Copertina
Autore Valentino Parlato
Titolo La rivoluzione non russa
SottotitoloQuarant'anni di storia del manifesto
EdizioneManni, Lecce, 2012 , pag. 188, cop.fle., dim. 14,4x20,3x1,4 cm , Isbn 978-88-6266-450-9
CuratoreGiancarlo Greco
LettoreRiccardo Terzi, 2013
Classe media , politica , movimenti , paesi: Italia: 1960 , paesi: Italia: 1980 , paesi: Italia: 1990 , paesi: Italia: 2000
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Indice


  7   PRAGA È SOLA
      La nascita della rivista

 19   PIAZZE PIENE E URNE VUOTE
      Il quotidiano e le elezioni politiche del 1972

 51   IL PDUP PER IL COMUNISMO
      Giornale o giornale-partito?

 63   L'ALBUM DI FAMIGLIA
      Dagli anni di piombo alla manifestazione del 1994

 95   IL COMUNISMO È MORTO
      Il manifesto a cavallo della caduta del Muro di Berlino

135   IL BACIO DEL ROSPO
      Dall'avvento di Berlusconi al sequestro Sgrena

163   SENZA CONFINI
      Il futuro del manifesto e della sinistra


 

 

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Pagina 7

PRAGA È SOLA
La nascita della rivista



GRECO Quarant'anni fa nasceva una delle esperienze politiche ed editoriali più singolari e interessanti del panorama culturale italiano: il manifesto. Dapprima area più a sinistra nel PCI, poi rivista e successivamente quotidiano, la sua storia si intreccia con quella d'Italia e non solo, sempre dalla parte delle minoranze, di chi si batteva per ideali scomodi e per i diritti dei più deboli. I suoi editoriali e le sue prime pagine hanno fatto storia e scosso le coscienze; una voce odiata e amata, scomoda per tutte le forze politiche ma il cui valore culturale è unanimemente riconosciuto.

Com'è nata e come si è sviluppata l'idea "folle" di un quotidiano comunista e pacifista?

PARLATO Il manifesto è stata ed è un'impresa fiduciosa e disperata. La nostra sigla potrebbe recitare così: spes contra spem, dove però la spes è fortissima e quasi si identifica con la vita di chi allora e oggi ne fa parte. Le radici di questo progetto, che affondano negli anni Sessanta del secolo scorso, hanno trovato terreno fertile in un momento storico che ha costituito un vero passaggio epocale della società e della cultura italiane ed europee. Molto lo dobbiamo anche a quel grande soggetto storico che è stato il Partito Comunista Italiano.

Occorre, quindi, procedere per gradi e ricostruire, seppur sommariamente, il contesto di riferimento in cui è nata la rivista.

Quegli anni straordinari, a cavallo tra il 1965 e il 1970, sono stati oramai analizzati da decine di studiosi che ci hanno raccontato del decennio precedente, di un Paese arretrato in cui esplose improvvisamente un vero e proprio miracolo economico e sociale.

I contadini che dal Sud quasi feudale e agricolo si spostarono al Nord industriale è una vicenda che conosciamo tutti: milioni di esseri umani si trasferirono dalla campagna alla città e dalla pastorizia alle fabbriche. C'era tanta miseria ma anche tanta fiducia verso il futuro, soprattutto nei giovani.

Nuovi ceti sociali e nuovi protagonisti si stavano affacciando alla storia; ci furono cambiamenti che travolsero tutto e tutti, trovando impreparata la vecchia politica (anche nel PCI) e l'antica morale, e che sfociarono in quella stagione straordinaria che è stata il Sessantotto ma che già da anni covavano all'interno di scuole, fabbriche, movimenti.

Tutto questo aprì un grande dibattito tra le forze di sinistra. All'interno del PCI, per esempio, si discuteva già dal 1956. L'invasione sovietica dell'Ungheria fu vista da molti come un'aggressione imperialistica. Io ebbi a definirla una "merda", ma era merda nostra e tutti devono sopportare la propria merda. Inoltre, occorre tenere presente il quadro generale: Stalin era morto nel 1953 e, durante il XX Congresso del PCUS, c'era stato il rapporto Kruscev che, con le sue denunce, aveva creato molte inquietudini.

