Copertina
Autore Vincenzo Pardini
Titolo Il viaggio dell'orsa
EdizioneFandango, Roma, 2011, Galleria , pag. 362, cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-6044-220-8
LettoreLuca Vita, 2012
Classe narrativa italiana , natura , animali domestici
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Indice


Il viaggio dell'orsa                5

Il fratello del lupo               53

La picciona etrusca                75

Il gatto                           97

La sfida e la pantera             115

La pistolera                      203

Serague                           240

La vendetta del gufo              257


 

 

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Il viaggio dell'orsa


Sull'Alpe di Soraggio, Alcibiade e Menecco erano i pastori con il gregge transumante più numeroso. Vi rimanevano dalla primavera all'autunno, poi scendevano, seguiti dai mandriani con le vacche, per raggiungere la piana di Pisa, in cui svernavano. Un lungo viaggio, traverso contadi e paesi. Dai tratturi giungevano a Castelnuovo Garfagnana, dove sostavano la notte, sistemando pecore e vacche, parte al chiuso e parte all'aperto, stando in guardia contro lupi e predoni. Cosa che dovevano fare a ogni fermata, stipulando il compenso con chi li ospitava, quasi sempre catini di latte. A Castelnuovo, seguivano Turritecava, Borgo a Mozzano, Ponte a Moriano, San Concordio, Santa Maria del Giudice; infine la campagna circostante Pisa, nella quale le famiglie di Alcibiade e Menecco avevano casa e ovile. Gli altri, tra cui i vaccai, proseguivano quali per Ponsacco, Poggibonsi, fino in Maremma.

Toccato San Lorenzo a Vaccoli, una striscia di terra tra i monti assai lacustre, Alcibiade e Menecco si sentivano quasi arrivati. Gli restava da oltrepassare la montagna di Santa Maria del Giudice, che molti ricordavano essere stato il valico di Dante Alighieri allorché veniva a Lucca. Un vecchio che abitava alle pendici di quel monte, brullo e sassoso, raccontava che i suoi antenati, un giorno di bufera, dettero ospitalità al poeta che viaggiava con una mula bianca, seduto sopra uno sgabello sistemato sul basto. A conferma di questa storia il vecchio recitava alcuni versi della Commedia, che descrivevano quei luoghi: cacciando il lupo e i lupicini al monte / per che i Pisan veder Lucca non ponno.

A Pisa, l'inverno era mite. Albe e tramonti specchiati nel mare, che sembrava andare verso l'orizzonte come un'immensa cascata. Dalle case di Alcibiade e Menecco si vedeva la torre pendente innalzarsi al di sopra delle mura della città. Spesso, portavano a vendere formaggi e ricotta a una bottegaia di Porta a Mare. Una signora di età indefinibile vestita di rosso, la quale finiva, sempre, col narrare la battaglia della Meloria. Era – diceva – il 6 agosto 1284. Una data da cancellare, non dal ricordo, ma dal calendario. Perché Pisa fu tradita anche da San Sisto, suo protettore, che permise morissero i guerrieri più valorosi. Infatti, da quel giorno non verrà più festeggiato. La battaglia sembrava volgere a favore dei pisani, quando da dietro l'isolotto della Meloria sbucarono le trenta galee tenute nascoste, a sommo studio, dal comandante della flotta genovese. L'inizio della disfatta. In breve il mare si tinse di sangue. Chi non mori, fu fatto prigioniero. Nelle notti di Luna piena e di bassa marea, la bottegaia diceva di udire voci e invocazioni dei marinai morti, che morti non erano, perché mai si muore del tutto. Una grande galea emergeva dalle acque e approdava nel porto tra bagliori di fulmini.

Per il resto, i due giovani aspettavano con ansia la primavera. Un mattino, all'alba, si sarebbero messi in movimento con le greggi, unendosi ai pecorai e ai vaccai provenienti da altre località, diretti sull'Alpe di Soraggio. Si ritrovavano a San Giuliano: una sorta di conca tra rocce e ulivi. Circa cinquemila capi, tra pecore e mucche, invadevano le strade con un'ondata di groppe lanose quando erano pecore, di giogaie e di corna, quando erano vacche. La primavera dava agli uomini un entusiasmo nuovo e agli animali la voglia dell'erba fresca; muggiti e belati si levavano specie alla sera, prima della sosta. Dalla pianura, poco a poco, giunti a Castelnuovo Garfagnana, s'inerpicavano lungo alture sempre più ripide. Nell'aria stagnava un odore aspro e pungente e si udiva il respirare greve delle mandrie di vacche, il loro zoccolare pesante, a tratti scivoloso; dalle greggi provenivano starnuti, lamenti quasi umani e uno zampettare che sembrava di tanti legni trascinati.

