Copertina
Autore The Paris Review
Titolo INTERVISTE, III
EdizioneFandango, Roma, 2011 , pag. 490, cop.fle., dim. 14,8x21x2,6 cm , Isbn 978-88-6044-204-8
OriginaleThe Paris Review. Interviews, vol. III [2008]
CuratorePhilip Gourevitch
PrefazioneMargaret Atwood
TraduttoreMaria Sole Abate
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe storia letteraria , biografie
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Indice


Introduzione di Margaret Atwood                   7

Ralph Ellison (1955)                             13
Georges Simenon (1955)                           34
Isak Dinesen (1956)                              54
Evelyn Waugh (1963)                              79
William Carlos Williams (1964)                   91
Harold Pinter (1966)                            130
John Cheever (1976)                             155
Joyce Carol Oates (1978)                        180
Jean Rhys (1979)                                209
Raymond Carver (1983)                           227
Chinua Achebe (1994)                            260
Ted Hughes (1995)                               287
Jan Morris (1997)                               335
Martin Amis (1998)                              363
Salman Rushdie (2005)                           391
Norman Mailer (2007)                            437

Gli scrittori                                   478
Ringraziamenti                                  489


 

 

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Pagina 7

Introduzione


Nel 1953, quando George Plimpton divenne il primo direttore della Paris Review, avevo tredici anni. La Seconda guerra mondiale era finita da appena otto anni; la Guerra di Corea stava volgendo al termine; si profilava la minaccia della bomba all'idrogeno, e Joseph McCarthy con la sua "caccia alle streghe" era in piena attività. Le automobili avevano gli alettoni extraterrestri; Elvis Presley aveva quasi conquistato l'immortalità; la televisione era una grossa scatola con uno schermo tremolante, pensata per ipnotizzare chi ne era diventato schiavo. La radio e il cinema imperavano, come Marilyn Monroe. Vivevamo nell'era della cultura popolare al massimo del suo splendore.

Paradossalmente, era anche il periodo in cui la scrittura impegnata occupava gran parte della scena, e – grazie alle edizioni economiche – si rendeva ampiamente disponibile all'intero pubblico di lettori: Faulkner, Steinbeck e J.D. Salinger, perfino classici come Cime tempestose si potevano trovare nel negozietto all'angolo, spesso con orrende copertine in cui erano ritratte giovani donne che assomigliavano a Jane Russell, strabordanti nelle loro camicette mal abbottonate. La rivista Life si occupava di scrittori come Robert Frost, Ernest Hemingway, Isak Dinesen e dei beatnik come Jack Kerouac, ma solo a fama già consolidata. Nel Nord America di quei tempi gli unici obiettivi seri da perseguire erano fare la guerra e i soldi: gli scrittori venivano considerati artisti marginali, ed erano rispettati solo se ce l'avevano fatta dal punto di vista economico. Eudora Welty ha riassunto questo concetto in uno dei suoi racconti: "Se sei così intelligente, perché non sei anche ricco?".

The Paris Review si propose fin da subito come la dimora degli scrittori di valore – quegli scrittori di valore non ancora abbastanza famosi per Life né abbastanza ricchi da meritarsi il rispetto della società. Al contrario, la Review stabilì che dovevano essere rispettati – oppure no – sulla base delle loro conquiste da scrittori. Ma perché proprio The Paris Review, e non "The New York Review" o "The Chicago Review"? Parigi era ancora un posto economico, intellettualmente vivo, il luogo ideale in cui saresti dovuto andare per poter scrivere se eri giovane, romantico, senza una lira e appassionato della tua arte.

Quando Plimpton si mise a capo della Paris aveva ventisei anni, un americano stravagante pieno di energie e amante degli scherzi. Sotto la sua eccentrica influenza, le feste sfrenate e le sedi improbabili delle sue redazioni rappresentarono parte integrante della prima immagine della Review. Forse all'inizio concepì la Paris Review come una delle ennesime stravaganze in un mondo in cui tutto sembrava estremo e distorto e in continua evoluzione, così veloce da non poter essere afferrato, in cui dedicare il proprio tempo e sforzo per produrre una rivista letteraria era ritenuta una cosa paragonabile a ingoiare un centinaio di pesci rossi.


Trascorsi gli anni Cinquanta, quando ormai ero cresciuta e diventata scrittrice io stessa, The Paris Review non era più una stravaganza. Era diventata un'istituzione, e la sua raccolta di interviste a scrittori era già il massimo riferimento in questo campo. In un certo senso, The Paris Review si era inventata la propria forma, poiché nonostante erano anni che gli scrittori erano oggetto di interviste, si trattava sempre di cose giornalistiche del tipo cosa-fa-prima-di-colazione, oppure della serie caccia al leone, tanto detestato da molti personaggi nelle opere di Henry James, o interviste in cui gli scrittori pontificavano sulle questioni del giorno. Quelle della Paris Review erano davvero diverse.

Col tempo, The Paris Review si prefisse un obiettivo ambiziosissimo, non dissimile da quello di un collezionista di farfalle: prendere nella rete tutti gli scrittori degni di nota, o almeno quanti più possibile. Leggere l'intera raccolta significa godere di una panoramica ineguagliabile del complesso mondo multidimensionale della scrittura nella seconda metà del secolo. Inoltre, le interviste della Paris Review non trattavano gli scrittori come celebrità o fenomeni da baraccone o simil esperti su argomenti che non fossero i loro, ma come seri professionisti impegnati nella scrittura. Né queste interviste sono degli astratti distillati di teorie: vengono presentati come reali conversazioni fra individui imperfetti, in cui entrambi i partecipanti magari mangiano o bevono, si spazientiscono, si fraintendono, tergiversano, spettegolano, prendono in giro i compagni scrittori, si infuriano contro il destino. Se è possibile ricreare l'essenza di un carattere grazie alle parole su una pagina, queste interviste lo fanno.