Tuttavia, anche se iniziavamo a domandarci se e come fosse possibile svincolarsi dai legami con l'URSS, la maggior parte di noi rimase comunque nel Partito (altri, come Asor Rosa, decisero di uscirne) ma si fece sempre più acceso il dibattito sulla politica dell'URSS.

Nuove e fondamentali domande si affacciavano all'interno delle riunioni di Partito: come correggere il rapporto con l'Unione Sovietica? Come abbattere il capitalismo in Italia? E che atteggiamento adottare con il governo di allora?

Molti di noi erano convinti che con la Democrazia Cristiana si dovesse essere più aggressivi di quanto non fosse il PCI, diviso infatti in due anime: quella che faceva capo a Pietro Secchia (assolutamente filosovietica) e quella operaista e liberale.

Finché ci fu Togliatti, questa contrapposizione rimase latente. Emerse pienamente soltanto nel 1966, due anni dopo la sua morte, in occasione dell'XI Congresso allorquando esplose il contrasto tra Ingrao e Amendola.


Proprio l'XI Congresso, svoltosi a Roma, rappresenta uno snodo fondamentale per la storia del PCI e per quella del manifesto. In cosa consisteva lo scontro Ingrao-Amendola? E per quale tesi parteggiò il vostro gruppo e tu in particolare?

Ingrao sosteneva fermamente che fosse sbagliato considerare il capitalismo italiano arretrato e grezzo e che occorreva prenderne atto immediatamente così da adeguare la lotta politica e rinnovare il Partito.

La tesi di Amendola era diametralmente opposta. Egli considerava debole e poco innovativo il nostro sistema capitalistico, ancora legato ad una economia agraria o, comunque, industriale-agraria. Io ho sempre pensato che la sua posizione fosse dettata dall'esperienza del fascismo; aveva timore di una eventuale crisi economica che gettasse il Paese nella miseria.

Lo scontro era inevitabile e arrivò violentissimo: Ingrao venne messo al margine e con lui chiunque avesse espresso una qualsiasi obiezione alla "linea del Partito". Io non ero certo ingraiano, tuttavia condividevo la sua critica al centralismo democratico e, tra noi, crebbe un rapporto di amicizia e solidarietà.

Col senno di poi, il pessimismo di Amendola era giustificato. Ma allora, la sua fermezza nei confronti di qualsiasi apertura allontanò il Partito dai lavoratori e dalle nuove generazioni lasciando spazio a forme di violenza e, anni dopo, al terrorismo.

Proprio da questo "scontro" nacque il gruppo che poi diventerà il manifesto.

Condividevamo la sostanza dell'analisi di Ingrao ed eravamo anche convinti che il Partito dovesse interpretare le spinte che venivano dall'esterno (di operai e studenti soprattutto) e avviare una fase di profondo cambiamento. Il quadro economico del Paese, invece di spingere il PCI ad avanzare, lo rese più moderato e si affacciarono addirittura le prime esplicite ambizioni di governo.

Noi e molti altri vedevamo in questo fermento sociale un'occasione da non perdere e un fronte di lotta da coltivare. Non sono mai stato un sessantottino, non ho mai portato l'eskimo e non sono mai stato infatuato della libertà sessuale di quegli anni; non pensavo che si stesse facendo la rivoluzione, ma era un grande momento di trasformazione del Paese, che andava colto, e il PCI, invece, era inadeguato e distante.

Così, noi dissidenti scoprimmo una serie di affinità politiche e culturali e, nonostante il rischio di essere cacciati dal Partito fosse altissimo, non abbiamo mai avuto paura, ci sentivamo capaci di sopravvivere. E io non ho mai pensato di poter "vincere", ma di aprire una ferita feconda, che animasse la discussione: era questo l'obiettivo.

All'immobilismo del Partito reagimmo organizzando una serie di incontri in cui si discuteva di come evitare che il Partito prendesse una deriva di destra e fosse perdente rispetto al moltiplicarsi dei movimenti. Questi momenti di dibattito si andarono moltiplicando: da Roma coinvolsero moltissime federazioni in tutta Italia fino a diventare un fatto di interesse nazionale. Così, in alcuni di noi "dissidenti" cominciò a prendere forma l'idea di una rivista.