Siamo nel 1451, in un paesaggio con qualche casale disperso nella campagna, i borghi circondati da mura a castello. Le dimore dell'Alpe erano piccole, coperte di piastre; non molto diverse le capanne, i tetti di paglia. In mezzo a quest'ultime si trovavano gli stazzi, dove pecore e vacche venivano munte. Di notte, chiuse nelle capanne, erano sorvegliate dai pastori: lupi e orsi, non di rado, cercavano d'aprirsi un varco dai muri o dalle porte; i lupi, soprattutto, quando calava la nebbia o nevicava. Ma, il peggio, poteva accadere di primavera quando, affamati, gli orsi uscivano dal letargo. L'anno precedente, uno di essi seminò il panico negli abitanti di Sillano. Comparso d'improvviso in mezzo a delle giovenche al pascolo, con unghie e mandibole ne ridusse a pezzi una. Ma non ne divorò più di tanto. La gente prese a urlare e, dai muri di cinta, i balestrieri gli scagliarono nugoli di frecce. Si seppe trattarsi del maschio che s'incontrava con l'orsa di Soraggio nel periodo degli amori, tra maggio e luglio. La quale, secondo gli anziani, sfiorava i quarant'anni. Giovani, alcuni di loro provarono a ucciderla. Aperta una fossa nel sentiero che conduceva alla sua tana, la ricoprirono con rami e terra. Un pomeriggio ci precipitò dentro. La colpirono con pietre e picche. Furente come la torsione di un incendio, sebbene ferita, uscì dalla buca. Dovettero battere la ritirata. Credevano che si sarebbe vendicata. Invece si comportò come al solito, restando pressoché invisibile. La scorgevano solo nel periodo degli amori. Era molto grossa. Tanto che la chiamarono l'orsa grande. Alcibiade e Menecco, che avevano venticinque anni, crebbero sentendone parlare senza mai vederla. Finché un giorno, al passaggio della cavalleria di Modena, la scorsero in piedi tra eriche e frassini, ai margini di un pascolo, ma già era scomparsa nell'abbaglio del sole. La cavalleria batteva talvolta quel tratto di montagna, sia perché terra di confine, sia perché transito di briganti, che i soldati del Duca sospettavano in combutta coi pastori.

Sull'Alpe di Soraggio si trovava più d'una coppia di orsi. Ma, finito il tempo degli amori, si evitavano. I maschi, pur di fare tornare in estro le femmine, non avrebbero esitato a uccidergli i figli. Un meriggio, sempre l'orsa grande s'incamminò alla volta del torrente traversando il folto del bosco, quando il maschio, padre dei loro figli, sbucò da un ginepraio. Ne nacque una zuffa, nella quale ebbe la peggio lui. I rugli giunsero alle case dei pastori, in contrasto coi pecorai di Modena per la divisione dei pascoli. Dalle dispute si passò ai fatti, con fionde, clave e lance. Capeggiavano gli scontri Alcibiade e Menecco. Per evitare spargimento di sangue, fu fatto ricorso al serenissimo Duca di Ferrara, il quale dette ragione ai garfagnini. Potevano tenere le greggi al pascolo su quelle alture, ma in cambio stipulò un accordo, redatto da un notaio di Ferrara, dove si stabiliva che ogni anno, per Natale, gli doveva essere portato "un orso vivo, o un porcho cengiaro e quando non potessero dare dicto orso e porcho cengiaro, debano dare un porcho domestico di libbre 300".

