo, infatti, i palestinesi erano deboli perché tutti i leader e i potenziali combattenti erano stati ammazzati o erano andati in esilio nel 1936.

IP: Esatto. I vertici politici palestinesi abitavano nelle città, ma le principali vittime del sionismo fino agli anni Trenta vivevano nelle campagne; per questo la rivolta scoppiò lì, anche se vi parteciparono anche alcuni elementi dell'élite urbana. Sì, in uno dei miei libri ho scritto che gli inglesi uccisero o imprigionarono molte figure della dirigenza palestinese politica e militare, o potenzialmente militare. In questo modo crearono i presupposti perché la società palestinese si ritrovasse assolutamente indifesa quando, nel 1947, i sionisti, sapendo che di lì a poco sarebbe terminato il mandato britannico, avviarono le prime operazioni. Anche per questo i palestinesi non furono in grado di opporsi, un anno dopo, alla pulizia etnica della Palestina.


FB: La sua ricerca storica ha contribuito a sfatare molti miti su Israele. Uno di questi è che esso sia nato perché nella Bibbia c'è scritto che doveva essere dato al popolo ebraico. Può dirci qualcosa su Theodor Herzl, uno dei fondatori del sionismo? Herzl non era religioso e non parlava neanche l'yiddish.

IP: È così. Nel sionismo era insita una componente spesso trascurata dagli storici, ossia la volontà di secolarizzare la realtà ebraica. Se però l'obiettivo era la secolarizzazione della religione ebraica, non si poteva poi ricorrere alla Bibbia per giustificare l'occupazione della Palestina; uno strano guazzabuglio, che a me piace definire come "un movimento di persone che non credono in Dio ma a cui Dio ha promesso la Palestina". A mio avviso questa contraddizione è alla radice dei problemi interni che affliggono la società ebraica israeliana ancora oggi. Va inoltre precisato che prima ancora di Herzl diverse figure professavano il sionismo, e tuttavia riconoscevano la presenza dei palestinesi in Palestina. Costoro immaginavano un rapporto completamente diverso con la Palestina e soluzioni alternative al problema dell'incolumità degli ebrei in Europa; tra questi, Ahad Ha'am (pseudonimo di Asher Ginzberg), per il quale la Palestina sarebbe dovuta essere l'epicentro spirituale degli ebrei e questi, qualora si fossero sentiti minacciati in Europa, avrebbero dovuto trasferirsi al di fuori del continente oppure insediarsi in società europee più sicure. Ma a sabotare questa visione ci pensarono i sionisti cristiani – già all'epoca una comunità potente –, convinti com'erano che il ritorno degli ebrei in Palestina facesse parte del disegno divino. I sionisti cristiani volevano il ritorno degli ebrei in Palestina in primo luogo perché ciò avrebbe accelerato la seconda venuta del Messia, e poi perché erano antisemiti. Insomma, "due piccioni con una fava", visto che si sarebbero anche liberati della presenza degli ebrei in Europa. È importante capire che cosa avvenne alla fine del xix secolo, perché in quell'epoca un concorso di forze – l'imperialismo britannico, il sionismo cristiano e naturalmente il nazionalismo ebraico – esercitò una pressione tale da lasciare ben poco margine d'azione ai palestinesi.


FB: Come ha ricordato lei, non va trascurato il ruolo dell'antisemitismo. A rileggere le loro dichiarazioni, Lord Balfour e molti altri politici del tempo volevano gli ebrei in Palestina perché non li volevano né in Inghilterra né in nessuna nazione europea.

La storia è fondamentale. Abbiamo appena parlato del sapere e del modo in cui viene trasmesso. Può dirci in che modo la storia e la cultura, se opportunamente trasmesse, possono emancipare le persone e magari anche far progredire la lotta?