Prendemmo l'abitudine di riunirci dapprima a casa di Rossana Rossanda, in via S. Valentino a Roma, e poi da Lucio Magri. Fu in questo clima, e con questa sorta di dissenso di merito che prendeva origine dall'XI Congresso, che il gruppo si rafforzò e prese consistenza. È una dinamica spesso trascurata, quando si analizza questo periodo della storia del Partito, anche da chi poi ha fatto autocritica dopo aver votato a favore della nostra radiazione.

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Pagina 63

L'ALBUM DI FAMIGLIA
Dagli anni di piombo alla manifestazione del 1994



La storia del manifesto s'è intrecciata con avvenimenti cruciali della storia del Paese e del mondo. Che posizione ebbe il giornale rispetto a vicende come la morte di Moro, gli anni di piombo, le BR, il movimento del Settantasette?

Già nel '77 iniziarono a esserci i primi segnali di una deriva violenta: a Roma la contestazione di Luciano Lama, e a Torino l'assalto al bar Angelo Azzurro e l'omicidio del giornalista Casalegno. Le cose non andavano meglio nel resto d'Europa: in quell'anno viene rapito a Colonia il presidente della Confindustria tedesca Schleyer, ad opera della Rote Armee Fraktion (RAF), gruppo combattente di estrema sinistra. Il 13 ottobre a Palma di Maiorca quattro militanti della RAF dirottarono un Boeing 737 della Lufthansa, prendendo in ostaggio 91 persone. Chiedevano la liberazione dei propri capi in cambio degli ostaggi dell'aereo e dell'industriale.

Il governo tedesco non accettò e, il 17 ottobre, con un'azione di forza, assaltò l'aereo uccidendo tre combattenti e ferendo il quarto.

Si giunse così al terribile 1978, al sequestro Moro e al massacro della sua scorta.

Nonostante la posizione critica del nostro giornale verso i teatrini della politica, tutta quella violenza ci turbava e ci spingeva a prendere le distanze da movimenti e manifestazioni, come quella che si svolse a Bologna nel marzo del '77. Io stesso fui diffidente e pessimista circa quei giovani che riempivano le piazze e le strade, e pur considerandoli prodotto naturale della nostra storia precedente li definii in uno dei miei articoli dei "vuoti a perdere".

Interessante fu al riguardo il punto di vista di Rossana Rossanda, secondo la quale quella situazione era il prodotto della cultura stalinista italiana: "In verità chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle BR. Sembra di sfogliare l'album di famiglia, ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi su Stalin e Zdanov di felice memoria. Vecchio o giovane che sia il tizio che maneggia la famosa IBM, il suo schema è veterocomunismo puro".

Il 9 maggio di quel terribile 1978 una telefonata avvertì che in via Caetani (una strada molto vicina alle sedi del PCI e della DC) in una Renault rossa giaceva il cadavere di Moro.

Quell'avvenimento segnò la fine di un'epoca e di tutte le ingenue speranze maturate nel Sessantotto.

Il giorno dopo, Pintor commentò così quella tragedia: "Vediamo con gli occhi che la storia del nostro Paese è a una svolta, il regime democratico anche e ne dipende il futuro di ciascuno [...]. È uno spartiacque tra passato e presente. Siamo di fronte a uno di quegli eventi che modificano le correnti di fondo della società, anche per vie invisibili, e che non possono essere riassorbiti, perché sono il frutto di una malattia già molto avanzata".

Dopo la morte di Moro le Brigate Rosse cooptarono centinaia di giovani, e mentre qualcuno a sinistra pensava cinicamente che questo potesse tornare utile, noi guardavamo a quel fenomeno con sgomento, convinti che avrebbe finito per delegittimare le lotte sociali e operaie scatenando un rigurgito reazionario.


La speranza della rivoluzione si allontanava...

Si allontanava anche quella di un riformismo avanzato di cui il manifesto si era fatto propugnatore, lasciando il passo al neoliberismo craxiano, alla sua celebrazione del mercato e del precariato, degna anticipazione del successivo berlusconismo.