Era giugno. L'editto cambiò la vita ai pastori e agli orsi. I primi, se volevano esaudire le richieste del Duca, dovettero occuparsi dei secondi. Fu così che Alcibiade e Menecco cominciarono a perlustrare i boschi. Al Duca non avrebbero portato un orso adulto, ma un cucciolo, che la femmina metteva al mondo durante il letargo e faceva uscire di primavera. Considerato che la gestazione durava sette, otto mesi, la vecchia orsa avrebbe avuto i cuccioli a febbraio. Pronti, dunque, per il Natale dell'anno successivo. Bisognava trovarne una che avesse i figli più grandi. Della cosa si discusse, come sempre avveniva quando si prendevano decisioni collettive, al mattino prima di portare le bestie al pascolo. Pastori e vaccai demandarono a Menecco e Alcibiade l'incarico di trovarne uno che facesse al loro caso. I due giovani iniziarono a girare per le macchie. In breve scoprirono i sentieri tracciati dai plantigradi, le loro tracce sul terreno a forma di piede quasi umano, gli escrementi, talvolta secchi talvolta freschi. Fu tramite questi che, un pomeriggio, nei tenimenti di Fosciandora, sorpresero un'orsa con tre orsacchiotti, forse di circa un anno, intenti a mangiare mirtilli; muso a terra, si muovevano con dondolante lentezza. Il sole gli accentuava il marrone dei mantelli. I due amici si ritrassero. Non gli restava che individuarne la tana. Ma dovevano farlo con cautela, altrimenti l'orsa poteva trasferirsi altrove. Camminavano piano, cercando di non sollevare rumore. Consiglio datogli anche da tre strani individui i quali, spesso, valicavano l'Appennino coi muli. Ne ritornavano coi basti dei giumenti carichi di sacchi pieni di non si capiva cosa; dicevano di abitare a Barga, castello di mangiatori d'orso. Bande di veterani lo cacciavano anche con l'ausilio d'una trappola a forma di cilindro, che s'apriva in due parti incise da punte aguzze; nascosta nei tratti cespugliosi, appena incappata, si chiudeva a scatto. Vani i tentativi di fuga: l'attrezzo era stato fissato a un albero con una catena. Allora, gli gettavano addosso una rete di canapi. L'orso rugliava, si dibatteva; con le unghie delle anteriori portava alla bocca le corde che mordeva, tranciandole. Appostati, gli uomini agivano cheti e proditori. Imprigionatolo, mettevano mano agli spiedi. Ai primi colpi diveniva ancora più furibondo. Al ruglio, aggiungeva un affanno che pareva vento; nell'aria, s'addensava odore di sangue caldo e selvatico. Vieppiù, lo colpivano; vacillando, cadeva a terra. Allora gli infierivano sul collo, sulla nuca. Non di rado, specie quelli vecchi, una volta accalappiati potevano fingersi morti e reagire d'improvviso. Legato con corde o catene lo trainavano in piazza Pietro Angelio, nel centro di Barga, e lì lo scuoiavano. La macellazione doveva essere pubblica. Il comune non imponeva nessuna gabella. Uscita dalle case e dai vicoli, la gente si accalcava attorno agli orcini che scorticavano l'animale, svuotandolo delle viscere, poi lo appezzavano, posandone i lembi sui tavoli. Sopra uno sgabello, poggiavano la testa; vitrei e immobili, gli occhi parevano guardarsi intorno come ancora cercassero una via di fuga. Bestia silvestre non spesata né ingrassata da alcuno, era smerciata a costo mite. Raccontandosi questa storia, Menecco e Alcibiade continuavano a perlustrare la foresta. Dovevano trovare la tana dell'orsa, a ogni costo. Tronchi di piante mostravano la corteccia segnata dalle unghie dei plantigradi, più taglienti dei pugnali, in grado di squarciare una persona con un sol colpo. Ci uccidevano anche i lupi. Accadeva quando le femmine allattavano i cuccioli e l'orso, fiutatane la presenza, li cacciava. Gli adulti cercavano di respingerlo. Ma lui, se affamato, non rifuggiva lo scontro. D'un tratto, qualcosa, parve farsi largo nell'intrico del bosco. Messa la mano alla daga, attesero. Alla stregua d'una ventata, il rumore smise. Ma, tra i carpini, scorsero un orso; in piedi, teneva le anteriori all'altezza del petto, come un uomo che abbia sospeso un lavoro. Sentirono gelarsi il sangue e avrebbero voluto fuggire. L'orso continuava a guardarli, immobile, quasi avesse voluto mimetizzarsi. Disparve per ricomparire dall'erica e dalle ginestre; rugliando, avanzava. Ma si fermò, rizzandosi di nuovo in piedi. Altissimo, pareva volesse mostrargli qualcosa di lui. Un segreto o un mistero. Lentamente, posate le anteriori a terra, fatto dietro front tornò alla volta del bosco, sparendovi avvolto dai primi cespugli. Un orso può esserti vicino e rimanere invisibile come un cattivo pensiero o un proposito di vendetta. Era quanto venne alla mente di Alcibiade, assai più intelligente di Menecco. Amici dall'infanzia, durante l'inverno s'erano innamorati di Fidalma, di qualche anno più giovane. Il primo fu Alcibiade, che lo confidò all'amico. Questi, parente della giovane, si sentì defraudato di qualcosa che sembrava appartenergli e se ne innamorò a sua volta. Non si sentirono più amici. Conversavano lo stretto necessario per motivi subordinati al lavoro. Gli anni precedenti, invece, avevano teso i lacci a volpi e lupi. Quelli collocati nei rami piegati, una volta che gli animali vi incappavano, morivano impiccati. Nei lacci a terra, li trovavano vivi e dovevano ucciderli a colpi di clava o con una picca. I lupi non abbassavano lo sguardo, guardavano la morte come la conoscessero. Le volpi, no. Cercavano di scansare i colpi, mostrando più ardire dei lupi. Ai quali decapitavano la testa per farla vedere agli altri pastori. L'unica a non manifestare interesse era Fidalma. Alta e bionda, se non filava la lana, aiutava la madre nelle faccende di casa. Da quando loro presero a guardarla con gli occhi degli innamorati, li evitava. Ma speravano potesse interessarle il fatto che andavano alla cerca della tana dell'orsa. Restava da vedere chi l'avesse individuata. Un pomeriggio, tornando sull'Alpe, Alcibiade scorse un sentiero tra i cespugli. Lo imboccò, seguito da Menecco. Impronte di orso scendevano tra alberi e rocce; in una di queste, si profilò un'oscurità: l'ingresso della tana.