Ci sono molti consigli e suggerimenti utili e, se le interviste fossero dei libri di cucina, includerebbero questioni di abile maestria come essiccare il prezzemolo o capire quando l'uovo è andato a male. Tutti apprezziamo suggerimenti del genere: magari ci serviranno, magari no, ma è bello sapere che esistono. (Ecco i miei: leggete il manoscritto con un righello; è più facile trovare i refusi. Fate uno schema con le date di nascita dei vostri personaggi; così in ogni momento saprete la loro età.)

Infine, come hanno detto in molti, queste interviste sono di grande incoraggiamento per altri scrittori, soprattutto nei momenti in cui la fede sembra vacillare. Perché faccio una cosa così eccentrica come scrivere? Si tratta solo di nevrosi non elaborata? Perché passo l'intera giornata chiusa in una stanza, in compagnia di un gruppo di persone che non esistono? Cosa faccio di buono per il mondo? Non sarà che fa male alla salute? Perché sprecare carta? Ogni scrittore fa di questi pensieri di tanto in tanto, ed è rassicurante sapere che anche altri li hanno fatti: Non sono l'unico ad avere il disgusto della pagina bianca. E poi, non c'è nessuna evidente relazione positiva fra la buona scrittura e il successo commerciale – il valore non equivale al profitto – ma d'altro canto, non c'è nemmeno quella negativa - il profitto non equivale al disvalore. È rassicurante sapere che chiunque abbia perseverato, ha prodotto col tempo anche cose da buttare. E a volte – non sempre, ma a volte – lo scrittore sa esattamente quali siano. Ma va detto: i fallimenti sono superabili, e lo scopriamo da questi resoconti di vita, perché dopo vani tentativi che, nonostante le infinite riscritture, non sono mai riusciti a dovere, arriverà un vero capolavoro. E anche questo è incoraggiante.

Ma soprattutto, gli scrittori – che per la maggior parte del tempo sono soli – si rendono conto grazie a queste interviste di non esserlo. Altri hanno avuto dei dubbi, si sono bloccati e hanno mandato qualcosa in rovina; altri sono stati poveri e trascurati; altri sono stati trascinati nelle grandi occasioni letterarie e poi maltrattati dalla stampa; altri hanno tenuto duro superando gli ostacoli senza arrendersi. I giovani scrittori oggi leggono le interviste della Paris Review come un tempo leggevano La via del pellegrino: questa è dunque la strada, disseminata di pericoli e tentazioni, e là ci sono i mostri.

Ma ci sono anche le ricompense e i piaceri, i momenti di esultanza, la consapevolezza di un lavoro fatto bene: perché la vita di uno scrittore è piena di gioie oltre che di dolori. Altrimenti, perché farlo?

Margaret Atwood

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Pagina 34

Georges Simenon

L'arte della narrazione


Studio di Georges Simenon nella sua tortuosa casa bianca ai margini di Lakeville, nel Connecticut, dopo pranzo. Un'assolata giornata di gennaio. La stanza rispecchia le caratteristiche del proprietario: allegria, efficienza, ospitalità, controllo. Contro le pareti ci sono libri di legge e medicina, due campi in cui è diventato un esperto; gli elenchi telefonici di diverse parti del mondo che consulta per dare i nomi ai personaggi; la piantina di una città in cui ha da poco ambientato il suo quarantanovesimo romanzo di Maigret; e un calendario sul quale con una matita ha spesso segnato una croce su ogni giorno passato a scrivere il romanzo di Maigret — un giorno a capitolo — e i tre passati a fare la revisione, una fatica che ha generosamente interrotto per questa intervista.

Nell'ufficio adiacente, dopo aver verificato che sia stato organizzato tutto nel migliore dei modi per suo marito e il suo intervistatore, Madame Simenon torna a occuparsi degli affari di uno scrittore che pubblica sei romanzi l'anno e i cui contratti per libri, adattamenti, e traduzioni sono in più di venti lingue.

Con grande garbo e con una voce piena che arricchisce di sfumature la naturale gamma di significati di ogni affermazione, Georges Simenon continua il discorso cominciato in sala di pranzo.

Carvel Collins, 1955


Solo una volta un consiglio generico da parte di uno scrittore mi è stato molto utile. Si tratta di Colette. Scrivevo racconti per Le Matin, e Colette era caporedattrice della sezione letteraria all'epoca. Le sottoposi due racconti e li rifiutò entrambi e io continuai a provare, ancora e ancora. Alla fine mi disse, Senti, sono troppo letterari, sono sempre troppo letterari. Seguii il suo consiglio. È quello che faccio quando scrivo, la cosa principale quando riscrivo.

Cosa intende con "troppo letterario"? E cosa elimina, un certo tipo di parole?

Aggettivi, avverbi, e ogni parola che è lì solo per fare effetto. Ogni frase che è lì solo per la frase. Hai ottenuto una frase meravigliosa tagliala. Ogni volta che trovo una cosa del genere in uno dei miei romanzi la devo eliminare.

È a questo tipo di revisione che si sottopone in gran parte?

Quasi completamente.

Non si mette a rivedere la trama?

Oh, io non tocco mai niente in questo senso. Mi è capitato di modificare i nomi mentre scrivevo: una donna potrebbe chiamarsi Helen nel primo capitolo e Charlotte nel secondo, per esempio; e nella fase di revisione sistemo queste cose. E poi, taglio, taglio, taglio.

C'è qualcos'altro che vorrebbe dire a uno scrittore esordiente?

