Copertina
Autore Laura Pariani
Titolo Milano è una selva oscura
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, Supercoralli, , pag. 186, cop.ril.sov., dim. 14,5x22,2x1,5 cm , Isbn 978-88-06-19995-1
LettoreDavide Allodi, 2010
Classe narrativa italiana , citta': Milano , paesi: Italia: 1960
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Indice


       Inverno

     5 Allegro non molto
    21 Largo
    34 Allegro

       Primavera

    49 Allegro
    72 Allegro e pianissimo sempre
    90 Danza pastorale. Allegro

       Estate

   103 Allegro non molto
   125 Adagio-Presto
   132 Presto

       Autunno

   145 Allegro
   156 Adagio
   167 Allegro
   173 Silenzio

   179 Tre noticine


 

 

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Pagina 5

Allegro non molto


La sveglia nel dormitorio di Bande Nere è il momento peggiore. Non tanto per il gelo, ché in inverno non si può pretendere altro, quanto per gli odori sconci di tanti corpi ammucchiati. Tituffa titoffa, chi l'è che l'ha mollaa sta loffa? Un brivido. Colpa dell'atmosfera di malora che avvolge i corpi distesi su queste brande. Ché qui vengono a dormire solo gli strapelati lunatici, i randagi per affitti non onorati: come il Tiramolla che l'è sempre ciocco, il Legorín che gli manca il respiro a far dieci scalini, il Pètt-de-suora malato di muròid, il Verza che ci ha la faccia gialda per il fegato marcio. Tutti corpi vecchi che mandano cattivo odore e perdono sostanza. Derelitti di una povertà in caduta libera, fuori da ogni quadro statistico compilato da ben pasciuti funzionari Istat... Tramestio: la squadra dei primi pisciatori già corre verso il bagno. I disgraziati visceri dei vecchi, pensa il Dante: la polvere di cui tutti siam fatti; ché solo guardando i corpi altrui si constata la decadenza del proprio... Apre gli occhi. O fiolítt del Signôr mòrt, levee sü che 'l sol l'è vòlt...

Meglio uscire al piú presto. Il Dante si infila una giacca dalle molte vite: è lisa, l'è ora da dàghela al famoso Burella di Rho. Afferra l'ombrello che di notte tiene sotto il materasso per salvarlo dalla manolesta di certi suoi vicini di letto. La borsa a tracolla, che lui chiama «degli Avanzi», perché contiene qualche baravàj che è quanto resta dei suoi naufragi. Per ultimo il cappello, ben calato sulle orecchie. In un attimo è alla porta.

Un freddo barbino. Bisogna muoversi per riscaldarsi; e, come diceva Heine di quel santo decapitato che si mise la testa sottobraccio e prese a spasseggiare, tutto sta nel fà 'l primm pass. Adagio però, 'l mè Dante, col bastone che ti precede nella neve mezzosciolta, per evitar di scarligare. Arrancando su tre gambe, come nell'enigma della sfinge.

Si dirige verso il Naviglio, pestando le suole sul selciato sporco di coriandoli. Il freddo già gli morde i geloni. La mente persa nella divagazione casuale.

Una donna con la borsa della spesa. Dal prestinaio che sta all'angolo, il profumo del pane appena sfornato gli riporta l'epoca di quand'era un piscinòla; ché l'odorato è certo il piú forte dei sensi e l'infanzia è il momento privilegiato della scoperta, raccolta e classificazione di tutti gli aromi possibili: ché successivamente, nel trascorrere degli anni, uno non fa che ritrovarli. E per il Dante il discorso non vale soltanto per le fragranze deliziose dei mangiarini o della biancheria ripassata nell'amido e profumata dai sacchettini di lavanda di sozía Netta; no, lui pensa proprio a tutti gli odori: da quello acido della segatura di legno, gettata sul pavimento dell'ingresso di cà sôa nei giorni di pioggia, al dolcigno di certi vecchi messali; dall'acre dei feltri di muffe che coprivano il muro della cantina di sonònn Carlo a quello delle stoppie bruciate sottovento nei primi campi fuori porta, all'epoca del c'era-una-volta-e-una-volta-non-c'era.

Una donna sta rientrando con la sporta della spesa. Sull'uscio aperto, il rito di pulire le scarpe sullo zerbino. Una voce irosa dall'interno:

Marietta, serra sü in fretta! Te védet minga che se gela del frègg?

Ma allora cosa dovrebbe dire un barbone? Tanto piú che l'inverno è ancora lungo, siamo appena a martedí grasso, la Pasqua è lontana.

    Uta muta, Cananea,
    Pane, Pesce, Sanguea,
    Uliva e Pasqua fiorita...

