Copertina
Autore Gianni Paris
Titolo Mare nero
EdizioneDell'arco, Bologna, 2006 , pag. 144, cop.fle., dim. 140x210x10 mm , Isbn 978-88-7876-025-7
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe narrativa italiana , storia contemporanea d'Italia
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Pagina 7

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Mia sorella. Lo devo a mia sorella. Se oggi sono qui, lo devo a lei. Alla minigonna di Aicha. Alle sue scarpe consumate e lucide. Alle calze a rete. Al rossetto invadente. Ai capelli lavati e profumati. Alle sue notti-giorno. Al soffitto ondulato. Al sudore lungo il viale. Alle sue mani tremanti. Al suo letto solitario. Alla febbre che la sta divorando. Alla speranza di spedire soldi. Soldi dalla terra promessa. Ma... Ma non lo posso dire. No, non lo posso dire ad Abdellah. Questo chiacchiera. Oh, se chiacchiera! Da quando siamo rinchiusi qua, dentro questa baracca di legno marcio, non ha smesso un secondo. Neanche per ascoltare. Interrompe, suggerisce, aggiunge. Disegna il futuro degli altri come fosse un mago. È contento di andare via. Di abbandonare per sempre la sua Tunisia. La sua Africa. O forse è solo eccitato. Ha detto di avere trent'anni, come me. Anche se non sa il giorno in cui è nato. Sui documenti è scritto sette marzo, però si tratta di un rimedio. I suoi non si ricordavano. All'ufficio anagrafe si sono presentati dopo circa una settimana, e avevano la testa confusa. Il giorno dell'evento non era importante. Bastavano i pianti di Abdellah a registrare la sua venuta. E, come me, anche lui parte da vecchio. Con qualche ruga. Sì, perché la pelle degli altri, di molti altri, è più giovane. Abdellah viene da una famiglia di contadini e pastori. Come molti, dentro il buio impolverato di queste pareti. È partito da un villaggio a sud della Tunisia, che non risulta in nessuna cartina. Inesistente. Evaporato dalle partenze dei predecessori. Fino a qualche mese fa, Abdellah ha aiutato la sua famiglia. Ha zappato, tagliato la legna, munto il latte, ucciso animali. Rubato qua e là. Rubacchiato per necessità. Sì, non ha avuto nessuna vergogna a dirlo. E, nelle facce nascoste dei vicini, il silenzio ha parlato. Ha dichiarato la sua complicità.

Nella terra promessa, Abdellah, vuole fare il venditore ambulante. C'è uno zio che lo aspetta. Ha una casa nella periferia romana. E, come per lo zio, la merce sceglierà lui.

«Avere una donna, e comprare una macchina», dice.

Questo sarà il calcolo della sua addizione.

Delle sue giornate sfinite e dilatate.

Poi...

«Abitare in una casa tutta mia».

E probabilmente camuffarsi tra la folla.

Anche nella voce degli altri si avverte questa eccitazione. Si raccontano, stando seduti. Stipati in attesa di salpare. Si raccontano il loro passato, quello che vogliono gettarsi alle spalle. Quello che cercheranno di ricordare meno. Sono convinti che la terra promessa ci accetterà senza troppi ostacoli.

Il razzismo, beh...

I pregiudizi.

L'equazione musulmano uguale terrorista. Un'equazione stupida, ma presente. L'undici settembre ci ha schedato. Non abbiamo colpe, ma in Europa ci sentiremo tutti un po' ricercati. Inseguiti dalla legge. Nella fototessera dell'immaginario occidentale c'è scritto: musulmano dirottatore di vite. Invece no. Islam significa sottomissione. Deriva da un'altra parola che sta a indicare la pace.

La guerra santa...

La guerra santa è solo una cura interpretata singolarmente. Soprattutto da chi ha il dito sul grilletto. E non c'è nessuna giustificazione in una pallottola. Non c'è nulla di sovversivo in un immigrato che vuole inviare ogni mese i soldi a casa. Frazionare il suo salario per asciugare le lacrime.

E poi...

Poi dovremo sempre fare i conti col colore della nostra pelle, e con la diversità di cultura. Con le porte chiuse e il dialogo latitante. Ma, dicono, ci si abitua.