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La picciona etrusca


Era ormai un lustro che Ceisus s'era trasferito dalla bassa all'alta Etruria. Apparteneva a un villaggio scampato alle stragi di Roma. Una mattina d'inverno, gli eserciti a riposo, partì da una collina di Orvieto, di rocce e ulivi, dov'era nato, divenendo sacerdote e aruspice. Con sé, sui basti di due mule, c'era quanto possedeva, tra cui una colombaia di piccioni viaggiatori: gli sarebbero serviti per inviare messaggi. Dalla valle dell'Auser aveva spesso ricevuto l'invito a trasferirsi presso alcune famiglie, là emigrate, per officiare riti agli dei. Con quelle famiglie, tramite pellegrini, c'era stato il baratto delle rispettive colombaie, affinché potessero avvenire gli scambi dei messaggi. Lui era orgoglioso di una vecchia picciona, brava al punto da non aver bisogno della colombaia di riferimento. Ceisus ripensava questo una mattina di maggio quando, tra le rocce della rupe di Casteltendine, nella valle dell'Auser, ispezionava con le asticelle le viscere di ghiandaie uccise dalle poiane e cadute nell'intrico dei rovi, vicino al torrente che traversava l'antro, tempio di Tacete e della ninfa Vegoia, dove esercitava atti rituali. Colore della notte, le viscere delle ghiandaie si contorcevano verso sud: non poteva che avvenire qualcosa di grave: con la bella stagione l'esercito di Roma tornava a muoversi. Lui temeva potesse arrivare tra quei monti, sebbene fuori mano, e raggiungibili da vie anguste: mulattiere del neolitico tra le coste rupestri, d'estate avvolte da una vegetazione che, quasi, non le lasciava vedere. Faticò a trovarle quando vi giunse ed era inverno. Se ci riuscì fu perché lo guidavano gli dei, in particolare Tacete, il fanciullo dall'aspetto di vecchio, che più volte gli parve d'intravedere tra querce e frassini. Viaggiò, in montagna e pianura, poi di nuovo montagna, una settimana. Partito col sole, incappò nella pioggia e la neve. Cercava di fermarsi meno possibile: temeva d'essere assalito e derubato dai briganti, oppure da qualche drappello di soldati fuoriusciti, che vivevano di violenze d'ogni sorta. Confidava negli dei, chiedendogli il dono dell'invisibilità. S'accorse di essere stato esaudito quando, fiancheggiando, i villaggi, la gente nemmeno sembrava accorgersene. Un pomeriggio, giunse nella valle dell'Auser. Le mule erano stremate; e anche lui. Ma la luce del paesaggio, i promontori selvaggi con nello sfondo le montagne innevate, gli davano sollievo. Dalle Alpi delle Tre Potenze era giunto Annibale Barca; sconfitti i Romani sulla Trebbia, scese alla volta del Trasimeno. Coi messaggi dei piccioni viaggiatori, aveva ricevuto anche minuscole mappe, che gli indicavano il percorso. Imboccò un sentiero sempre più ripido, col paleo spiovente dai muri: avide, le mule brucavano. Dalla bisaccia prese gli ultimi avanzi di pane, fatto col grano di Chiusi, di una farina così sottile che le matrone di Roma usavano al posto della cipria per abbellire i volti. Donne che a lui non piacevano. Le vedeva autoritarie e volgari; un'ombra di cupidigia sui volti pieni. Così, almeno, gli era sembrato un giorno che, travestito da romano, entrò dentro Roma risalendo il Tevere. In città c'era andirivieni di barrocci carichi di marmi, e tutto si svolgeva in maniera concitata; gli schiavi venivano frustati dalle guardie, che volevano farsi vedere zelanti dai centurioni. Ringraziò gli dei di non essere finito fra di