Scrivere è considerata una professione, ma io non la ritengo tale. Io penso che chi non sente di dover essere uno scrittore, chi pensa di poter fare qualcos'altro, allora dovrebbe fare qualcos'altro. Scrivere non è una professione ma una vocazione all'infelicità. Non credo che un artista possa mai essere felice.

Perché?

Innanzitutto perché credo che se un uomo ha l'urgenza di essere un artista vuol dire che ha bisogno di trovare se stesso. Ogni scrittore tenta di trovare se stesso attraverso i suoi personaggi, e attraverso tutta la sua scrittura.

Scrive per sé?

Sì. Certo.

È consapevole del fatto che ci saranno dei lettori del suo romanzo?

So che esistono molti uomini con dei problemi simili ai miei, più o meno profondi, che saranno felici di leggere il libro per trovare la risposta - ammesso che sia possibile trovarla.

Anche nel caso in cui l'autore non trovi la risposta, i lettori possono comunque trarre beneficio visto che lo scrittore sta evidentemente cercandola nel buio?

Esattamente. Certo. Non ricordo se le ho mai parlato di una sensazione che ho da diversi anni. Dal momento che la società, oggi, non ha né una fede incrollabile, né una stabile gerarchia di classi sociali, e la gente ha il terrore della grande organizzazione all'interno della quale sa di essere solo una piccola parte, leggere un certo tipo di romanzi è un po' come spiare dal buco della serratura per vedere cosa fa e pensa il vicino di casa – ha anche lui lo stesso complesso di inferiorità, gli stessi vizi, le stesse tentazioni? È questo che il lettore cerca nell'opera d'arte. Credo che oggi siano aumentate le persone insicure in cerca di sé.

Ci sono così poche opere come quelle che scriveva Anatole France, per esempio – calme, eleganti e rassicuranti. Al contrario, oggi la gente vuole libri molto complessi, che approfondiscano ogni recesso della natura umana. Capisce cosa intendo?

Immagino di sì. Lei intende dire che questo non dipende solo dal fatto che oggi pensiamo di saperne di più di psicologia ma anche dal fatto che esistono più lettori che hanno bisogno di questo tipo di letteratura. È così?

Sì. Un uomo qualunque di cinquant'anni fa... Ci sono molti problemi oggi che non conosceva. Cinquant'anni fa aveva le risposte. Oggi non più.

All'incirca un anno fa io e lei abbiamo sentito un critico invocare che il romanzo di oggi tornasse a essere come quello del diciannovesimo secolo.

È impossibile, del tutto impossibile, credo. Perché viviamo in un tempo in cui gli scrittori non hanno sempre delle barriere intorno, possono cercare di presentare i personaggi attraverso la più completa e totale espressione. Si può rappresentare l'amore in una bella storia, i primi dieci mesi di due amanti, come nella letteratura di molto tempo fa. Oppure in un secondo tipo di storia: i due cominciano ad annoiarsi; e questa è la letteratura della fine del secolo scorso. E poi, se sei libero di poter andare oltre, l'uomo ha cinquant'anni e vuole avere un'altra vita, la donna si ingelosisce, e i figli vengono messi in mezzo; questo è il terzo tipo di storia. Noi oggi siamo la terza storia. Non ci fermiamo quando, si sposano, non ci fermiamo quando cominciano ad annoiarsi, noi andiamo fino in fondo.

In relazione a questo, sento spesso gente che si chiede il perché della violenza nella letteratura moderna. Io sono favorevole, ma vorrei domandarle il motivo per cui ne scrive.

Siamo abituati a vedere persone portate al limite.

E la violenza ha a che fare con questo?

Più o meno. Non pensiamo più all'uomo dalla prospettiva di alcuni filosofi; per molto tempo l'essere umano veniva osservato partendo dal presupposto che vi fosse un Dio e che l'uomo era il re della creazione. Ora non pensiamo più che l'uomo sia il re della creazione. Lo guardiamo bene in faccia. Alcuni lettori vorrebbero ancora leggere dei romanzi rassicuranti, che diano una visione confortante dell'umanità. Questo non è possibile.

Quindi se le interessano i lettori, è perché loro vogliono un romanzo che esplori i problemi di ognuno? Il suo ruolo è quello di guardarsi dentro e...

Esatto. Questo non significa che l'artista debba solo guardare dentro di sé ma che sappia guardare anche dentro gli altri attraverso l'esperienza che ha di sé. Scrive con immedesimazione perché sente che l'altro è come lui.

Se non ci fossero lettori continuerebbe a scrivere?

Certo. Quando ho cominciato a scrivere non l'ho fatto pensando che i miei libri avrebbero venduto. Più precisamente, all'inizio scrivevo pezzi commerciali - racconti per riviste e cose del genere — per guadagnarmi da vivere, ma non l'ho mai considerata vera scrittura. Alla sera, invece, quando lo facevo per me stesso, scrivevo senza l'idea che un giorno avrei pubblicato.

Forse ha avuto più esperienza di chiunque altro al mondo nella produzione di quella che ha appena definito scrittura commerciale. Che differenza c'è fra questa e quella non commerciale?

Io definisco "commerciale" ogni opera, non solo nel campo della letteratura ma anche della musica, della pittura e della scultura — qualunque tipo di arte — che venga prodotta per un determinato pubblico o per una certa pubblicazione o per una particolare raccolta. Ovviamente ci sono diversi gradi di scrittura commerciale. Esistono cose molto scadenti e altre invece di valore. I libri del mese, per esempio, sono commerciali; ma alcuni sono quasi perfetti, quasi delle opere d'arte. Non del tutto, ma quasi. E vale lo stesso per alcuni pezzi pubblicati dalle riviste; alcuni sono meravigliosi. Ma raramente possono essere considerati opere d'arte, perché un'opera d'arte non può essere concepita con lo scopo di accontentare un certo gruppo di lettori.