Loro, quelli che mi alitano da vicino, indossano vestiti leggeri, qualche maglione attorno alla vita e pantaloni scuri. Qualcuno ha un giubbino sotto il sedere o dietro la schiena. A qualcun altro mancano persino le scarpe, o forse formano la base di un cuscino di fortuna. Tanti hanno solo dei sandali, niente vestiti pesanti. Pochi, pochissimi hanno con sé una coperta di lana. Il viaggio estenuante e il caldo africano non lo consentono, non amano l'appesantimento. Sulle cosce di molti staziona una busta: bianca e di plastica. Contiene alimenti e abiti di ricambio. Le scorte di cibo hanno i giorni contati, o forse sbaglio. La fievole luce che penetra dalla finestra è ingannevole. Involontariamente menzognera. Il sole è quasi del tutto oscurato da un pannello esterno; appena forato in tre punti, larghi come sassi da fionda. E non ci rende nitidi, non dà volto alle aspirazioni. È difficile tratteggiare le nostre linee levigate dalla sofferenza. Quel patimento e quell'imminente carico umano rappresentato da somali, soprattutto, eritrei, etiopi, e da una sparuta minoranza di tunisini ed egiziani.

Io, eh...

Io sono una biglia impazzita. Anomala, in questa truppa ansiosa. Sono l'unico marocchino della spedizione. Ho compiuto un itinerario moltiplicato, snervante. Io che ho visto la Spagna coi miei occhi. Da Tangeri, i tori si possono raggiungere a nuoto, con un salto. Da una pensione, dove sono stato tre mesi ad ascoltare l'attesa, si possono perfino distinguere un paesino e un faro. Ma lo stretto di Gibilterra è strozzato, causa l'ingorgo delle navi, i controlli serrati e i fucili spianati. Tanti marocchini hanno provato e tanti sono stati rispediti indietro. Tempo cancellato e soldi buttati. Tutto da rifare. Anch'io mi sono avventurato, prima di diventare una biglia. Una pallina spinta dalle mani degli altri. Ho cercato di corrompere anche due camionisti. Un connazionale e un italiano, che venivano a controllare se le calamite umane si erano attaccate senza chiedere permesso. Loro hanno voluto i miei soldi ma non offrivano garanzie. Avrebbero negato ogni parola, ogni accordo per non rischiare le sbarre e la severità delle forze dell'ordine. E io cinque volte ci ho provato, anche senza permesso, col cuore in gola e il fiato soppresso, pensando di essere un pezzo di ferro, uno pneumatico consumato o un cous cous prelibato.

La scena era sempre la stessa.

Scatto, nascondiglio, scatto.

Di notte, soprattutto.

Ancora scatto, nascondiglio, scatto.

E una volta, l'ultima, anche al mattino.

Mi sono infilato nei cassoni dei tir in partenza, usando le braccia come corda, come ganci fatti di nervi e nient'altro. Ho cercato l'invisibilità nei carichi di tappeti lavorati a mano e nell'odore dei prodotti tipici marocchini da esportazione. E cinque volte sono diventato un oggetto da trascinare. Tirato per i capelli. Con calci e pugni a ricordarmi l'amara realtà di una terra che non voleva proprio mollarmi.

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Troppi lampi. Troppi tuoni. Il cielo non ha più colori. Il nero domina e il grigio è suo fratello. Non c'è più nitidezza attorno alla barca. Il posto in cabina si è allargato. Come un maglione non sufficientemente curato. Ma oltre le sette persone, in piedi e accucciate, non è possibile andare. Piove a dirotto. A momenti, vediamo folate di vento e grandine. Ci sentiamo presi d'assalto. Contro di noi si scatena una sassaiola martellante e rumorosa. Il vento si mette da parte. Solo per un po'. Poi torna e la grandine ci insegue. Se ci fermiamo, col motore che a tratti sparisce dalle nostre orecchie, si ferma anche lei. Non si vede più niente. Siamo entrati in un altro mondo. Forse è l'anticamera dell'inferno.