loro, né di essere stato massacrato come sua moglie e i genitori, l'alba in cui, una legione romana mise a ferro e fuoco il villaggio sulla collina delle rocce e degli ulivi. Nonostante fosse trascorso il tempo e nonostante fosse lontano da quei luoghi, il dolore persisteva. Annichilito si fermò in mezzo alle mule, una bianca e una morella, che continuavano a brucare. Finito il pane, ripartì. Doveva seguire il percorso fino a una biforcazione, qui avrebbe girato a destra, tenendosi sotto la montagna di rupi spoglie, che già gli era sopra. Invocò gli dei che lo facessero giungere a destinazione prima di buio. Gli unici a non aver risentito dei disagi del viaggio erano i piccioni: aveva provveduto a dargli becchime e acqua fresca. Ma, ogni volta che si fermava, allungavano i becchi fuori dalle asticelle e tubavano. Solo la vecchia picciona, il piumaggio colore dell'aurora e gli occhi gialli anziché rossi come gli altri, stava quieta, forse perché riconosceva quei luoghi, avendoli sorvolati. Torrenti scendevano dai declivi, scorrendo al lato della mulattiera; profumo di muschio e di erbe riempivano l'aria. D'un tratto, su un tornante, si trovò viso a viso con un uomo barbuto, vestito di pelli, la chioma incolta, gli occhi blu e gelidi. Gli stava sbarrando il passo; altri individui, le clave in pugno, comparvero dai cespugli. Pensò volessero rubargli le mule. Invece continuavano a guardarlo. Allora gli parlò, chiedendogli dove si trovasse Casteltendine. Tutti gli sorrisero. Poco dopo era arrivato, accolto dai paesani, che avevano mandato gli autoctoni a fargli strada. Non riusciva a liberarsi da quei ricordi. Un segno degli dei che doveva interpretare. Il sole di maggio sorgeva illuminando il villaggio di case di legno e pietra, raccolte poco lontano dalla rupe. Ceisus si guardava intorno, l'animo inquieto. Nel cielo non volava nessun uccello. La vecchia picciona, chiusa nella colombaia, prese a tubare. Capì che doveva mandarla dai parenti. Scritto un messaggio sopra un frammento di pelle, preso il volatile, glielo legò a una zampa, lasciandolo. S'innalzò, sparendo contro l'abbaglio del sole. Ceisus andò a fare colazione insieme a tutti, attorno a un tavolo, in mezzo al cortile. Mangiò focacce inzuppate nel latte di capra. Poi s'inerpicò lungo lo scosceso sentiero che conduceva all'antro della grotta. Spesso arrivavano pellegrini per venerare gli dei. Fra di loro donne sterili che chiedevano la grazia della fecondità. Ceisus le faceva pregare, invitandole a lavarsi le parti pudende con l'acqua che scaturiva dal profondo della terra, la stessa in cui si immergevano gli dei nelle notti di plenilunio.

La picciona solcava il cielo scrutando l'aria. Diffidava anche delle nuvole. Spesso era dovuta sfuggire a falchi, poiane, astori. Si orientava seguendo il filo dell'orizzonte e le bande di luce del sole. Non faceva soste, nemmeno per bere. All'accenno della stanchezza, saliva in alto, per meglio abbandonarsi alle spinte che venivano da aria e vento. Sotto di sé s'allungava il verde e l'azzurro del paesaggio, con le montagne che le parevano immensi dorsi animali. Avvertiva l'avvicinarsi della meta dalle modulazioni che si propagavano nel cielo, di gran lunga diverse a quelle di terra, dove spesso svanivano, mentre nel cielo persistevano, sebbene tra alti e bassi. Il sole non aveva ancora toccato il centro dell'emisfero, quando, in picchiata, planò su un villaggio, subito veduta e accolta da uomini e donne.