Il Dante recita la filastrocca sottovoce, contando sulle dita le domeniche di quaresima, come le enumerava sozía Netta, quando lui era ancora un piscinlètt alto cosí... Ancora sei settimane di nasi brodosi, tossi, starnuti, influenze, grippe e agrippine.


Nello specchio di una vetrina il Dante si scopre pallido: smorto come 'na patta lavaa. Qui ci vuole un bicchiere. Subito immantinente.

Una sosta a un baretto il cui proprietario, bontà sua, gli offre sempre un bianchino: salute! e a chi non piace il vino, Dio gli tolga l'acqua! ... Quatter paròll da svirgolarcisi dentro. Ché il Dante è uno che sa raccontare. Presempio, di quando con il suo socio Biraghi aveva aperto una libreria antiquaria in via De Amicis... El par impossíbil, neh, stavo proprio a due passi da San Vittore, ché tutte le notti le grida delle sentinelle mi straziavano le orecchie:

    Sentinella all'erta!
    Sentinella all'erta!
    All'erta sto!...

Roba da non crederci, il gioco a tombola della vita. Quasi una premonizione di quel che poi mi sarebbe capitato, quando i ciappa-ciappa mi mettono le castagnole ai polsi, boja d'un mondo, per tre rivistine con un paio di tette e culi... Proprio vero: l'inferno e i tribunali sono sempre aperti, in un esüssi m'hann faa la fignòcca e son rimasto pestaa come 'l sofà d'ona sguanguànna.

    Però giri fortuna la sua rota
    come le piace, e 'l villan la sua marra.

Ché mí son come il Galileo, quello dei canocchiali, un gran bravòmm, anche se i preti del sò temp la pensaven minga inscí e l'hanno costretto all'abiura... Cosa l'è l'abiura? L'è quando ti te pènset ona roba giusta e gli altri ti costringono a dire che l'è sbagliada, e il libro del perché stampato ancor non è. Ché, a far diverso dagli altri, si fa la figura del matto.

Il primo bianchino va giú in una golata, scalda lo stomaco, rimette in moto la mente: oh gran Padre dei versi e de la bissa... Buon vino, favola lunga, anche se la memoria del Dante è un groviglio indurito: i suoi fili non sono piú carnesangue, ma brume di immagini sbiadite, che forse sono ricordi ma potrebbero anche essere soltanto bolle d'un sogno che pare sia stata la sua vita. Ché nei confronti del passato lui è un credente che ha perduto la fede:

    Oh vanagloria dell'umane posse,
    com'poco verde in sulla cima dura!

Non restano che le ferite, il senso della perdita. Com'altrui piacque. E che giova ne la fata dar di cozzo?... A volte gli domandano perché sia diventato barbone. Cramègna, gli sbirri pigliano e il popolo impicca sicché, sangua da dina, quando è uscito da San Vittore, tutti voltavan la testa dall'altra parte... Ah, se dovaría fà quel che dicevano gli antichi: che te vàrdet e impara, e chi è senza peccato lanci la prima pietra. Ma nessuno l'ha ancora intesa sta lezione, si vede la paiòcca in l'œugg di alter e minga la trav in del sò. Eccosi, senza tanti tralalà, s'è messo nell'alto mare del vagabondaggio, con la sola compagnia picciola degli altri a cui è capitata la stessa sorte:

    A mitaa strada de quel gran viacc
    che femm a vun la vœulta al mond de là
    me son trovaa in d'on bosch scur scur affacc,
    senza on sentee da podè seguità;
    domà a pensagh me senti a vegní scacc...

O Signôr di poerítt, che quel degli altri al gh'ha i cornítt.

Uscendo dal bar raccoglie una sigaretta spezzata. Din don, cicch e marrôn. Ma chi butta via sto bendidío? Tra il pollice e l'indice comprime accuratamente il mozzicone nel punto dello strappo, per non lasciare nessun passaggio all'aria. Ma non c'è piú il tabacco di una volta, gh'è in giro una rella, tutti si lamentano: gh'è pòcch da sfojà verz, poco da scialare. «Congiuntura» continuano a ciamarla, mah...


Un tram fa la curva stretta. Lungo stridore, scampanellare stizzento, sfrigolío di scintille azzurrine. Damòni, che pressa hanno tutti. La carrozza gli ha quasi fatto il pelo e il Dante sacramenta tra i denti. Ohí, che te vegna! Te m'hee ciappaa per on can? Al dí d'incœu il pedone non ha piú diritti. Se poi è anziano, e gli ci vuole il sò tempo per traversare, i ruotabili si infuriano. Ma andate tutti a ramengo!