Tra di noi c'era sfiducia e molti credevano che le motivazioni che ci avevano spinto a fondare un quotidiano comunista fossero ormai venute meno. Durante una riunione del giornale Rossana dichiarò: "Quando è stato ucciso Moro [...] mi è capitato di scrivere che una tenaglia si sarebbe chiusa su chiunque volesse lavorare, oltre sulla democrazia, sull'ipotesi della rivoluzione italiana. Questa tenaglia si sta chiudendo [...]. Guardo il giornale di oggi, che abbiamo fatto tutti assieme, nei suoi elenchi e commenti sia sulle azioni terroristiche che sul tipo di repressione in atto e mi dico: è proprio la guerra di cui parlano le Brigate Rosse [...]. Mentre parlo la radio mi porta la notizia di Verisco. Altra guerra. Quando è guerra i fronti si appiattiscono. O si sta di qua o si sta di là; oppure si è neutrali. Noi che cosa siamo?"

Dopo una fase di grandi speranze iniziava una restaurazione per molti versi analoga a quella che ci fu in Europa tra il 1815 e fino al 1845. Dopo il periodo dell'offensiva passavamo alla difesa, con le forze fiaccate dalla coscienza di aver perduto. Nel 1980 ci sarebbe stata la sconfitta operaia alla FIAT con la famosa marcia dei quarantamila.

Durante questa nuova fase il giornale era come piaceva dire a Luigi: "Un giornale, un giornale, un giornale". Ma solo un giornale. Venuti meno i grandi obiettivi eravamo preda della confusione e dello smarrimento.

Qualche anno più tardi, durante un'altra delle grandi crisi del manifesto, Luigi descrisse in modo incisivo la nostra esperienza: "È andata a finire (ma si sa che la storia è infinita) con una conferma che direi importantissima, la conferma dell'anomalia di questo giornale, dell'utopia su cui è fondato. Chiamo utopia non un sogno (o una sigla oggi pur essenziale), ma una cosa molto concreta e quotidiana, come l'aria che si respira, cioè un modo di essere libero e disinteressato. Se questo non fosse più vero, se nelle stanze disordinate di questo giornale e nelle teste di chi le frequenta non resistesse questo spirito, nessuno credo ci resterebbe perché a nessuno più servirebbe".

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Proprio in questo scenario di difficoltà, economica e politica, avete però raccolto uno dei grandi successi recenti del manifesto: la grande mobilitazione del 25 aprile del 1994 che portò alla caduta del primo governo Berlusconi.

La mobilitazione del '94 fu possibile grazie anche al consenso che arrivò alla nostra proposta da parte della CGIL e dei suoi rappresentanti, che vennero nella nostra sede per organizzare la manifestazione.

Il colpo finale venne poi dalla Lega.

Ricordo con vero piacere il mio incontro con Bossi. "Guarda", mi disse, "di questo qui [Berlusconi, ndr] ci rompiamo i coglioni". E infatti gli tolse la fiducia.

Mi sarebbe piaciuto fare un'intervista-conversazione con Umberto Bossi, perché egli rappresenta un fenomeno molto diverso da Berlusconi e quindi più interessante. Forse le sue posizioni sono più a destra, più selvagge, ma il suo movimento è fortemente legato al popolo e al territorio.

Infatti, credo che la CGIL sbagli a non porre all'ordine del giorno la questione dei suoi iscritti che votano Lega. Dovrebbe interrogarsi sul perché accade questo e su quali siano le responsabilità del sindacato, ma soprattutto dei partiti.

Non credo si possa replicare più una manifestazione come quella del '94. Oggi siamo in una situazione molto più pericolosa. Le spinte verso il presidenzialismo, i tentativi di modificare la Costituzione, il ruolo inesistente del Parlamento, gli scioperi della polizia e gli attacchi ai magistrati, gli scandali e la corruzione sono il segno di una gravissima crisi non solo della politica, ma anche di una formazione sociale.

È poi è cambiata anche l'economia. Una volta Gianni Agnelli era il proprietario della sua impresa, ora i manager non sono responsabili del proprio fallimento, intascano comunque la loro liquidazione. C'è mafia anche dentro il capitalismo. Quotare un'impresa in Borsa e rivenderla è meno rischioso che produrre. La finanziarizzazione sta portando a una crescita dell'indigenza ed è difficile che i poveri, costretti a indebitarsi, facciano una rivoluzione.