IP: Lo abbiamo già evidenziato. Senza una prospettiva storica e la conoscenza dei fatti, si accoglierà l'immagine negativa che gli israeliani e il mondo hanno dei palestinesi. Dal punto di vista degli israeliani e di alcuni paesi dell'Occidente, il cosiddetto terrorismo palestinese nasce dal nulla e ci si chiede perché quelle persone siano così violente, magari perché sono musulmani o perché fa parte della loro cultura politica. Solo se si ha una comprensione storica si può ribattere: «Un momento, io so da dove nasce la violenza, qual è la sua radice. Trasferirsi con la forza in casa d'altri è un atto di violenza. Forse hanno torto a reagire a loro volta con la violenza, o forse no, ma tutto è cominciato quando il loro spazio, il luogo in cui vivono, è stato invaso. Quell'invasione presupponeva che sarebbero stati espulsi... Che altro potevano fare?». In primo luogo, la dimensione storica serve a capire perché il conflitto continua. In secondo luogo, da un punto di vista politico, non si riuscirà mai a modificare l'approccio alla questione palestinese se non si spiega com'è stato manipolato il sapere; è importante, ad esempio, capire l'uso di espressioni come "processo di pace", o la diffusione da parte dei media di certe idee, ad esempio quella di Israele come "l'unica democrazia del Medio Oriente", o quella sull'"arretratezza palestinese" ecc. Questo lessico è uno strumento di manipolazione del sapere che serve a formare un punto di vista ben preciso e a impedire che venga alla ribalta un pensiero dissenziente.

Dunque il compito è duplice: si deve conoscere la storia di quella terra, ma anche capire com'è stata elaborata quella narrazione e com'è stata strumentalizzata. Solo allora ci si può interrogare sui modi per contrastare questa spinta. Nucleo centrale della nuova narrazione, propagandato finora con successo dagli israeliani, è che quella terra, per quanto non deserta, era abitata da persone che non avevano con essa un vero legame e non erano quindi legittimate a viverci. Prima non erano legittimate perché non se ne ammetteva la presenza fisica; poi perché erano un po' beduini, un po' nomadi e quindi non avevano un interesse reale a stare lì; poi perché erano violenti; infine, dopo l'11 settembre, perché sono musulmani. Ogni epoca ha le sue espressioni per convincere la gente che qualunque cosa facciano gli israeliani, giusta o sbagliata che sia, non fa differenza perché la controparte non è legittimata a proporre alcunché, e dunque tutto dipende dalla generosità degli israeliani. Analizzando il linguaggio dei processi di pace a partire da Oslo – anche prima, in verità, ma da Oslo il fenomeno si è accentuato – si noterà che è tutto incentrato sulle concessioni di Israele. La parola chiave è "concessione": gli israeliani faranno delle concessioni ai palestinesi e solo allora si aprirà uno spiraglio per la pace.

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6. Viaggio al centro degli Stati Uniti



FB: Qual è la definizione di negoziato nel linguaggio ísraelo-statunitense e perché l'Autorità Palestinese continua a stare al gioco?

NC: Dal punto di vista degli USA, i negoziati sono il mezzo con cui Israele può continuare a impadronirsi di altre porzioni di territorio in Cisgiordania, tenere sotto assedio Gaza, separare quest'ultima dalla Cisgiordania e, naturalmente, occupare le alture del Golan, che sono siriane; tutto questo, appunto, con il sostegno degli Stati Uniti. Negli ultimi vent'anni, fin dall'esperienza di Oslo, i negoziati sono stati il paravento istituzionale dietro cui occultare queste politiche.

FB: Perché l'Autorità Palestinese sta al gioco e continua a partecipare ai negoziati?

NC: Probabilmente questo atteggiamento nasce in parte dalla disperazione. Noi possiamo chiederci se sia una scelta opportuna, ma loro non hanno molte alternative.

FB: Dunque secondo lei accettano quel paravento per poter sopravvivere?

NC: Se dovessero rifiutarsi di partecipare ai negoziati gestiti dagli USA non riceverebbero più alcun aiuto; non va dimenticato che i palestinesi vivono soprattutto di donazioni. Israele ha fatto in modo che l'economia palestinese sia improduttiva. È una società che in yiddish sarebbe definita schnorrer ['mendicante']: continui a prendere in prestito e vivi alla meno peggio.

Non è chiaro se abbiano un'alternativa, ma se dovessero respingere la richiesta di negoziato degli Stati Uniti, pur con le sue inaccettabili condizioni, verrebbero meno i presupposti per continuare a ricevere aiuti. E in effetti ne ricevono parecchi – dall'estero – tanto che le élite palestinesi vivono in modo dignitoso, anzi spesso nel lusso, mentre la società attorno a loro collassa.

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8. Breve storia del genocidio
progressivo di Israele
di Ilan Pappé



In un articolo pubblicato nel settembre del 2006 per «The Electronic Intifada», definii la strategia israeliana nella Striscia di Gaza come un genocidio progressivo.