Com'è imbruttita Milano. Uno come il Dante, nato dentro la cinta dei bastioni, dove l'ha mai vista da bambino una porta serraa? Nessuno si chiudeva in casa. Si viveva gomito a gomito, miee, nevodín, fradèj, sorèj, cugine zitelle, preti e perpetue... Adesso invece: cancelli blindati, lucchetto doppio, spranghe, allarmi, catenelle e catenacci. A dieci metri di distanza devi presentarci il biglietto da visita, poi si vedrà... Eppure anche ai suoi tempi c'erano in giro ladri e malagente: i lòcch, i forlínn, i baltrescànt, i tiradôr de spada che chiedevano l'elemosina e pescavano dalle saccògge, le crappe, la banda della Scopola di corso Magenta; gente con tutti i saformènt, che tirava fuori il coltello come se niente fosse. Naturalmente accompagnati dal solito corollario di foschi questurini, come il terribile sciôr Dondina in barracano nero:

    El Dondina quand l'è ciòcch
    el va intorna a ciappà i lòcch,
    e je mena a San Vittôr
    a sentí quant hinn i ôr.

Il mondo l'è diventato piccolo, dicono. Ball de Peder Gall! L'è il contrario: ché il mondo l'è diventato inscí grand che la gente non si incontra piú, manco per sbaglio. Nessuno che per strada ti guardi, nessuno che saluti, tutti a correre a casa a trincerarsi dentro col cadenazzo di sicurezza. Cuciti in cà come dentro in d'ona scatola. Tame in un bunker. Ma che modo di vivere l'è? Che paese stiamo diventando? Pora Italia. Povera Milano, se la va innanz inscí. Oh creatür 'nnegaa in del brœud di gnocch, sii anca cucú...

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Pagina 16

Sull'alzaia la scaletta delle lavandaie è quasi tutta sommersa. Una donna è intenta a risciacquare una brenta. I cinque barboni intorno al fuoco fumano e contemplano il muoversi di quel didietro sui gradini saponosi. Un groppone sfiorito come ouverture della giornata. Sospira, il Dante, lui che ai tempi amava considerarsi come un melomane dell'alcova, capace di scorrere il suo archetto sulla pancia svasata di tutti i violoncelli a due gambe che incontrava. Ma chi ha goduto, sgoda:

    l'è 'l contrapàss per i vègg tame mí,
    che s'hinn lassaa comandà dalla braghetta.

C'est la vie, caro 'l mè Maríssia, la prima volta fu al fronte, nella Grande Guerra. La tradotta con la gran mandra di soldatini convogliati alla mattanza, «cavalli otto uomini quaranta» stava indelicatamente scritto dentro il vagone. E una volta sulla linea di fuoco, grappa a volontà e ragazze 'na volta al més, cosí ci imbesuivano: in temp de guerra, püssee ball che terra... Quella che toccò a me era una bassitalia piscinina piscinina, ché la gallina nana la pare sempre 'na pollastra. Coi riccioli tirabaci e le labbra sciroppone tinte di rosa. Dicono che il primo amore non si scorda mai. L'è vero. E varda tí che non ho mai saputo nemmeno come la si chiamasse, mica m'è venuto in mente di chiederglielo, ché a quell'epoca ero timido, bisognava tirarmi fœura i paròll con la rampinéra. Colpa un po' del carattere un po' dell'educaziôn di quei tempi là: ché io ho studiato dai preti, perché mepà Mili l'era un repubblicanone col cappello nero e la cravatta a fiocco, ma pensava che 'na scuola religiosa mi avrebbe levato dal coo tutte le ideuzze metafisico-devote in cui cadono di solito gli sbarbatelli. Insomma, 'na specie di cura omeopatica. E alla longa-longhiéra ci ha avuto ragione. Però, in sul momento, sti preti ci rembambivano con la tiribàra che la sera bisognava spogliarci con precauzione, per non mostrare le nostre vergogne bestiali all'angelo santo. E figurati che certe volte - già da ragazzo e mica un bambinetto cont 'l sottanín, neh - a casa dei mè zii di Lasnigo, durante le feste capitava di giocare a sbiotta-camísa insieme al battaglione dei cugini: chi perdeva la mano doveva togliersi di dosso qualcosa, anca i tosànn... Un gioco leggermente spinto? Ma cosa dici, scemo. Se credi che Lasnigo fosse come il Moulin Rouge stai fresco. Tanti eravamo a giocare, e cosí tanto intappaa di vestiti, polpítt e polpetta, che di piccante non succedeva mai niente. E se poi qualcosina capitava di vedere, qualche centimetro di braccio o di gamba, figurati che diventavo rosso come on gàmber, mi scioglievo come burro in padella. Eh, s'impara troppo tardi a stare al mondo, ghe vœur nass vègg par morí giòvin.

E dovevi vedere quella volta che a scuola il maestro mi catta disattento e mi dice:

Ohé tí, Colombo, fammi tre esempi di bello e di piacevole nelle sue varie gradazioni.