Un altro nostro errore è quello di considerare il capitalismo sempre uguale a se stesso. Non è così. Anche il capitalismo ha una sua storia e una sua parabola, può avere una decadenza e quando succede essa si ripercuote soprattutto sui poveracci.

Un tempo lo sciopero di due giorni della FIOM rappresentava per l'impresa un danno colossale, oggi è solo uno sperpero di luce elettrica.


All'indomani della caduta di Berlusconi provocata anche dal manifesto, vi trovaste davanti una scelta non facile per un giornale comunista: decidere se appoggiare o meno il governo Dini.

Affrontammo la questione di petto, in una prima pagina (quella del 14 gennaio 1995) che rimarrà nella storia del giornalismo italiano: Baciare il rospo il titolo e sotto una vignetta di Vauro che rispondeva: "Dini, brutto e possibile".

Due anni dopo il problema si pose allo stesso modo. Erano le elezioni del 21 aprile 1996 e io scrivevo: "Sono passati appena due anni da quel marzo 1994, quando l'Italia sbandò a destra e il cavaliere d'industria Silvio Berlusconi scese a Palazzo Chigi [...]. Il nostro punto di vista, che emerge da un giornale che per venticinque anni (tanti quanti la sua vita) ha contestato i poteri e gli accordi tra i poteri, financo il compromesso storico di Berlinguer e di Moro, due personaggi rispettabili e niente affatto secondari, è quello di fare il possibile perché oggi vincano, a loro modo insieme, le formazioni dell'Ulivo e di Rifondazione Comunista [...]. La sfida è che la sinistra provi a governare". L'invito, però, non era motivato da una nuova convinzione riformista, quanto dal sentimento dell'urgenza e del pericolo del momento. "Se battiamo la destra, già dal 22 aprile può cominciare una bella e complicata battaglia [...]. Ove perdessimo — cosa che può accadere — correremmo il rischio di continuare a difendere una causa sconfitta. Si può e si deve discutere e criticare la modernità, ma la vittoria del polo della destra sarebbe la negazione anche di questa discutibile modernità".

Abbattere la democrazia borghese significava per noi avanzare sul piano dei diritti sociali. Nel momento in cui, però, questi stessi diritti erano messi in discussione e in pericolo, la democrazia borghese diventava un orizzonte di resistenza da tutelare ad ogni costo. Anche quello di rinunciare a parte della propria coerenza e battaglia politica.

All'indomani della vittoria politica, scrisse Pintor: "Penso che si debba deporre ogni diffidenza, non certo lo spirito critico che è un'altra cosa, e che senza scetticismi o euforie fuori luogo si debba concedere il massimo credito a questa esperienza. Non mi è piaciuta la strada per arrivare al traguardo, ma ora mi sembra secondario. Non salgo sul carro del vincitore perché non mi appartiene, ma consiglio di farlo [...]. Non si tratta più adesso di predicare attorno ai valori della partecipazione e della solidarietà ma di renderli operanti, anzi governanti. Fino a farli diventare, con pragmatismo ma con determinazione e anche con fantasia, un messaggio di civiltà".

Tutti noi, sostenendo di "saltare sul carro del vincitore", eravamo animati dalla speranza e dalla consolazione, almeno, anche in assenza di un'idea precisa e davvero alternativa, di vedere la sinistra finalmente al governo, dopo che negli altri Paesi d'Europa i partiti socialisti o le forze democratiche avevano dato vita a intere stagioni politiche.

Ancora Pintor in un editoriale dal titolo Governiamo, scriveva: "Cittadinanza, lavoro, istruzione, ambiente, fisco, non sono un elenco di comparti con portafogli ministeriali annessi, ma un tutto. Non credo che porre questo tutto al centro di un'azione innovativa di governo comporti il ribaltamento delle compatibilità di sistema, può bastare molto meno. Comporta una 'riforma intellettuale e morale', semmai, che non ha prezzo. In fondo il generale de Gaulle è passato alla storia anche perché fece reimbiancare Parigi. Da noi, mi accontenterei di riverniciare scuole e ospedali".

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SENZA CONFINI
Il futuro del manifesto e della sinistra



Il giornale ha da sempre rappresentato un punto di riferimento per la sinistra italiana e ha avuto un peso importante nell'orientamento dei quadri dirigenti. In quest'ultimo periodo vive una crisi profonda dovuta a fattori generali ma anche a una perdita di identità. Qual è la tua idea in proposito?