L'offensiva del 2014 dimostra purtroppo che quella politica continua indisturbata. L'espressione "genocidio progressivo" serve a inquadrare le barbarie israeliane – passate e presenti – in un contesto storico più ampio.

Il popolo di Gaza e di altre aree della Palestina è deluso dall'assenza di un'incisiva risposta internazionale alla morte e alla devastazione che l'operazione israeliana ha lasciato dietro di sé nella Striscia di Gaza, ma Israele ha elaborato una narrazione convincente per giustificare quel massacro: è una tragedia causata da un attacco missilistico, non provocato, di Hamas contro lo Stato ebraico; un'aggressione alla quale Israele aveva il dovere di reagire per legittima difesa.

Pur avendo delle riserve sull'uso sproporzionato della forza da parte di Israele, il mondo mediatico, accademico e politico occidentale accetta il principio di fondo di quella argomentazione. La propaganda israeliana è invece rigettata dal cyberattivismo e dai media alternativi, che condannano unanimemente questa offensiva definendola un crimine di guerra.

[...]

Per un po', dopo il 1967, Israele provò a tenere la Cisgiordania come un unico distretto che forniva manodopera non qualificata, priva però di diritti umani e civili; ma quando il popolo sotto occupazione si ribellò all'oppressione, con la prima e la seconda Intifada, allora la suddivise in piccoli bantustan accerchiati dalle colonie ebraiche. Questa strategia non poteva funzionare nella Striscia di Gaza, troppo piccola e densamente popolata; gli israeliani, insomma, non riuscirono ad applicare il modello "Cisgiordania" alla Striscia di Gaza. Così decisero di recintarla come un ghetto, e quando la popolazione si ribellò l'esercito fu autorizzato a usare le armi più letali per sedare le rivolte. L'esito inevitabile del concatenarsi di reazioni così violente è il genocidio.

Il 15 maggio 2014, le forze israeliane hanno ucciso due ragazzi palestinesi nella città cisgiordana di Beitunia; quell'omicidio a sangue freddo da parte dei cecchini è stato immortalato in un video. I loro nomi – Nadim Nuwara e Muhammad Abu al-Thahir – si aggiungono alla lunga lista di morti degli ultimi mesi e anni.

Nel giugno successivo tre adolescenti israeliani, di cui due minorenni, sono stati rapiti e poi ammazzati in Cisgiordania, forse come rappresaglia per l'uccisione di bambini palestinesi. Malgrado tutte le aggressioni del regime di occupazione, quell'episodio è bastato come pretesto per distruggere la fragile unità che andava costruendosi in Cisgiordania anche grazie alla decisione dell'Autorità Palestinese di rinunciare al "processo di pace" e chiedere agli organismi internazionali di giudicare Israele secondo il criterio del rispetto dei diritti umani e civili. Questi due fatti avevano infatti destato allarme in Israele.

Il rapimento e l'assassinio dei tre ragazzi hanno fornito anche l'appiglio per realizzare il vecchio sogno di spazzare via Hamas da Gaza, in modo da far stare di nuovo tranquillo il ghetto.

Sin dal 1994, prima ancora dell'ascesa al potere di Hamas, gli israeliani avevano capito che, data la particolare posizione geopolitica della Striscia, l'unico mezzo per una punizione collettiva (come quella inflitta nel 2014) sarebbe stato ricorrere a stragi e devastazioni indiscriminate: in altre parole, a un genocidio costante.

Questa terribile consapevolezza non ha mai impedito ai generali al comando di ordinare i bombardamenti sulla popolazione da terra, dal mare e dal cielo. In fondo, ridimensionare il numero di palestinesi nella Palestina storica rimane tuttora il sogno sionista. E a Gaza questo obiettivo viene perseguito nei modi più disumani.

Questa nuova ondata genocidiale, come quelle passate, presenta alcuni fattori specifici. In Israele covano ancora le rivolte interne scoppiate nel 2011, con la popolazione che chiedeva il taglio delle spese militari per dirottare i soldi dall'enorme bilancio per la "difesa" ai servizi sociali. Secondo l'esercito un'eventualità del genere sarebbe suicida; non c'è niente di meglio, quindi, di un'operazione militare per mettere a tacere le voci che chiedono al governo di tagliare la spesa militare.