E in che modo questo cambia l'opera? Lei, in quanto autore, sa se ha confezionato un romanzo per il mercato, ma, guardandola soltanto dal di fuori, che differenza dovrebbe percepire il lettore?

La differenza maggiore sta nelle concessioni. Scrivendo per un qualsiasi scopo commerciale devi necessariamente scendere a patti.

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Pagina 227

Raymond Carver

L'arte della narrazione


Raymond Carver vive in una grande casa a due piani rivestita di legno in una silenziosa via di Syracuse, New York. Il prato sul davanti digrada via via verso il marciapiedi. Sul vialetto d'accesso c'è una Mercedes nuova. Una Volkswagen più vecchia, l'altra automobile di casa, è parcheggiata lungo la strada.

Per entrare in casa si attraversa un'enorme veranda coperta. All'interno gli arredi sono del tutto impersonali. Ogni cosa è intonata all'altra – divani color crema, un tavolino basso di vetro. Tess Gallagher, la scrittrice con la quale Raymond Carver vive, colleziona piume di pavone che dispone nei vari vasi in giro per la casa – il più vistoso tentativo ornamentale. I nostri sospetti sono stati presto confermati; Carver ci racconta che tutti i mobili sono stati comprati e consegnati nell'arco di una giornata.

Su un cartello di legno, che viene appeso sulla porta a vetri, Tess Gallagher ha scritto con un po' di vernice "Niente visitatori", facendo tutto intorno una cornice con un contorno giallo e arancione a forma di ciglia. A volte il telefono viene staccato e il cartello resta appeso fuori per giorni interi.

Raymond Carver lavora in una grande stanza all'ultimo piano. La superficie della lunga scrivania di legno di quercia è ordinata; la macchina da scrivere è appoggiata di lato, su una specie di ala. Non ci sono cianfrusaglie, né talismani, né giocattoli di nessun tipo sul suo tavolo da lavoro. Non è un collezionista né un uomo incline ai cimeli o alla nostalgia. Talvolta può capitare di trovare una busta di manila sulla scrivania, con all'interno il testo che sta revisionando proprio in quel momento. I suoi archivi sono ben ordinati. È in grado di tirar fuori un racconto e tutte le precedenti versioni in un attimo. Le pareti dello studio sono bianche come il resto della casa, e, come nel resto della casa, sono per lo più spoglie. La luce filtra nella stanza in fasci obliqui, come quella che penetra dalle finestre nelle chiese, attraverso un'alta finestra rettangolare che dà sul suo piano di lavoro.

Raymond Carver è un uomo robusto che indossa vestiti semplici camicie di flanella, pantaloni kaki o jeans. Sembra vivere e vestirsi come vivono e si vestono i personaggi dei suoi racconti. Per un uomo della sua stazza, ha una voce piuttosto bassa e indistinta; ci siamo trovati spesso a doverci chinare verso di lui ogni minuto per riuscire a cogliere quello che stava dicendo, ripetendo quel terribile: "Cosa, cosa?".

Alcune parti dell'intervista le abbiamo condotte per posta, tra il 1981 e il 1982. Quando abbiamo incontrato Raymond Carver, il cartello "Niente visitatori" non era appeso e alcuni studenti di Syracuse erano passati a salutarlo, incluso suo figlio, un universitario all'ultimo anno. Per pranzo ci preparò dei sandwich con il salmone che aveva pescato lui stesso sulle coste di Washington. Lui e Tess vengono entrambi dallo stato di Washington e ai tempi dell'intervista si stavano facendo costruire una casa a Port Angeles, dove avevano programmato di trascorrere una parte dell'anno. Gli domandammo se quella era la casa che sentiva più sua. "No, io sto bene ovunque. Sto bene qui", ci rispose.

Mona Simpson, Lewis Buzbee, 1983


Com'è stata la sua infanzia e cosa l'ha spinta a scrivere?

Sono cresciuto in un villaggio nella parte orientale dello stato di Washington, un posto chiamato Yakima. Mio padre lavorava nella segheria del villaggio. Era un affilatore e aiutava a tener bene le seghe usate per tagliare e levigare la legna. Mia madre faceva la commessa o la cameriera oppure restava a casa, ma non riusciva a mantenere a lungo un lavoro. Ricordo i discorsi sui suoi "nervi". Nel pensile sotto il lavandino della cucina teneva un flaconcino di "medicina per i nervi", e ne prendeva un paio di cucchiaini ogni mattina. La medicina per i nervi di mio padre era il whisky. Spesso ne teneva una bottiglia sotto lo stesso lavandino, oppure fuori, nella legnaia. Ricordo che una volta ne rubai un sorso e lo trovai disgustoso, mi chiesi come si potesse bere quella roba. Abitavamo in una casetta di due camere. Ci spostavamo spesso quando ero bambino, ma sempre in case composte da due stanze. La prima di cui ho dei ricordi, vicino al luna park di Yakima, aveva il bagno fuori. Era alla fine degli anni Quaranta. Avevo otto o dieci anni all'epoca. Aspettavo mio padre dal lavoro alla fermata dell'autobus. Generalmente era puntuale come un orologio. Ma più o meno ogni due settimane, su quell'autobus non c'era. Restavo lì in attesa del successivo, già sapendo che non sarebbe stato nemmeno su quello. Quando succedeva, significava che se ne era andato a bere con i suoi amici della segheria. Ricordo ancora la tristezza e la disperazione a cena quando io, mia madre e mio fratello più piccolo ci sedevamo a mangiare.