Nell'antro della grotta Ceisus meditava. Lontano da tutti, gli riusciva di vaticinare meglio il futuro. I presagi di quei giorni non erano buoni. Volti di persone, conosciute o amate, uccise dai Romani, l'avevano tormentato nel sonno e da sveglio. L'odio di Roma contro gli Etruschi superstiti non sarebbe finito, sentiva. Ma pochi gli credevano. Nemmeno quando i Romani, pena il taglio della lingua, imposero loro di parlare latino, rinnegando la memoria dei padri. Una guerra mai dichiarata: schiere di soldati arrivavano d'improvviso, riducendo in cenere i paesi. Nel suo giunsero all'alba. Gli irruppero in casa, mulinando spade e mazze. Ebbe appena il tempo di vedere i genitori colpiti a morte e di sentire le urla di sua moglie, che gli s'aggrappava al collo. I soldati l'afferrarono, denudandola. Lui cercò di difenderla, ma cadde come dentro una voragine. Si risvegliò verso sera, la casa avvolta nella penombra, circondato dai cadaveri. Non aveva stati d'animo né lacrime, come anche lo spirito fosse divenuto materia. Il dolore l'avrebbe seguito come un'ombra. Poi capì quanto fino a quel momento non gli era riuscito: solo gli dei potevano averlo risparmiato. A loro, avrebbe dedicato la vita.

I parenti di Ceisus avevano accolto la picciona con affetto. Fra di loro c'era suo cugino Cae, addestratore di volatili, che allevava in colombaie nascoste tra gli ulivi. Anche lui era affascinato dalla picciona: a lei non occorrevano siti di riferimento; eseguiva le intenzioni di chi le affidava messaggi. Non proveniva dai suoi allevamenti. Era venuta un giorno di anni fa, senza alcun messaggio, come fosse fuggita a qualcuno o scampata a un pericolo. Divenne la messaggera della comunità. Adesso la teneva tra le mani e le carezzava la testa piccola, ma forte e dura come una moneta. Con gli altri, decise di rimandarla all'alba del giorno dopo: meglio farla riposare. Intanto avrebbero preparato la risposta per Ceisus: l'esercito romano, come lui presagiva, era davvero in movimento; passato da Todi e Orvieto, marciava alla volta dell'alta Etruria. Era una bella sera di maggio, tutti insieme sedettero tra i cipressi, a cena. Di comune accordo, per non risvegliare il dolore, non parlavano del passato, funestato dall'espansione di Roma, che aveva inflitto lutti e tagliato le vie del commercio. Dovevano scambiare i loro prodotti, dall'olio al vino, al grano, con loro, avendone in cambio poco o nulla. Allora producevano solo lo stretto necessario per sopravvivere. Mangiato, restarono nel buio, ad ascoltare le voci degli usignoli e i grilli, già numerosi: l'estate era in anticipo. Poi si coricarono. I vecchi, tra cui Cae, rimasero di guardia dall'alto del promontorio. La Luna piena illuminava la valle; se nei sentieri fossero brancolate delle ombre, significava che stavano per essere assaliti di nuovo, e sarebbero fuggiti nella campagna. Potenza militare all'epoca di Lars Porsenna che sottomise Roma per anni, mormorava tra sé Cae, ecco cos'erano divenuti gli Etruschi: fuggiaschi.

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La sfida e la pantera


I suoi genitori erano cani da gregge, che custodivano e difendevano da lupi, orsi e briganti. Anche lui era nato per questo. Ma la sorte, per qualche tempo, lo portò altrove. Dei tredici fratelli, era il primo ad attaccarsi al capezzolo della madre; una enorme Pastore Maremmano Abruzzese bianca, dal muso corto e la mascella larga, che dominava su sette femmine. Più poderoso della madre, il padre non esitava ad affrontare lupi e orsi, se attaccavano l'armento: oltre mille capi, che sorvegliava con una quindicina di Maremmani, ai quali si univa mezza dozzina di toccatori, ma col solo compito di far muovere il branco eseguendo gli ordini dei padroni. I Maremmani, invece, si occupavano di protezione e difesa, sia di giorno sia di notte, allorché il gregge poteva essere assalito da lupi, plantigradi e ladri. Ognuno di loro mostrava cicatrici su muso e testa: i morsi dei lupi o le unghiate degli orsi, oppure le fucilate dei ladri o di pastori rivali dei padroni, allorché si azzuffavano coi loro cani.