Tutti i tratti presenti nelle precedenti tappe del genocidio progressivo compaiono anche in questa nuova offensiva. Ancora una volta, ad esempio, si deve tener conto del consenso pressoché unanime degli ebrei israeliani al massacro di civili nella Striscia di Gaza, senza voci dissenzienti di rilievo. Quei pochi che hanno osato protestare a Tel Aviv sono stati picchiati dagli hooligan ebraici, con la polizia che stava a guardare.

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9. Incubo a Gaza
di Noam Chomsky



L'obiettivo dell'ultima, feroce offensiva israeliana contro Gaza è semplice: la "quiete in cambio di quiete", ossia il ritorno alla norma.

In Cisgiordania, la norma è che Israele costruisca illegalmente nuovi insediamenti e infrastrutture in modo da inglobare tutto quello che ritiene di valore, condannando così i palestinesi a rimanere in cantoni invivibili e a subire repressioni e violenze.

A Gaza, invece, la norma è un'esistenza miserabile in un crudele e devastante stadio d'assedio, gestito da Israele in modo da garantire la mera sopravvivenza e nulla più.

Da quattordici anni, la norma è che Israele uccide in media oltre due bambini palestinesi alla settimana.

A scatenare l'ultima barbarie di Israele è stato il brutale assassinio di tre adolescenti israeliani in una comunità di coloni nella Cisgiordania occupata. Un mese prima due ragazzi palestinesi erano stati uccisi nei pressi di Ramallah, sempre in Cisgiordania, ma la vicenda aveva attirato scarsa attenzione, il che è comprensibile visto che lì si tratta di ordinaria amministrazione.

Come ha scritto l'analista del Medio Oriente Mouin Rabbani, «l'indifferenza sistematica dell'Occidente alle condizioni di vita in Palestina spiega non soltanto il ricorso alla violenza dei palestinesi, ma anche il recente attacco di Israele nella Striscia di Gaza».

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11. I cessate il fuoco e le loro incessanti violazioni
di Noam Chomsky



Il 26 agosto 2014 Israele e l'Autorità Palestinese si sono accordati per un cessate il fuoco dopo l'attacco israeliano su Gaza, durato cinquanta giorni, che ha causato la morte di 2100 palestinesi e ha lasciato dietro di sé un paesaggio di devastazione. L'accordo prevede la fine delle azioni militari sia da parte di Israele che di Hamas, oltre che un alleggerimento dello stato di assedio che strangola Gaza da molti anni.

Si tratta tuttavia solo dell'ultimo di una serie di accordi per il cessate il fuoco siglati dopo le periodiche escalation di violenza su Gaza da parte di Israele. I termini dell'accordo rimangono sostanzialmente gli stessi. Lo schema consueto, a quel punto, è che Israele viola il cessate il fuoco mentre Hamas lo rispetta – come ammesso pubblicamente dagli stessi israeliani –, finché l'impennata di violenza non induce Hamas a reagire, il che innesca a sua volta una risposta ancor più brutale da parte di Israele. L'espressione più adatta per descrivere l'ultima operazione non è "falciare il prato", secondo l'usuale lessico israeliano, bensì "smuovere le zolle", come l'ha definita un alto ufficiale statunitense, rimasto sconcertato dai metodi di un esercito che però ama definirsi "il più etico al mondo".

Il primo cessate il fuoco fu l'Accordo sui Movimenti e l'Accesso stretto tra Israele e l'Autorità Palestinese nel novembre del 2005. Esso prevedeva il transito tra Gaza e l'Egitto attraverso Rafah di merci e persone, la messa in opera di altri valichi tra Israele e Gaza per l'import/export di merci e il transito di persone, la riduzione degli ostacoli alla mobilità all'interno della Cisgiordania, la creazione di linee di autobus e di trasporto merci tra Cisgiordania e Gaza, la costruzione di un porto a Gaza e, sempre a Gaza, la ricostruzione dell'aeroporto distrutto dai bombardamenti israeliani.

L'accordo fu raggiunto poco dopo il ritiro da parte di Israele dei coloni e delle forze militari da Gaza. Il motivo reale di quel disimpegno è stato illustrato da Dov Weisglass, fido consigliere dell'allora primo ministro Ariel Sharon nonché responsabile del negoziato e della sua implementazione. «Il senso del ritiro è il congelamento del processo di pace», dichiarò Weisglass alla stampa israeliana. «Congelando quel processo si evita la nascita di uno Stato palestinese e tutte le discussioni sui profughi, i confini e Gerusalemme. In questo modo, l'intero pacchetto dello "Stato palestinese", con quello che c'è dentro, viene rimosso a tempo indeterminato dall'agenda, per di più con l'autorizzazione di George Bush e la ratifica dei due rami del Congresso». E in effetti così avvenne.