Ma cosa la spinse a voler scrivere?

L'unica spiegazione che posso darvi è che mio padre mi raccontava molti racconti di lui da piccolo, di suo padre e suo nonno. Il nonno aveva combattuto nella Guerra civile. Per entrambe le fazioni! Era un voltagabbana. Quando il Sud cominciò a perdere la guerra, passò dalla parte del Nord e si mise a combattere per l'Unione. Mio papà rideva raccontando questa storia. Non ci vedeva niente di sbagliato, e forse nemmeno io. Ad ogni modo, mio padre mi raccontava queste storie, aneddoti senza alcuna morale in realtà, sulle camminate nei boschi, o di quando saltava sui treni in corsa facendo attenzione alle guardie ferroviarie. Adoravo la sua compagnia e adoravo ascoltarlo mentre mi raccontava queste storie. Ogni tanto mi leggeva stralci di quello che stava leggendo. I western di Zane Grey. Sono i primi libri con la copertina rigida, a eccezione dei testi scolastici e della Bibbia, che io abbia mai visto. Non capitava spesso, ma di tanto in tanto la sera lo vedevo sdraiato sul letto a leggere Zane Grey. Sembrava una cosa molto intima in una casa e in una famiglia in cui non c'era privacy. Mi resi conto che aveva questo lato segreto, qualcosa che non capivo e di cui non conoscevo niente, che trovava la sua massima espressione in quelle sue letture occasionali. Di lui mi interessava questa parte nascosta e l'atto della lettura. Gli chiedevo di leggermi quello che stava leggendo, e lui si prestava leggendo esattamente dal punto in cui si trovava nel libro. Dopo un po' mi diceva, "Junior, ora va' a fare qualcos'altro". Beh, c'erano moltissime cose da fare. A quei tempi andavo a pescare in un torrente non troppo lontano da casa, e poco dopo a caccia di oche, anatre e selvaggina. Era ciò che mi entusiasmava in quei giorni, andare a caccia e a pesca. Hanno lasciato un segno nella mia vita emotiva, ed è di questo che volevo scrivere. Le mie letture all'epoca, oltre a qualche romanzo storico occasionale o ai gialli di Mickey Spillane, consistevano in alcune riviste di sport, escursionismo, caccia e pesca, come Sports Afield, Outdoor Life e Field & Stream. Scrissi un pezzo piuttosto lungo sui pesci che mi sfuggivano o su quelli che prendevo, uno dei due, e chiesi a mia madre se poteva battermelo a macchina. Non sapeva farlo ma andò comunque ad affittare una macchina da scrivere, santa donna, e in due riuscimmo a batterlo alla bell'e meglio e poi lo spedimmo. Ricordo che c'erano due indirizzi sulla testata della rivista di sport all'aperto; e che lo mandammo a quello più vicino a noi, a Boulder, Colorado, presso l'Ufficio Distribuzione. Il pezzo alla fine tornò indietro, ma andava bene lo stesso. Quel dattiloscritto era stato in giro per il mondo – era stato in diversi luoghi. Qualcuno lo aveva letto, oltre a mia madre.

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Pagina 391

Salman Rushdie

L'arte della narrazione


Salman Rushdie è nato a Bombay nel 1947, alla vigilia dell'indipendenza indiana. Ha studiato in India e in Inghilterra, e proprio qui ha trascorso i primi anni della sua vita di scrittore. Oggi vive principalmente a New York dove l'anno scorso, in diverse sedute, ha avuto luogo quest'intervista. Per una pura casualità, il nostro secondo appuntamento è avvenuto il giorno di San Valentino del 2005, a sedici anni esatti dal proclama religioso (fatwa) che l'ayatollah Khomeini scagliò contro Salman Rushdie, definendolo un apostata per aver scritto I versi satanici e condannandolo a morte in nome della legge islamica. Nel 1998, il presidente dell'Iran, Mohammed Khatami, denunciò la fatwa e Salman Rushdie oggi insiste nel dire che il pericolo è passato. Ma gli estremisti islamici considerano quel proclama irrevocabile e l'indirizzo di casa dello scrittore continua a non comparire sull'elenco.

Per essere un uomo che ha suscitato tanto furore, che è stato elogiato e accusato, minacciato e celebrato, la cui immagine è stata bruciata oppure osannata come icona della libertà di espressione, Salman Rushdie è sorprendentemente simpatico e sincero — né una vittima perseguitata né un oppressore. Ben rasato, in jeans e maglione, sembra la versione più giovane del condannato che fissa i suoi accusatori nel celebre ritratto che gli fece Richard Avedon nel 1995. "La mia famiglia detesta quella fotografia", dice ridendo. Poi, quando gli chiediamo dove conserva la foto, sorride e risponde: "Appesa alla parete".

"È piuttosto difficile che io esca durante la giornata", afferma Salman Rushdie quando è al lavoro. Ma alla fine dello scorso anno ha consegnato il manoscritto di Shalimar il clown, il suo nono romanzo, e non ha ancora iniziato un nuovo progetto. Anche se ha detto di aver esaurito le risorse finendo quel libro, mentre parlava del suo passato, della sua scrittura, della politica sembrava quasi acquistare energia. Quando conversa, usa le stesse acrobazie mentali tipiche della sua narrativa – tortuose digressioni che raggiungono diversi continenti ed epoche storiche prima di tornare al punto di partenza.