La masseria Dironima, dove viveva Beriffa coi cuccioli, si trovava in Abruzzo, nelle montagne dell'Aquila, sulle quali la neve resisteva fino a primavera. E, di primavera, la cucciolata era venuta alla luce. I pastori facevano accoppiare le cagne verso la fine di novembre, primi di dicembre, in modo che i piccoli nascessero con il clima mite. Le madri li nascondevano in una stalla o in qualche tana, spesso nella convessità di un albero. Beriffa li teneva nel fondo di una scuderia, tra vecchi carri in disuso e presse di paglia. Dai cuccioli, si allontanava per mangiare e bere. Ringhiava perfino ai padroni, si fossero avvicinati al covo. Allungato il muso, emetteva un brontolio di temporale, gli occhi a mandorla semichiusi. Loro le dicevano che aveva ragione: nessuno intendeva violare la cuccia dei piccoli. I quali crescevano in fretta. Tanto che iniziò a portaseli dietro: una processione di batuffoli bianchi, che camminavano oscillando. Appresso, il cucciolo che le si attaccava di più al capezzolo. Portati fuori, li lasciò avvicinare dai padroni; non dai maschi e dai toccatori, che avrebbe aggredito. Si trovava invece d'accordo con le femmine che, come lei, avevano cuccioli. A una soltanto non nascevano. Soffriva di gravidanze isteriche. Sorella di Beriffa, era bellissima: e a lei si sdraiava accanto, in posizione di allattamento. L'anno prima una cagna era morta di polmonite dopo il parto. I suoi piccoli finirono con le altre cagne, che li allevarono alla stregua dei propri.

Svezzati, i cuccioli furono messi insieme alle pecore, che li accolsero abbassando i musi e fiutandoli. Le madri continuavano a stargli appresso. Ma, in breve, questi s'affezionavano alle pecore: nutriti del loro latte, e immersi nei loro aspri e dolci umori, finivano col sentirsi della stessa carne. Il cucciolo più grosso di Beriffa, al solito, si impose sui fratelli, non facendoli avvicinare alle pecore preferite. I padroni lo notarono, come notarono i suoi occhi: anziché marroni, neri. Ma i Maremmani dovevano avere le ataviche caratteristiche della razza. I pastori solevano dire che, così, i loro padri li avevano selezionati. Se un cucciolo nasceva con qualche anomalia veniva ucciso; afferrato per le zampe posteriori, lo sbattevano, o sul pavimento, una roccia o un muro. La testa simile all'orso bianco, il mantello colore della neve, gli occhi marroni e a mandorla: questi i Maremmani. Il capomassaro rimproverò i quattro figli di non aver notato prima gli occhi del cucciolo. Si giustificarono col dire che Beriffa li aveva mostrati all'ultimo, e che, quello, lo teneva sempre appresso. La moglie intervenne, dicendo che non si poteva uccidere un cucciolo già slattato, bello e sano. Fu deciso di regalarlo a qualcuno che non fosse pastore.

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Pagina 240

Serague


Serague era una mula bianca, con striature nere, quasi blu. Giunse nella mia contrada già vecchia, ma ancora di bell'aspetto. Spesso, i suoi grandi occhi scuri si facevano statici e vitrei: soffriva di malinconia. Suo confidente fu Loreto, il pappagallo di mia madre. Conversavano a lungo. Lui sul ramo del noce, lei sotto, all'ombra. Loreto, verso sera, mi raccontava quanto Serague gli aveva confidato.