I corpi dell'equipaggio sono ormai tamburi improvvisati. Nessuno, tranne noi protetti dal tetto di juta, viene risparmiato dall'ira del cielo. Le grida sono la risultanza dei colpi inferti in sequenza.

I bambini di Usmane mettono la testa dentro la cabina. È un momento terribile, ma loro non appaiono spaventati.

Il vento torna a spirare con veemenza e la gradine va via, trasloca. I chicchi si spostano in un altrove dominato dai pesci.

I corpi a prua sono lividi e imploranti. Ora sì. Possono aprire gli occhi. Alzare il capo, guardare e guardarsi. Proseguire a essere vittime passive del lavaggio senza scelte. Un lavaggio ancora invadente. I sassi non scendono più. Non scandiscono il ritmo dell'avventura. Ed è una buona notizia. Un passo in avanti. Anche la foschia è meno avvolgente e ci consente di respirare fino in fondo.

Io ho paura. Credo di averne tanta, ma non ho il tempo di comunicare con lei. Il cuore batte forte. Rispecchia la situazione tempestosa. Il ciclo accelerato delle cose. Sono molto nervoso. E la pioggia cadenzata dall'ordinarietà del vento mi riapre lo stomaco, inaspettatamente.

Prendo un tozzo di pane. Lo faccio in modo furtivo.

Mollo la presa dalla base della finestra...

È un attimo.

Batto la testa all'angolo della cabina.

Batto la parte alta del capo. Il dolore non lo sento.

Mi tasto. Controllo l'eventuale bernoccolo.

Ancora non si forma.

Fa male se spingo, ma non c'è traccia di sangue.

Mastico. Continuo a masticare piano. A piccoli morsi. Lo stomaco sale e scende. La testa è come capovolta. Eppure mastico come se mi trovassi a tavola. Senza fretta.

Ahmad mi fa cenno di voler addentare. Vuole un morso, e non posso dire di no. Non a lui, al comandante. Bevo un po' d'acqua. Un nuovo sussulto ci scuote, e l'acqua mi va di traverso. Fuoriesce dal naso. Passiamo sopra l'ennesima onda proibita.

Il motore scoppietta ancora. Il fumo entra in un labirinto di correnti, e i nostri polmoni sono una delle tante uscite. La carretta annaspa e ogni tanto ci affumica. Prova a tagliare le onde, ma il risultato non c'è. Non si vede. Viene quasi annullato dalla forza del vento che innalza autentici muri. Io me ne sto ancora in piedi, appoggiato alla finestrella di sinistra, con la busta dei viveri che compie giri di trecentosessanta gradi. Il polso è stritolato.

A prua e sul ponte, si rimane legati. Gambe e braccia sono ganci utili per tenersi stretti. Hanno formato una rete. Una rete impregnata di acqua salata e di chicchi residui.

Scoppietta più forte.

La corsa si incammina.

Rallenta, rallenta sempre più.

Guardo Ahmad e Abdellah. I loro occhi sono afflitti, sfuggenti. Hanno timore dell'incrocio. Guardano il motore. Restano zitti. televisione e radio si spengono. Cercano solo di trovare risposte. Non si rendono conto dell'aritmia. Lo scoppiettio è aumentato a dismisura. Va e viene, in un vortice al risucchio. Il motore perde colpi e il fumo è più denso. Le onde si attenuano, ma lui non sembra giovarsene. Vorrebbe tornare a bruciare carburante, ripetere i movimenti meccanici, ma il suo ritmo è smarrito.

Ha qualche impennata di orgoglio, ma dura poco.

Troppo poco per restituire la voce al comandante e al suo vice. L'aritmia lo indebolisce. L'equipaggio chiede ad Ahmad spiegazioni. Le sue labbra rimangono compresse. Non si aprono. Vento e onde non sostituiscono un pensiero disperante. Non lo traducono. Il silenzio che segue non soddisfa nemmeno i bambini. L'equipaggio capisce che radio e televisione sono finite nel profondo mare, mentre il motore tira fuori una grande nube.

Poi...

Poi...

Poi ci guardiamo tutti in faccia.

Negli occhi.

Qualcuno piange.