«Il disimpegno è come la formaldeide», aggiunse Weisglass. «Ci garantisce la quantità di formaldeide necessaria per non avviare alcun processo politico con i palestinesi». I falchi israeliani si resero anche conto che, anziché investire ingenti risorse per tenere qualche migliaio di coloni nelle comunità illegali in una Gaza ormai devastata, sarebbe stato più sensato trasferirli nelle comunità, altrettanto sovvenzionate e altrettanto illegali, presenti nelle aree della Cisgiordania alle quali Israele non intendeva rinunciare.

Il piano di ritiro fu quindi spacciato per un gesto nobile verso la pace, ma le cose non stavano affatto così. Israele non ha mai allentato la presa su Gaza, e per questa ragione è considerato una forza d'occupazione dall'ONU, dagli Stati Uniti e da altre nazioni (Israele a parte, ovviamente). In un'esauriente analisi storica dell'insediamento nei Territori Occupati, gli studiosi israeliani Idith Zertal e Akiva Eldar raccontano la verità dei fatti su quel ritiro: il territorio, ormai degradato, non si è liberato «neanche per un momento dalla morsa militare israeliana, e i suoi abitanti continuano a pagare ogni singolo giorno il prezzo dell'occupazione». Dopo il disimpegno, «Israele ha fatto terra bruciata, devastando tutti i servizi e privando la popolazione del suo presente come del suo futuro. La distruzione degli insediamenti è stata una manovra ingenerosa da parte di un occupante nient'affatto illuminato, che continua a controllare il territorio, uccidendo e vessando i suoi abitanti grazie a una schiacciante supremazia militare».


Le operazioni "Piombo Fuso" e "Pilastro di Difesa"

Il pretesto per violare l'accordo di novembre si presentò molto presto. Nel gennaio del 2006, i palestinesi commisero un gravissimo crimine. Votarono "in modo sbagliato" alle elezioni politiche, attentamente monitorate e giudicate libere, consegnando così il Parlamento a Hamas. Immediatamente Israele e Stati Uniti imposero sanzioni severissime, mostrando al mondo cosa intendono con l'espressione "promuovere la democrazia". E l'Europa si adeguò colpevolmente a quelle misure.

[...]


Operazione "Margine di Protezione"

Le cose sono andate avanti più o meno così fino all'aprile del 2014, quando si è verificato un avvenimento importante: le due principali formazioni palestinesi – Hamas a Gaza e l'Autorità Palestinese, composta perlopiù da esponenti di Fatah, in Cisgiordania – hanno siglato un accordo di unità. Hamas ha fatto concessioni importanti, perché nel governo di unità non figurava nessuno dei suoi membri o alleati. In sostanza – come rileva Nathan Thrall – Hamas ha consegnato il governo di Gaza nelle mani dell'Autorità Palestinese. Migliaia di uomini delle forze di sicurezza dell'AP sono stati mandati a Gaza, e l'Autorità Palestinese ha anche piazzato le sue guardie lungo i confini e ai valichi, senza alcuna reciprocità per Hamas, poiché i suoi uomini non sono confluiti nell'apparato di sicurezza della Cisgiordania. Inoltre, il governo di unità ha accettato le tre condizioni a lungo richieste da Washington e dall'Unione Europea: la non violenza, il rispetto degli accordi precedenti, il riconoscimento di Israele.

Questo, naturalmente, ha fatto infuriare Israele, il cui esecutivo ha immediatamente annunciato che avrebbe rifiutato qualsiasi accordo con il governo di unità e ha annullato i negoziati. Il nervosismo è aumentato quando gli Stati Uniti hanno espresso approvazione per il governo di unità, allineandosi così alla posizione del resto del mondo.

[...]