"Nei giorni che il sole fa scottare sassi e terra, mi sembra di tornare puledra. Figlia di una cavalla berbera e di un somaro di Martina Franca, non ricordo il paese in cui nacqui; ricordo solo rade boscaglie digradare verso il mare. Appena ebbi zampe abbastanza forti da poter seguire mia madre, mi unii alla mandria. Talvolta, correvamo lungo la riva dell'Oceano; gli spruzzi dell'acqua mi inebriavano e galoppavo fino allo sfinimento. Non avevo mai visto gli uomini; ne sentivo parlare dalle cavalle e dagli asini; uno di loro, mio padre, era il nostro capobranco. Finché poppai il latte, nessuno mi fastidiò. Ma, non appena cominciai a brucare erba, gli adulti presero a mordermi schiena e collo. Mia madre mi difendeva, calciando i rivali, poi lasciò fare. Cominciai a sentirmi sola, ma capii perché mi addentavano: invadevo il pascolo, sottraendo erba agli adulti. Dovevo accontentarmi di brucare gli avanzi, oppure rimanere fuori dai loro ambiti. Ma era pericoloso. Ogni volta che lo facevo, respiravo un forte odore: quello dei lupi, i quali attendevano che i puledri uscissero dal branco per aggredirli. Un giorno di nebbia e di pioggia, che m'allontanai per brucare un cespuglio, lampeggiarono due, quattro, dieci fiammelle; impaurita, fuggii. I lupi stavano appresso, il fiato sul mio ventre. Chiusi gli occhi, respirai a fondo: l'aria mi dava forza e galoppavo, galoppavo. Ebbi l'impressione di volare. Alle mie spalle l'uragano era divenuto boato, con ragli e nitriti. Raggiunti dalla mandria, i lupi s'erano dispersi e mi ritrovai in mezzo alle zampe e alle code dei miei simili, che mi punirono con zoccolate e colpi di testa: m'ero allontanata da loro. Cadevo a terra e mi rialzavo. Poi, afferrai, era meglio restare a terra. Noi equini non calpestiamo i caduti. Così feci e fui lasciata in pace. La pioggia, che mi scorreva addosso come una carezza, continuò il giorno e la notte. Intanto, c'eravamo avvicinati alle colline. Il sole brillava. Brucavamo erba tenera. Ma non ci accorgemmo d'essere stati circondati dagli uomini. Molti di noi, specie i cavalli, riuscirono a fuggire. Ce l'avrei fatta anch'io, non fossi stata presa con un laccio attorno al collo e trascinata da una forza che costringeva a seguire i voleri del cappio e della corda. Insieme ad altri, fui chiusa dentro un carro. Senza cibo e acqua, viaggiai giorni. Una delle mie tante peregrinazioni, dove ho rischiato di morire per fame o per soffocamento. A una fattoria, fui trasferita in una stalla. Il fieno era secco e polveroso. Tossii. Cavalli, muli e asini ridevano dicendomi di dimenticare pascoli e libertà. Adesso, tutto, l'avrebbero deciso gli uomini. Alcuni raccontavano la vita che vi avevano condotto, sotto il peso di some o a trainare barrocci e aratri. Gli umani non capivano la nostra lingua; a loro interessava impartire ordini. L'importante era non ribellarsi: le pene sarebbero state maggiori. Poteva tuttavia accadere di trovare un buon padrone; le cose sarebbero andate meglio, ma sempre lavorare dovevo. Più guardavo i miei simili più mi pigliava lo sgomento: non ce n'era uno che non avesse cicatrici. Altri, invece, erano così stanchi e magri da non reggersi in piedi. Alcuni, prelevati, non fecero ritorno. Fra di noi subentravano inquietudine e impazienza. Arrivarono molti puledri e i vecchi scomparvero. Rimasero quelli in carne. Nei loro occhi era impresso il medesimo terrore di quando i capobranco avvertivano i lupi. Ebbi nostalgia della mandria e ragliai. Entrò un uomo basso e barbuto che mi percosse con un bastone. Impaurita, corsi in un angolo della stalla. Giorni dopo ero fuori, in un recinto di legni. L'odore della terra e dell'erba mi esaltarono. M'arrotolai nel fango e corsi. Uomini coi cappelli di paglia guardavano e ridevano. Ero ormai adulta, alta quasi come un cavallo. Una mattina, mentre frangevo, fui imbrigliata a un palo, con un arnese freddo tra le labbra. Reagii, sgroppando. Gli uomini strattonarono la briglia e sanguinai dalle labbra. Su un vagone con altri giovani muli, tirai la redine per fuggire: la terra sembrava corrermi sotto e attorno. Spesso, il treno fermava; qualche uomo saliva facendo scendere due, tre muli. Infine, spossata, un pomeriggio scesi anch'io. Condotta in un cortile, fui messa alla posta insieme ad altri muli, indifferenti e scontrosi. Ero nell'esercito, tra gli alpini. Cominciò la vita militare. L'unico a rispettarmi era il conducente; guardiani e stallieri mi facevano ogni sorta di spregi: dalla torsione delle orecchie, all'accostamento di carta infuocata sotto il ventre. Allacciata a un compagno, venivo fatta correre tra schiamazzi e sberleffi, finché non cadevamo. Un mio sodale, piccolo e nero, un pomeriggio centrò con una scarica di calci un soldato, uccidendolo. Me ne accorsi, perché avvertii una ventata gelida nonostante fosse estate.

La notte era proibito stare sdraiata: lo stalliere m'avrebbe punzonata con un legno acuminato.

Le marce.

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