La fatwa ha reso il nome Salman Rushdie più celebre di quello di qualsiasi altro romanziere vivente. Ma la sua reputazione di scrittore è stata difficilmente eclissata dagli attacchi politici. Nel 1993 ha ricevuto il "Booker of Bookers" – un riconoscimento per il romanzo I figli della mezzanotte, definito il miglior libro ad aver vinto il Man Booker Prize da quando lo avevano istituito venticinque anni prima – ed è attualmente presidente del PEN-American Center. Oltre ai romanzi, è anche autore di cinque libri di saggistica e di una raccolta di racconti. Il giorno di San Valentino, mentre si sistemava sulla sedia imbottita, fuori nevicava leggermente, e il comignolo di un inceneritore di un edificio a qualche isolato a est spandeva nel cielo una colonna di fumo nero. Salman Rushdie prese un po' d'acqua da un bicchiere, disse che sua moglie era stata un dono, poi si dedicò alle mie domande.

Jack Livings, 2005


Quando scrive, pensa a chi la leggerà?

Non lo so. Quando ero giovane, dicevo, No, sono solo il servo del mio lavoro.

Nobile.

Fin troppo nobile. Oggi mi interessa più la chiarezza come virtù che le virtù della difficoltà. Presumo significhi avere un senso più chiaro di come legge la gente, senso che dipende in parte, almeno credo, dalla conoscenza che ho del modo in cui la gente legge quello che ho scritto finora. Non mi piacciono i libri che vogliono strizzare l'occhio al pubblico, però oggi mi impegno al massimo per raccontare una storia in modo limpido e accattivante. Eppure, resta comunque quello che pensavo all'inizio quando ho scritto I figli della mezzanotte. Quando mi sembrava un'assurdità che la narrazione e la letteratura avessero preso direzioni diverse. Era una separazione inutile. Una storia non deve essere semplice, non deve essere monodimensionale ma, soprattutto se è multidimensionale, devi trovare il modo più chiaro e accattivante possibile per raccontarla.

Una delle cose che sembra ormai avere la mia paternità, tanto mi appartiene come argomento, è il modo in cui le storie di un qualsiasi luogo sono anche le storie di ogni altro luogo. Da un certo punto di vista, lo sapevo già, perché Bombay, dove sono cresciuto, era una città in cui l'Occidente già si mescolava completamente con l'Oriente. Le disgrazie della vita mi hanno dato la capacità di creare racconti in cui le diverse parti del mondo vengono a contatto, a volte in armonia, a volte nel conflitto, a volte in entrambi i modi - spesso in entrambi i modi. La difficoltà è che quando scrivi di qualunque luogo c'è il rischio di scrivere di nessun luogo. È un problema che lo scrittore che si occupa di un unico posto non deve affrontare. Questo sarà alle prese con altri problemi, ma quella cosa che hanno un Faulkner o una Welty - un pezzo di terra che conoscono profondamente e al quale appartengono totalmente, tanto da poterci tirar fuori tutta la loro vita senza rischiare si esaurisca – beh, quella cosa lì la ammiro ma non è quello che faccio io.

Come descriverebbe quello che fa?

La mia vita mi ha regalato un altro tema ricorrente: i mondi in collisione. Come si fa a far capire alla gente che la storia di tutti è ormai parte della storia di tutti gli altri? Un conto è dirlo, ma come si riesce a far sentire il lettore partecipe, visto che si tratta della sua stessa esperienza vissuta? I miei ultimi tre romanzi sono dei tentativi di trovare le risposte a queste domande: La terra sotto i suoi piedi, Furia e l'ultimo, Shalimar il clown, che comincia e finisce a Los Angeles ma la cui parte centrale si svolge un po' nel Kashmir, un po' nella Strasburgo occupata dai nazisti, un po' nell'Inghilterra degli anni Sessanta. In Shalimar, Max Ophuls è un eroe della Resistenza durante la Seconda guerra mondiale. La resistenza, che riteniamo eroica, è ciò che oggi definiremmo un'insurrezione in un periodo di occupazione. Oggi viviamo in un'epoca in cui esistono altre insurrezioni che non definiamo eroiche – ma terroristiche. Non ho voluto esprimere giudizi morali. Volevo solo dire, Questo accadeva allora, questo accade oggi, questa mia storia mette insieme le due cose, osservatele. Non credo sia compito dello scrittore dire, Significa questo.

Deve trattenersi dal dire, Significa questo?

No. Io sono contro tutto quello che avviene nel romanzo. Se scrivo un editoriale per un giornale, allora è diverso. Ma credo che dare istruzioni al lettore danneggi il libro. Il personaggio di Shalimar, per esempio, è un feroce assassino. Ci terrorizza, eppure in alcune parti – come la scena in cui vola giù dal tetto a San Quentin – facciamo il tifo per lui. È questo che volevo, che la gente vedesse con i suoi occhi, che sentisse ciò che sente lui, non intendevo dare per scontato che conoscesse di che tipo di uomo si tratta. Tra tutti i miei libri è quello che è stato maggiormente scritto dai personaggi.

Una grossa parte dell'idea originaria l'ho dovuta buttare via perché i personaggi volevano andare da un'altra parte.

Cosa intende?

A mano a mano che procedevo nella scrittura, avvenivano cose che non avevo previsto. È successo qualcosa di strano con questo libro. Mi sono sentito completamente posseduto da queste persone, al punto da essermi ritrovato a piangere per i miei stessi personaggi. C'è una scena in cui il padre di Boonyi, il pandit Pyarelal, muore nel suo frutteto. Non sono riuscito a sopportarlo. Mi sono ritrovato a piagnucolare alla scrivania. Pensavo, Cosa sto facendo? Questa è una mia creazione. Poi, in un altro momento, stavo scrivendo della distruzione del villaggio nel Kashmir. Non ci riuscivo. Stavo lì, seduto alla scrivania, e pensavo, Non ce la faccio a scrivere queste frasi. Molti autori che hanno avuto a che vedere con l'argomento dell'orrore non sono riusciti ad affrontarlo di petto. Non ho mai avuto la sensazione di non poter sopportare l'idea di raccontare una storia – è una cosa terribile, non voglio nemmeno pensarci, non può succedere qualcos'altro? Ma poi ti dici, No, non può succedere qualcos'altro, no, è questo che accade.