Naturalmente pretendeva che rispondessi sull'unghia, seduta stante. Io, figüret, morivo di vergogna, mi sentivo ridicolo a cercare le parole per dire certe cose - le gradazioni del gusto e del desiderio, mancopopodimeno - davanti a tutta la classe che ridacchiava e si dava di gomito. Tanto piú che quel rosto del maestro Villa si spazientiva in fretta, e giú bacchettate. Allora mí vado in pattaroo e mi butto a dire la prima cosa che mi viene in mente: al primo posto, delizia delle delizie, il tirafiaa... ve le ricordate, no? erano mentine color verde farmacia, con incise due teste di profilo, come sulle monete vere: al mercato erano i bomboni piú spesosi, ergo per me erano il sinonimo del massimo piacere. Poi, al secondo posto, 'l giardinètt, zuccherini tondi di colori differenti che costavano un po' di meno. Al terzo, 'l mes'ciozz, una mescolanza di avanzi boccabuona per tasche semivuote. Fine della graduatoria dei piaceri... Ricordo soltanto che il coro di risate dei miei compagni di classe fu, per volume e durata, tra i piú notevoli tra quelli che abbia mai ascoltato... T'hee capii, Felisín? Altro che concupiscenza: a riempirmi le saccògge di bomboni, pensavo a quell'età, mica a limonare con le signorine. E sí che ero già grandalín, ma questo non si può mai dire, ghe vén grand anch'i pobbi. Insomma, col cherubico senno del poi, l'ero un minchioncino. E pensare che dopo qualche anno son cambiaa dal sole alla luna, ché, da buon femminiere, di donne non ne avevo mai a basta:

    dôe voo,
    morosa foo;
    dôe passi,
    morosa lassi.

Ma è difficile lasciarsi completamente dietro le spalle i precetti che t'hanno inculcato le socche nere. Vardee, una volta stavo in camporella con una rossina che ci aveva ogni bellessa al sò posto giusto, e succede che suona una campana da morto, e il pirla sottoscritto cosa ti fa? Il segno della croce. Giuro. Il santo riflesso di Pavlov. Fortuna che quella stellascia non se l'è presa, anzi è scoppiata a ridere, abbiam finito per scompisciarci come due matti in del nomine pàter. Della comunione dei santi tocchi in testa.

Ché davvero se al Dante chiedessero cosa gli manca di piú della vita che conduceva prima di invecchiare, risponderebbe senza alcuna esitazione: un bel canapè con sopra una donna piacente, che l'è la roba püssee bella che esista. Il mondo va male perché la gente sta poco a letto a fare amorosanza. Presempio, se tutte le sedute dei tribunali se fasèssen bèj stravaccaa su un materasso morasín, di vera lana, ah come 'l saríss bèll el mônd, e i giudici mica mi avrebbero condannato.

Be', allora s'ciao, i mè gent. Me ne vado in partibus infidelium. Ci vediamo uno di questi giorni.

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Pagina 18

Neve che sfarfalla: quando nevica a minuto, la vuol fare insino al buco. Il Dante si ripara in un androne che si apre sul cortile porticato di un robivecchi. Un sanmichele di cassetti, orologi a pendolo, ombrelle, gabbie di canarini, soprammobili alla rinfusa, cesti, piatti scompagnati, una specchiera smagiaa, un cavallo a dondolo che lo fissa con grandi occhi dipinti; e poi ancora: poltrone con la fodera sdrucita, un cappello da bersagliere, i cocci della statua di un dromedario...

    Ghe rívan i Remàgg,
    con dent i anillôn:
    i òmen senza barba
    gh'hann frègg al barbillôn.

Però anche con la barba il Dante ha il mento gelato.

L'uscita di una scuola media con adolescenti attruppati - cappucci e sciarpe multicolori, ciuffi di capelli scuri dal buco del passamontagna. Memorie di un'educazione rigorosa, aule grigie con mosconi che cozzavano contro i vetri, partite a pallamano, la scritta DIO TI VEDE ripetuta anche nei luoghi meno decenti, versioni di latinucci, guerre giugurtine, la madre dei Gracchi, il pio Enea, il Mare Nostrum; e poi: Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca; Pietro Micca e la rosa di Silvio Pellico; Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti. Il tutto inframmezzato con qualche funebre dolcezza sul tipo: i verdi melograni dai bei vermigli fior, cavallina storna che portavi colui che non ritorna, Addio monti sorgenti dalle acque... Il Dante ricorda che, in un'epoca in cui era senza lavoro, aveva utilizzato il suo diploma magistrale per dare qualche lezione privata ai ciucci del quartiere. C'era, presempio, quel tal ragazzotto con una faccia tonda da pan giald - il nome non lo ricordo, solo il cognome, Bernasconi, e che era figlio di un baüscia che stava nel ramo dei mobili - a cui ogni settimana il professore di italiano assegnava un componimento «libero», il che significava che l'argomento della piccola fatica letteraria era lasciato alla sua spontanea creatività - termine quest'ultimo che a quei chiari di luna non era ancora in voga, ovvio, ma che ora tutti chiamerebbero cosí. E per quel tal Bernasconi, di cui la memoria ingrata non ha conservato il nome, era un vero e proprio tormento: non gli veniva mai in mente niente, ma proprio nagòtta da dire... Una volta mi porta da correggere un temino striminzito cui aveva messo sto titolo: Se sarei un pesce. Allora io, prima ancora di mettermi a rintuzzare la sopravvalutazione narcisistica dei suoi desideri ittiologici, comincio a spiegargli che in quel caso lí, col se, l'uso del congiuntivo è obbligatorio; e lui, fresco tame 'na rosa, mi fa:

Va bene, sciôr maestro, allora ci cambio il titolo, e riscrive a capo della pagina: «Se fossi un pesce e vivrei in fondo al mare e arrivano i pescatori». Per brio bacco, ricordo ancora la conclusione del componimento: «Insomma, quando sarei un pesce, non avrei piú da pensare, ma soltanto la tranquilla lotta per la vita». E siccome in quel periodo il medico mi aveva prescritto di bere come ricostituente l'olio di fegato di ippoglosso, che poi l'è un merluzzone dei mari freddi del Nord, mentalmente cominciai a soprannominare «Ippoglòss» quel tal somarone. Ma devo pur sempre dargli atto che una tal formula - «la tranquilla lotta per la vita» - neanche a un gran filosofo l'era mai venuta in mente.

E chi la vuol chiara, l'andàga a la fontana.

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Pagina 25

Ché per il Dante Milano si divide nettamente in due: fratelli e nemici. Presempio, fratelli sono l'ombrellaio che lavora sotto i portici, accanto al mazzo di stecche metalliche e al rotolo di stoffa nera; la Marisa col suo baracchino di fiori, stessi vasi di prima della guerra, stessa voce roca di troppe sigarette; la Palmira che al pomeriggio fa la pettinatrice in casa delle clienti di corso Garibaldi; la Giuditta che gli cuciva gli orli dei pantaloni fin da quando lui era un giovanotto e continua a tutt'oggi il sò mistee in un cortile di via dei Chiostri; e lí affianco, il Cagnotti che aggiustava le camere d'aria delle biciclette e ancora resiste tra le scaffalerie del suo antro scuro. Sorelle sono le vecchie corti, la polleria Spreafico con il suo cestello di uova posato su un piano di marmo triste, l'insegna polverosa del guantaio Rubino col suo campionario di bottoncini e di pellame di vario colore. Sorelle le voci dei proverbi ben oliati dai secoli dei secoli, che a volte ancora sussurrano:

    Dottôr giòvin, gœobba all'ossàri,
    Fa e disfà l'è tütt on laôrà,
    La roba desideraa la var püssee che donaa...

Fratelli, i vecchi pisciatoi coi muri coperti di bagasciate; fratelli, i ballatoi di ringhiera con le gabbie dei canarini appese ai ciod, i trabiccoli dei materassai, gli scialli di percalle, i tram con le panche di legno, i bagolàri frondosi di via Vincenzo Monti. Fratelli, perché non corrotti dai tempi recenti. Fratelli perché continuano a darsi nella lealtà di chi non può essere diverso da ciò che è stato.

Nemico è invece l'asfalto che copre i vecchi canali, tutto sto presente di macchine e fragori, dagli sbarlüsci del neon nelle recenti boutique alla smania di americanità che si respira perfino nel parlare. Ché il nuovo è brutto e volgare in questa sua frenesia di sfrollare tutte le care ricordanze. Ché è cosí che per me l'è diventaa Milán: il tempo, vigliàcch 'me 'n làder, si diverte con tutti i manufatti dell'uomo e li porta via come fossero nuvole al vento, come foglie rinsecchite, come polvere delle strade per dove passiamo, senza raccapezzarci, convinti che la barca la va, che il nostro cammino umano sia particolarmente predisposto secondo un significato superiore. E invece siam dentro nel tempo della ranza di cui noi pulci, noi orbi, noi ciôlla, neanche ci rendiamo conto.

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Pagina 28

Il Calandra ha fatto l'operaio in una grande industria automobilistica e ci ha sempre in bocca un mucchio di storie su chi lavora in fabbrica invecchiando precocemente, i ritmi delle macchine che non lascian respirare, i turni di notte, il cottimo che fa rischiare le mani sotto la pressa, le scocche che escono dai forni cosí calde da ustionare i polpastrelli, la lastroferratura che pare un inferno di fumo e scintille... E guarda, 'l mè Dante, è come essere in pista a Monza: che ogni giorno si aumenta la velocità della produzione. Cosí capita una volta che il reparto si ferma di colpo, nessuno sapeva bene cosa stava per succedere, io ero teso come uno sparo di fionda, finché passa la voce:

Venga giú il direttore del personale!