Anche in questo caso, dunque, era vitale trovare un pretesto per muovere l'offensiva del 2014. L'occasione si è prontamente presentata con il brutale assassinio di tre ragazzi israeliani di una comunità di coloni in Cisgiordania; la polizia israeliana ha subito arrestato alcuni esponenti di un gruppo dissidente di Hebron, dichiarando senza alcuna prova che si trattava di "terroristi di Hamas". Il 2 settembre «Haaretz» riportava che, dopo interrogatori approfonditi, le forze di sicurezza israeliane erano giunte alla conclusione che il rapimento dei ragazzi «era stato compiuto da una cellula indipendente» senza alcun legame diretto con Hamas.

Quei diciotto giorni di assalti da parte dell'IDF sono riusciti a logorare il tanto temuto governo di unità e a provocare la reazione di Hamas, che per la prima volta dopo diciotto mesi ha lanciato dei razzi, fornendo così il pretesto a Israele per avviare l'8 luglio l'operazione "Margine di Protezione". Quest'offensiva, durata cinquanta giorni, è stata il caso finora più cruento di "falciatura del prato".

[...]

L'alternativa realistica alla soluzione a due Stati è che Israele continuerà a portare avanti il piano che segue da anni, appropriandosi di tutto quanto reputa di valore in Cisgiordania, impedendo che i palestinesi si concentrino in comunità ed espellendo i palestinesi dalle aree che accorpa al suo territorio. Basterebbe questo a eliminare il tanto temuto "problema demografico".

Tra le aree da accorpare a Israele figurano anche una Grande Gerusalemme ancor più estesa, la zona all'interno del "Muro di Separazione" (illegale), i corridoi che attraversano i territori a est, e sicuramente anche la valle del Giordano. Con ogni probabilità, Gaza rimarrà sotto assedio, separata dalla Cisgiordania. Anche le alture del Golan siriane – annesse, come Gerusalemme, violando le prescrizioni del Consiglio di Sicurezza – saranno inglobate senza troppo clamore nel Grande Israele. I palestinesi della Cisgiordania, nel frattempo, saranno confinati in cantoni invivibili, con un trattamento speciale riservato solo alle élite, nella migliore tradizione neocoloniale.

Sono queste le linee guida seguite sin dalla conquista del 1967, secondo i principi enunciati al tempo dal ministro della Difesa Moshe Dayan, uno dei leader israeliani più comprensivi nei confronti dei palestinesi. Fu lui a spiegare ai colleghi di partito che avrebbero dovuto informare i profughi palestinesi in Cisgiordania che «non abbiamo soluzioni e che loro continueranno a vivere come cani. Chi lo desidera può andarsene, e vediamo dove ci porta questa strada».

Il consiglio di Dayan ricorda il pensiero formulato qualche anno più tardi, nel 1972, dal futuro presidente Chaim Herzog: «Non nego che i palestinesi possano avere un posto, una posizione, un'opinione su ogni materia... Ma di certo non sono pronto a considerarli come dei pari in una terra che è stata consegnata nelle mani della nostra nazione migliaia di anni fa. Per gli ebrei di questa terra non ci sono dei pari». Dayan, peraltro, voleva che fosse istituito nei Territori Occupati il "governo permanente" di Israele ("mershelet keva"). Netanyahu non è certo un pioniere, visto che esprime la medesima posizione oggi.

Come anche altri Stati, Israele usa la "sicurezza" come pretesto per giustificare le sue aggressioni e le sue violenze. Ma gli israeliani più addentro alle questioni sanno come stanno veramente le cose. A dimostrare che la realtà dei fatti è sempre stata ben presente ci sono le parole pronunciate nel 1972 dal comandante dell'aeronautica (e futuro presidente) Ezer Weizman. Fu lui a spiegare che non ci sarebbe stato alcun problema per la sicurezza se anche Israele avesse accettato la richiesta internazionale di ritirarsi dai territori conquistati nel 1967, ma che in quel caso il paese non sarebbe più potuto «esistere secondo quelle proporzioni, quello spirito e quei valori che incarna oggi».

Per un secolo la colonizzazione sionista della Palestina si è ispirata al pragmatismo: agire senza troppo clamore sul campo per poi far accettare al mondo la situazione di fatto. Questa strategia senza dubbio ha pagato, dunque non v'è ragione di ritenere che non prosegua fino a quando gli Stati Uniti continueranno a fornire assistenza militare, economica, diplomatica e ideologica. Per quelli che hanno a cuore i diritti dei palestinesi non ci può essere altra priorità se non impegnarsi per modificare le politiche statunitensi. Un sogno per nulla irrealizzabile.

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