Il Kashmir è un territorio a lei familiare.

La mia famiglia è originaria del Kashmir, ma fino a oggi non me ne sono mai davvero occupato. L'inizio dei Figli della mezzanotte si svolge nel Kashmir, e Harun e il mare delle storie è una favola sul Kashmir, però nella mia narrativa non c'è nient'altro di più diretto. L'anno della vera esplosione del Kashmir, il 1989, è stato anche l'anno in cui c'è stata un'esplosione nella mia vita. E mi sono distratto, così... A proposito, oggi è l'anniversario della fatwa. Il giorno di San Valentino non lo amo molto, e la cosa scoccia un po' mia moglie. Ad ogni modo, Shalimar è stato una specie di tentativo di scrivere Il paradiso perduto del Kashmir. Solo che Il paradiso perduto riguarda la caduta dell'uomo – il paradiso è ancora lì, ma noi ne siamo stati cacciati. Shalimar è sulla disintegrazione del paradiso. Come se Adamo ci fosse tornato con delle bombe e lo avesse fatto saltare in aria.

Non ho mai visto al mondo posto più bello del Kashmir. Deve dipendere dal fatto che la valle è molto piccola e le montagne molto grandi, così hai sotto gli occhi questa campagna in miniatura circondata dall'Himalaya, è spettacolare. E anche le persone sono particolarmente belle. Il Kashmir è una zona prospera. La terra è ricca, e le colture abbondanti. È un luogo rigoglioso, non come gran parte dell'India dove la penuria è evidente. Ma tutto questo, è ovvio, oggi non c'è più, ed è dura.

La risorsa principale del Kashmir era il turismo. Non quello straniero, ma quello proveniente dall'India. Se ci fai caso, nei film indiani, ogni volta che volevano un'ambientazione esotica, inserivano un numero di danza nel Kashmir. Il Kashmir era la terra dei sogni dell'India. Gli indiani ci andavano perché da un paese caldo si va in uno più freddo. La gente rimaneva estasiata alla vista della neve. All'aeroporto, dove quella sporca e ridotta in poltiglia è ammucchiata ai lati delle strade, si vedevano persone immobili che guardavano come se avessero appena scoperto una miniera di diamanti. Sembrava uno spazio incantato. Oggi tutto questo non esiste più, e anche se dovesse esserci un trattato di pace domani, non tornerà quella di un tempo, perché ciò che è stato distrutto, ed è di questo che ho tentato di scrivere, è la cultura tollerante e mista del Kashmir. Dopo il modo in cui gli indù sono stati scacciati, e il modo in cui i musulmani sono stati radicalizzati e tormentati, non è possibile rimettere tutto insieme. Quello che ho voluto dire è: Non è solo la storia di un popolo di montagna a otto o nove mila chilometri di distanza. È anche la nostra storia.

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Norman Mailer

L'arte della narrazione


Ho incontrato Norman Mailer ad aprile, in due diverse occasioni, a casa sua a Cape Cod. Il sole è rimasto abbastanza a lungo perché potessi vedere i travestiti di Provincetown mentre passeggiavano lungo Commercial Street in un carrozzone di ricci finti, ma poi è arrivato un temporale e ci siamo messi al riparo nel soggiorno al piano di sotto della sua casa sull'oceano. Ci siamo seduti su due sedie vicino a un'ampia finestra, e mentre parlavamo una strana luce proveniente da nord si è infiltrata tra la pioggia attraverso il vetro creando una gradevole aureola intorno alla testa dell'ottantaquattrenne. La moglie di Mailer, Norris Church, di ventisei anni, si trovava a New York per il fine settimana, ma la sua presenza aleggiava nei suoi dipinti che ci stavano intorno.

L'ultima intervista rilasciata da Mailer a questa rivista risale al 1964, l'anno in cui pubblicò il suo settimo libro. Quest'anno ha pubblicato il quarantaduesimo, Il castello nella foresta, e lo ha dedicato ai suoi dieci nipoti, ai vari figliocci e a una pronipote. Mailer è più magro di un tempo, e cammina con l'ausilio di due bastoni. È un vecchio principe del doppio, e non sorprende scoprire che usa anche due apparecchi acustici, che gli hanno permesso di sentire al primo colpo quasi tutte le mie domande. Avevamo cenato insieme la sera prima dell'intervista al Michael Shay's, un ristorante della zona la cui specialità sono le ostriche. Mailer conosce per nome i camerieri e ancora meglio tutto il menù. Solitamente si porta a casa le conchiglie delle ostriche perché gli piace ripulirle, guardarle, e a volte disegnarci sopra. "Guardi questa", dice, sollevandone una. "La conchiglia dell'ostrica spesso ricorda il volto di un dio greco."

Mailer stesso ricorda a tratti Zeus, anche se in alcuni momenti fa pensare alla concretezza terrena di Studs Lonigan. Mentre mi diceva quanto spesso deve fare la pipì un uomo della sua età, i suoi occhi azzurri brillavano. "Alla commemorazione funebre di George Plimpton", ha detto, "alla Saint John the Divine, all'improvviso mi scappava e sapevo che non ce l'avrai fatta a percorrere la navata. Così sono andato in un corridoio laterale dove c'era Philip Roth. A volte mi capita di doverla fare in una cabina telefonica, Phil, gli ho detto. Alla mia età non riesci proprio a trattenerla. Lo so, ha risposto Roth – è lo stesso anche per me. Beh, sei sempre stato uno precoce, gli ho fatto."