Un coro tale che lui alla fine non può che scendere. Tremava tutto, neh. Lo mettono vicino a un tornio e poi, quanti siamo, gli sfiliamo davanti e gli ripetiamo uno dopo l'altro:

Faccia de merda!

Faccia de merda!

Faccia de merda!...

Ride amaro il Calandra, mentre tira una boccata di Nazionali senza filtro. Rimastica la campagna di stampa contro le «teste calde» e quello sciopero definito «selvaggio»: lo so, l'è staa ona cialàda, un colpo di testa da lingéra. Ma, caro 'l mè Dante, sérom inscí stracch, inscí rabbiôs... E le denunce della magistratura son fioccate subito, poi il licenziamento in tronco. Alla malora la fabbrica che ti tratta come un oggetto, anzi peggio, peggio delle macchine che tutti lavano, ungono, riforniscono religiosamente. Alla malora i partiti, i padroni, i preti, sta vida putànna. Varda, se fossi solo un po' püssee giòvin, ghe daría ona pesciaa a Milán e andaría su una di quelle isole lontane a sciuscià il cocco per tütt'el dí. Eh, car i mè gent, se fosse possibile viaggiare con un abracadabra di bacchetta magica fino al paese di Utopia. Se solo l'avesse pensato prima, neh. Cosa ci aveva nel cervello a desdòtt anni da andà a lavorare in fabbrica? Avessero detto al Calandra che doveva finire a fare l'ambulante girometta del mercato, ziobôn, il fitto da pagare, la bolletta del gas e della luce, il tram che l'è rincarato, e le gomme della bicicletta, e i pantaloni lisi, i quaderni per quello che va a scuola, e anca il mangiare, ché sti fiolítt diventan grandi e si sbafferebbero pure Caifa; e il lavandino guasto, e le stringhe di ricambio, il sapone per il bucato, l'arrotino per i coltelli, con tutte le concatenate e subordinate circostanze... se glielo avessero contato a quel tempo, si sarebbe pissaa in di culzôn dal ridere.

Il Dante lo ascolta e sospira. Certi momenti, mentre assiste agli sfoghi rabbiosi del Calandra, gli pare di rivivere l'atmosfera del primo dopoguerra, con i soldatini licenziati dall'autorità militare, che si ritrovavano disorientati sul marciapiedi, magari su un triciclo da mutilato, o nel migliore dei casi senza lavoro, a fumare sigarette e a carezzare il revolver nella tasca di sicurezza. Anche il Dante avrebbe forse ceduto a quella stessa rabbia,

    me ne frego,
    non so se ben mi spiego,

se sozío Armindo non lo avesse chiamato in Mérica nel '23.

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Pagina 58

Al Cordusio la pioggia ha una consistenza che promette di durare tutto il dí, chissà fino a domani. Tram affollati, un rebelòtt di auto. Lo stridere di pneumatici sull'asfalto bagnato. Tombini intasati di tutto lo stronzame di Milano.

Verso il Castello, davanti a una libreria. Copertine di plastica colorata, autori stranieri, il banale che galoppa, quella parola «best seller» che adesso è di moda. O secolo ignorante e senza sale, consumatore di idee estere tanto piú gradite quanto più i loro inventori portano nomi conditi di K, X, W, Y... Mai ha creduto, il Dante, ai geroglifici stranieri che van per la maggiore; mai stimato gli intellettuali che vœuren in d'on carr cercà cinq rœud e vèss veneraa come santi a ventiquattro carati. Dove son finiti gli autori di una volta, che non sdegnavano di conversare coi librai e coi lettori attenti? Dicono che un dí quel tal scrittore famoso vide un tizio comprare un suo libro in una stazione ferroviaria; allora lo rincorse fino al treno, lo raggiunse nello scompartimento e trafelato lo avverti:

Guardi che a pagina 185 c'è un refuso tipografico. Me ne voglia umilmente scusare.

Dopodiché fece dietrofront e sparí...

Eggià, il Dante è cresciuto a pane e classici, tra volumi sfatti e polverosi. Gli anni passati nel mezzanino sopra la libreria antiquaria di via De Amicis sono stati i più belli della sua vita. Insieme al suo collega Biraghi, gran certosino della lettura. Come rimpiange quelle sere trascorse girando in tondo attorno alla stufa, a parlar di bei libri... Ché il Dante si professa on clàssegh fin dent el mòll di oss. Fors'anche, pensa, sarò un ex librivendolo coglione e disgustato dalla vita, ma on cojòn clàssegh almànch.