La crisi della sinistra si rispecchia sul giornale e sul "sinistrismo" del manifesto. I partiti, e più in generale la società, hanno perso di vista i propri obiettivi e, di conseguenza, non sanno più su cosa fondiare la propria politica. Oggi tutti cercano soltanto di far eleggere i propri parlamentari e di superare lo sbarramento.

Stiamo vivendo un momento molto delicato, il Muro di Berlino è caduto anche addosso al giornale che rischia di essere superato e inutile. In questi mesi ci stiamo giocando tutto e dovremo avere grandi capacità per fare il manifesto del terzo millennio.

I più giovani, che sono arrivati in redazione negli ultimi anni, hanno modernizzato il giornale con l'intelligenza del momento, tentando di rispondere e analizzare il berlusconismo e criticando anche la sinistra, soprattutto il PD. Ma questo non basta, manca un obiettivo più ampio.

Personalmente credo che il manifesto debba continuare a esistere ed essere presente nella battaglia politica, concentrando il suo sforzo in inchieste e analisi della società. Deve lavorare per costruire una unità di popolo, di persone e di soggetti che vogliono cambiare questo Paese, e deve compiere miglioramenti e aggiustamenti progressivi, perché la forma attuale del giornale non va bene. Deve, insomma, avere il doppio obiettivo di aumentare le vendite e fornire una ragione per comprarci.

Citavamo prima l'ultimo editoriale di Luigi Pintor, Senza confini. Ebbene, dobbiamo tornare indietro di qualche anno e ripartire dalla sua dura ma corretta analisi:

"La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno. [...] Le nostre idee, i nostri comportamenti, le nostre parole, sono retrodatate rispetto alla dinamica delle cose, rispetto all'attualità e alle prospettive. Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C'è un'umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all'altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine. Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere un'opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione del mondo e dell'esistenza quotidiana. Non una bandiera e un'idealità ma una pratica di vita. Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell'uccisione e della soggezione di sé e dell'altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo versante inconciliabile. Una internazionale, un'altra parola antica che andrebbe anch'essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un'organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d'istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un'area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un'era che ce ne sta privando in forme mai viste".

Il proletariato esiste ancora ma sotto forme differenti. La massa di precari, giovani ma non solo, è composta da uomini e donne che non riusciamo più a raggiungere con analisi, proposte e programmi credibili. Non siamo neppure stati in grado, fino ad ora, di definire questa categoria del precariato. Inoltre, come afferma Ida Dominijanni, la sinistra continua a sottovalutare l'accresciuto peso delle donne.

Esiste anche un tipo di migrazione intellettuale che assomiglia molto a quella vissuta dai nostri padri. Sono tantissimi i giovani che abbandonano il luogo d'origine per cercare lavoro all'estero. La differenza rispetto al secolo scorso è che oggi ad andare via sono i più preparati, la cui partenza crea un ulteriore impoverimento del nostro Paese.

Mi domandano spesso il significato dell'essere comunisti oggi e perché continuiamo a lasciare, accanto alla testata, la dicitura quotidiano comunista. Bene, dichiararmi comunista significa credere nelle speranze di uguaglianza, fraternità e libertà. Io sono per mantenere questa locuzione, anche se a volte ho paura di essere considerato un reperto archeologico. Tuttavia credo fermamente che il vero comunista è quello che si pone come obiettivo permanente la liberazione delle donne e degli uomini e l'uguaglianza, e che lotta per questo tenendo conto delle trasformazioni della società.

Da questi valori dobbiamo ripartire e per questi valori continuo a credere che quella scritta in alto sul giornale debba rimanere.

È un cammino difficile, lungo il quale non basta portare con sé l'ottimismo, ma è l'unico possibile, non c'è alternativa.

La sfida con cui ci dobbiamo confrontare è la ricostruzione di una sinistra anticapitalista, nell'attuale crisi che colpisce innanzitutto i lavoratori, con la disoccupazione che li riduce a una sopravvivenza di stenti.

Il manifesto con il suo prestigio, i suoi quarant'anni di vita, il suo fisiologico e orgoglioso rifiuto di compromessi — così come testimonia tutta la sua storia – non mollerà.

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