Ogni tanto, durante l'intervista, Mailer si è fermato per bere qualcosa. Oggi non è più un grande bevitore, e quando beve si prepara dei curiosi miscugli. A un certo punto gli ho preparato un bicchiere di vino con succo d'arancia; poi rum e pompelmo. La sua intelligenza non vacilla mai, e ho capito presto che Mailer sarebbe la persona giusta con cui trovarsi nell'esercito. È incline alla conversazione e attento agli appetiti dell'avversario. Ad esempio, dopo diverse ore di introspezione reciproca come due carcerati in un romanzo russo, Mailer ha proposto di sdraiarci, e dopo poco ci siamo addormentati sui nostri rispettivi letti con il vento fuori che ululava sulle vecchie rotte di navigazione di Melville.

In alcuni momenti, a mano a mano che l'intervista procedeva, sembrava che le travi della casa si piegassero seguendo il ritmo dei pensieri di Mailer. Muove le mani come un regista o un allenatore di pugilato, dando continua forma all'idea del movimento. Ma durante la tempesta era come il Capitano Achab, esausto sulla penisola che fa un cenno al Nord Atlantico, ancora in lotta con il grosso pesce. Era bello osservarlo mentre volteggiava con l'inconoscibile. Dopo quella prima cena al Michael Shay's, l'ho aiutato a entrare in macchina dicendogli che avrei raggiunto la città a piedi. Era una serata tipica del New England, e la lunga strada dritta che porta alla zona commerciale era scura e silenziosa. La casa di Mailer si trova molto vicina, sono arrivato prima io e mi sono fermato dall'altra parte della strada. Dopo poco è arrivato con la sua macchina e con molta cautela è salito sul marciapiede, le stampelle a sorreggerlo. Sono rimasto fermo a osservarlo per un minuto fino a quando non è sparito oltre il cancello. Allontanandomi ho notato una targa su una casa un po' più giù, c'era scritto che John Dos Passos aveva abitato lì ottant'anni prima, proprio quando Norman Kingsley Mailer stava appena imparando a leggere. È stato bello vedere queste abitazioni così da vicino, mentre le luci brillavano intense nell'oscurità.

Andrew O'Hagan, 2007


Dwight MacDonald una volta ha definito Provincetown la "Eighth Street vicino al mare": Da quanto tempo viene qui?

La prima volta avevo circa diciannove anni. Avevo una relazione con una ragazza che poi sposai, Beatrice Silverman, la mia prima moglie. Avevamo deciso di trascorrere il fine settimana da qualche parte e lei aveva sentito parlare di questa bellissima città sulla punta di Cape Cod. Doveva essere il 1942 o '43 e mi innamorai perdutamente di questo luogo. Era un momento di terrore per paura che i nazisti potessero atterrare all'improvviso sulla spiaggia – ci sono più di sessantaquattro chilometri di costa aperta qui. Quindi non c'erano luci in città. Camminare per strada la sera era come ripiombare nel passato dell'America coloniale. Per tutta la guerra non ho fatto altro che scrivere a mia moglie che la prima cosa che avremmo fatto una volta tornato – se e quando fossi tornato – sarebbe stata andare a Provincetown.

Ed è più o meno in questo periodo che cominciò a scrivere Il nudo e il morto?

Lasciai l'esercito nel maggio del '46 e venimmo qui a giugno. Cominciai il libro a giugno, forse all'inizio di luglio. Iniziai a scrivere in una capanna in affitto sulla spiaggia, a Truro. Di solito mi servono un paio di settimane di riscaldamento su un libro.

Aveva preso appunti?

Prendo sempre molti appunti prima di cominciare. Tendo a leggere molto su questioni collaterali e poi penso e rimugino. Oggi mi ci vogliono sei mesi per entrare in un romanzo. Mi pare di averci messo poche settimane per Il nudo e il morto, perché ero giovane e molto preso dal libro e dalla guerra. Non fu necessario fare particolari ricerche – avevo tutto in mente. Scrissi quasi duecento pagine nell'estate che passai qui.

E sapeva di aver fatto un buon lavoro?

A seconda dell'umore pensavo di aver scritto pagine meravigliose, e poi, Oh, non sai proprio scrivere. Non ero un maestro di stile a quei tempi – me ne intendevo abbastanza di scrittura da saperlo. Ieri sera a cena io e lei abbiamo parlato di Theodore Dreiser. Abbiamo più o meno concordato sul fatto che lo stile non fosse il suo forte e che tuttavia avesse qualcosa di più importante dello stile, non è vero? Dreiser era uno di quelli che leggevo in quei giorni, e chiamavo a raccolta le mie truppe letterarie ogni qualvolta il morale desse segni di cedimento pensando fra me, Beh, Dreiser non ha poi un grande stile.

Esiste anche chi ha troppo stile. L'unico a cui lo si perdona credo sia Proust. Aveva sintetizzato la perfetta unione di materiale e stile. Solitamente quando si ha un grande stile il materiale risulta più forzato. Vale per Henry James come per Hemingway. La tendenza opposta è rappresentata da Zola, il cui stile è discreto, non particolarmente degno di nota, ma il cui materiale è formidabile.

Nelle mie opere credo di aver toccato i poli opposti dello stile. In Un sogno americano è al suo massimo mentre nel Canto del boia è praticamente inesistente, visto il materiale prodigioso che aveva. Un sogno americano era tutto frutto della mia immaginazione. Ero io a cucinare il piatto.

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