È per questo che nella comunità dei barboni, dove nessuno conserva piú il nome di famiglia, come per cancellare ogni ricordo della vita precedente, e al suo posto assume o gli viene affibbiato un soprannome, lui ha scelto quello di Dante A. Lingéra. Lingéra, per la sua condizione di dimissionario del vivere normale. Dante A. - ci tiene a specificare l'A puntato -, per l'amore dovuto al classico per eccellenza; che oltretutto ebbe vita grama e conobbe il pane amaro del vagabondaggio.

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[...] La sapete la storia di quando l'imperatore Carlo V arrivò qui in città dopo aver fatto una partita di caccia al cervo in quella periferia di ogni cosa che era la profonda provincia dell'Alto Milanese? Proprio lui, col cappello ornato di perle, piume bianche e il simbolo del Tosone; montato su un cavallo nero con gualdrappa di velluto verde a frange d'oro riccio, ché a ogni padrón de la melonéra è sempre piaciuto fa sentí la sôa padronanza. Ora cosa ti succede? quando arriva proprio qui col castello a un tiro di mano, a Carlo V gli si riscïano le busecche. Ché l'è minga vera che i nobiloni al massimo tiran fœura un petín che sa de giussumín. Pure a un potentissimo, per il quale «né anco quando annotta il Sol tramonta», può capitare delle volte che ghe vada la merda al cü. Varda de chi varda de là, vede che lí affianco ci sta un giardino recintato, chiamato del Guasto. In un santiàmen smonta da cavallo, in tre salti entra nel recinto e si sbraca per liberarsi dell'infesciadüra molla dei sò visceri. Con gran batteria di peti, ça va sans dire. Ma mentre era intento a sto scialo, arriva una vecchia barbisona che era ortolana proprio in quel tal giardino, cont in mano un gran bastone, e la gridava stizzosa:

Uhé tí, ciollandàri con quel facciôn da trumba! Sporcasciôn d'on sporcasciôn! Che Domineddio ta pilúcca! Che la raspa te la fricca! Va' a cagà in su 'na scésa d'ortígh!

E lui, a brache calate, la guarda sloffio coi suoi occhi cilestri e dalla sôa bocca di denti cariati tira fuori la voce che gli resta per replicarle:

Taci, vecchiaccia, ché io sono l'Imperiere dei due Mondi!...

E cosí fu che la donna, dopo un silenzio cosí lungo ma cosí lungo che ci poteva nascere un frate, la si profuse in discolpe, anzi si prosternò:

Oh Signôr Sullustrissimo, càgami in coo, che la tôa merda l'è dora.

E, dopo cotale riverenza, gli offri perfino il fazzoletto che aveva in testa perché si potesse pulire l'imperial culo. Cosí va il mondo. O perlomeno, per lealtà storiografica, mi corre l'obbligo di dire: cosí andava nel secolo XVI.

    E gigín gigiòtta,
    chi ghe l'ha,
    la porta a cà.

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La fredda mezzaluce della Galleria. Dàghela avanti un passo, Cane, che siamo quasi al Duomo, con i suoi marmi fioriti di smog, le guglie dalle quali se véd dov'el comenza e dove riva 'l mônd, gli ostiari-sentinella, i rosei monsignori dotati di passo felpato e stomaco spazza-baslòtt.

    Una vœulta gh'eva un òmm
    ch'el girava dedree del Dòmm.
    El portava 'l s'ciopp in spalla:
    gh'ho proprio de contalla?

Un tram cigola acuto sulla svolta, col suo campanello martellato. Un clacson fa decollare di colpo tutti i piccioni della piazza.

Dei ragazzi, visi magri incorniciati da capelli lunghi, seduti a fumare sui gradini del Duomo.

Due sciôre in tailleur sotto il ginocchio, canini d'oro e pettinatura cotonata a ortensia; ben messe, anche se gh'avarànn i sò bèj annítt calcaa. Squadrano il gruppetto con riprovazione e, in tono di pietosa diagnosi, sospirano:

Studenti!

Uno dei ragazzi prende a cantare una canzone di Theodorakis accompagnandosi alla chitarra; una sgarzolina in minigonna rossa gli fa coro. Le sciôre scuotono la testa:

Che generaziôn. Non ci han piú rispetto di niente, neanche di farsi vedere qui in piazza consciaa in sta manera, a batter la fiacca. Te se rigòrdet 'l més passaa, quando quelli lí han distribuito proprio qui in Galleria quei volantini che diséven de vervi nò le uova di Pasqua della Motta, perché erano destinate al Vietnam e ci avevano dentro el napalm? Che stremízz che m'hann faa ciappà. Dimmi te se son scherzi da fare. Ma cosa ci hanno nelle zucche, sta gente?

Coo sbusaa, che gh'hann minga vœuja de studià.

Guarda quello là, con la camicia a fiori e la frangetta. Ghe manca solo l'anello al naso.