Qualcun altro si mette le mani sul volto.

Abdellah va a verificare, ma deve stare attento alle salite e alle discese improvvise. Alle montagne di acqua che salgono imperiose al cielo e ricadono dentro la barca. Ahmad ordina a tutti di rimanere seduti o allungati. Ne va della loro incolumità.

«Le donne e i bambini devono mettersi dietro la cabina di comando! Saranno più riparati dal vento e anche dalla pioggia», dice urlando. «Camminate in ginocchio, così non perderete l'equilibrio».

Tenta.

Non sa in che modo, ma tenta.

Abdellah prova a far ripartire il motore, azionando l'apposita leva. Tira. Tira energicamente invocando Allah. Ma non c'è nessun riscontro. Nemmeno un rumore accennato. Intanto viene lavato dall'ennesima onda ballerina.

Si inginocchia.

Toglie il tappo dal serbatoio.

Mette prima il naso e poi l'orecchio nell'imbocco.

Vuole sentire le onde anche nel serbatoio.

«No. Non manca il carburante», dice. «E poi lo scoppiettio è durato a lungo. I singhiozzi sono stati molti. Se fosse stata colpa del carburante, il motore si sarebbe fermato molto prima».

Smanetta ancora a poppa, cercando di capirci qualcosa di quel rudere della meccanica, ma dopo un po' alza la testa. Esausto e sconsolato.

Anche altri due uomini, tra cui Usmane, si portano al motore.

«Il carburante...», esita Usmane, dopo aver ripetuto le stesse mosse di Abdellah, «non c'è. Mi dispiace contraddirti», e guarda Abdellah, deluso e incredulo.

Per Usmane è la nafta il vero e forse unico problema. Il vice comandante, scavalcati i corpi delle persone sedute in cabina, resta zitto al mio fianco. Non vuole ribattere, anche perché è amareggiato e disorientato. Come tutti. E, come tutti, si sente tradito dai traghettatori. Tradito nella promessa.

«L'odore di nafta è come svaporato», dice Usmane, che staziona sopra il motore, mentre il vento alza la sua camicia e gli scopre la schiena. «Quasi non si sente!», e alza il tono della sua voce. «Ci puoi respirare qui dentro». Indica il serbatoio infilando un dito.

«Abbiamo fatto poche miglia a buona andatura», dice un altro somalo, un certo Mouhane. «Poi abbiamo solo passeggiato. Vi rendete conto di questo?! La barca non ce la faceva a tenere il passo e superare le onde. E poi non neghiamoci che ha consumato tanta nafta per il sovraccarico e per il tempo avverso».

La verità la conoscono tutti, fatta qualche debita eccezione. E tutti, forse, ancor prima di salirci sul barcone, lo sapevano quali sarebbero state le condizioni. Lo sapevano e hanno accettato lo stesso di tentare la fortuna, sperando in un Mediterraneo più clemente.

Restiamo zitti. Noi uomini restiamo in silenzio. Ci teniamo stretti. Schiena contro schiena. Fuori e dentro la cabina. Anche per riscaldarci. Molti sono intirizziti dal vento che sveglia a ogni bordata. La maggior parte dell'equipaggio è zuppo. Bagnato dalle onde maleducate e da una pioggia capricciosa. Bagnato fin dentro le viscere. Bagnato nel futuro. Ahmad tiene il timone, ma non è più la stessa cosa.

A prua, due uomini si vomitano addosso. Non riescono a sopportare le ultime montagne. Non sono in grado di digerire la balia alternata delle onde che dura da ore. I loro stomaci sono presi a pugni e svuotati da una rabbia nascosta.

Io...

Io non riesco neanche a pregare, anche se è l'unica cosa che resta. Non ho portato dietro il Corano perché c'era altro nella mia testa, e poi ora non ho voglia di pregare. Mi sento in pericolo, e non prego. Non sono capace di pensarla, la preghiera, anche se gli altri chiudono gli occhi e si rivolgono a Dio. Io l'unica cosa che guardo è oltre i sacchi di juta del tetto della cabina. Cerco di notare uno squarcio di azzurro nel cielo.

Cerco...

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