Bítnic yé-yé, ghe ciàman. Mi disaría: invertiti. Ma quel che püssee me fa rabbia l'è che le ragazze ci muoion dietro a dei tipi cosí. Guarda lí quella tòsa col vestitino strenc a tira-in-cü...

Bisognaría fà intervegní i vigili.

Un repulisti ghe voraríss. Con le forbici e il Ddt contro i pidocchi.

Pensare che volendo podaríen stà mèj che el papa a Roma e andà in paradís bèj grass come porscèj. E invece, varda, vanno in giro come degli strapelati. Ah, se mí a fussi la sôa mamma, li manderei tücc a lavôrà a pesciàd in del cü. Altro che fumare...

Macché fumo! Se dròghen, passan 'l dí a fà l'orgia tücc ammontonaa: non vedi che faccítt giald pèll-e-oss? L'è il vizio!

Il Dante le ascolta boccaperta; si volta verso il cane:

Guarda te come sei magro: ergo, di sicuro sarai anca vizioso. Regòrdet che un bel culazzo e una grossa trippa che impieníss on cadregôn in sti temp del cazz hinn quell che ghe vœur per fàss reputaziôn.

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Poi di nuovo il Dante torna a scarpinare dietro la stazione Nord. Il cielo è ancora imbevuto d'acqua, ma decisamente piú chiaro. In un androne le voci di una coppietta, quasi una risata: gli entran dritte al cuore come una lama. «Conosco i segni dell'antica fiamma», secondo le parole del poeta. Il Dante rimane a strologare guardando i due che si allontanano teneramente a braccetto. Oh dolci baci, oh languide carezze... Le orecchie gli fanno male a furia di cercare di ascoltare le voci dei due morosi. Ecco, hanno già svoltato l'angolo.

    Celeste Aida,
    forma divina,
    sbattémes i ciapp, cicíp, ciciàp,
    sbattémes i ciapp, cicíp, ciciàp.

Ai suoi bei dí, quando anche lui era un farfallone amoroso e aveva occhi che spandevano luce: stanzette d'alberghetti strapelati col letto cigolante, grovigli di vestiti per terra, il lavamano di ferro con la brocca dell'acqua; e lui tutto pimpante con la squinzietta del momento a provar le varie giostre carnali in giubilanti fornicazioni, ché il suo appetito era gagliardo, e né a tavola né a letto ci vuole rispetto:

    vègn chí bionda,
    ciàppal de sòtt ch'el donda...

Quel momento del godere, splendido rigoglio animalesco, ma cosí fuggitivo, che passava via senza fermarsi, consummatum est... Una goccia lo sveglia dal suo trasognare sulla musica degli anni che corron via e tutti i dí ne passa uno. Sangua da bíss, ripiove, bisogna aprire nuovamente l'ombrello. Con una specie di tagliente tristezza, il Dante pensa alle sue cosce stagionate, all'età che ormai lo rende come Sansone dopo lo sbarbisamento compiuto da Dalila. Caro el mè Dante, che non serve a niente rammollirsi, lamentarsi come i gru

    quand fan voland per l'ari on forcellon
    cont quella cova attacch che forniss pú;
    né occor che speren la consolazion
    che el vent el calla oppur ch'el taja sú.
    E pœu sperà che coss! col viv sperand
    podaraven morí forsi rimand.

Lo sguardo comunque gli resta per un po' illuminato; come quando alla fine di un film commovente sfilano i titoli e ancora dura la musica...

Mòccala, Dante. Dàgan un tàj. Avanti marsc!

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Silenzio


Le quattro passate. Scende il veloce buio di dicembre, domani sarà Santa Lucia, il giorno piú corto che ci sia.


Piazza Fontana è il cuore esatto di Milano: con le guglie del Duomo, la fontana del Piermarini, l'Arcivescovado, la banca dell'Agricoltura affollata degli ultimi clienti del venerdí; a due passi da qui, dove adesso sta via Laghetto, c'era il porto a cui approdavano le chiatte dei Navigli, all'epoca in cui Milano era un fiore e l'acqua dei canali fumava nebbia sotto le case.

Piazza Fontana è il punto preciso in cui poggiare l'orecchio per terra di modo da sentire battere il polso della città. Il luogo dove si incontrano tutte le strade che il Dante ha percorso nella sua vita camminante.


Il rumore dell'esplosione impietrisce i passanti. Bombe... Con tutto quello che il corpo sa in un istante; tutto quello che i sensi captano e si trasmettono collegando innumeri percezioni depositate sul paesaggio della memoria; tutto quello che l'occhio e l'udito colgono di dissimile ma che compone una stessa e unica scena: bombe...

La bocca si apre nel tentare un grido che però non esplode ma si risolve in un rantolo di impotenza, perché lo sforzo di farlo uscire contrae i tendini del collo, fa gonfiare le vene sulle tempie.

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