Copertina
Autore Gaetano Parmeggiani
Titolo La tredicesima incarnazione
EdizioneLa Lepre, Roma, 2010, Il giullare , pag. 130, cop.fle., dim. 13,4x21x1,1 cm , Isbn 978-88-96052-31-0
LettoreLuca Vita, 2011
Classe narrativa italiana , umorismo
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Indice


  9 Discorso preliminare

 11 La tredicesima incarnazione
    Muhammad, 16

 17 Fondamentale stupidità del terranova
    Dante, 19

 21 Il vero Cafone. Breve saggio antropologico
    Goldoni, 28

 31 Manoscritto trovato in un codice
    di Gregorio da Catino
    Scampoli, 37

 39 Maledetto impiccione
    I cavalieri del Santo Calice, 43

 45 Una tragedia del mare
    Guinness, 53

 55 Malbrough s'en va-t-en guerre
    Oblomov, 58

 61 Libero pensatore
    Pastor Angelicus, 64

 67 Mio cugino Azzolino
    Sirene e tritoni, 71

 73 Una caccia insolita
    Critica d'arte, 79

 81 Tu quoque
    Noè, 84

 85 Un puro purissimo accidente
    Eva, 88

 89 Ce n'è di peggio
    Monopolio, 91

 93 Paralipomeni a Dei delitti e delle pene
    Scholè, 98

 99 Le magnifiche sorti e progressive: ma davvero
    Cucina cinese, 102

105 Una novità letteraria
    Zanzare, 112

115 Dalla sala quindicesima
    Conosci te stesso, 120

123 Il giuramento di Ippocrate
    Marco Polo, 128

129 Il silenzio è d'oro
    Sulle guerre, 129


 

 

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Pagina 9

Discorso preliminare



In ossequio a una tradizione che affonda le sue radici fra le esalazioni saturnine delle stamperie cinquecentesche, si suole premettere a qualsivoglia opera letteraria, sia essa romanzo o manuale per strozzini, una sorta di proemio che alcuni definiscono Prefazione, altri Introduzione, altri ancora, più bruschi, Avvertenza: le differenze fra i tre lemmi, dal punto di vista semantico, sono sottili e viscide al tatto. Sovente l'autore del volume si trae modestamente da parte e cede l'onere introduttivo a uno svelto mestierante: a persona, cioè, che possa abbandonarsi senza vergogna a iperboli laudative. Il desocupado lector, se sia appena un po' scaltrito, fiuta la trappola e salta la prefazione limitandosi — in piedi davanti al banco del libraio — a scorrere le poche righe del risvolto di copertina (quando esiste) per capire a quale razza appartenga il libro che ha fra le mani e se metta conto azzardare del buon denaro per l'acquisto. Ebbene, in questo caso perde il suo tempo. Perché non sono in grado di abbozzare una definizione esaustiva. Qui si affastellano apologhi, moralità, novellette, epistole, racconti esemplari: il tutto composto in quell'ordine spontaneo che i chicchi di riso assumono nel sacco che li contiene che, come giustamente annotava Leibniz, è il migliore in assoluto. Come il Coelacanthus (il pesce ritenuto estinto finché non incappò nella rete di un indiano) questo libro non è ascrivibile al genere noto. Di qui la desolante futilità di qualsiasi prefazione, inclusa questa: sappia comunque il lettore (il lettore?) che grazie all'ordine sapientemente casuale della materia la sua fatica può iniziare da un punto scelto a caso e proseguire con identico profitto in ambedue le direzioni, anche in senso bustrofedico: oppure a balzi. E al termine della sua fatica troverà una breve nota esplicativa, o glossa, o postilla.

Diogene Laerzio, si bisbiglia, dettò e firmò oltre settecento volumi, quanto basta a umiliare persino la biblioteca di Don Ferrante e volgiamo un pensiero reverente al Muratori, migliaia di pagine graffite a lume di candela. Qui balza evidente lo iato che separa costoro dal vostro servitore Tano Parmeggiani. Io posso esibire una versione dell' Equitazione di Senofonte, un'antologia di problemi equestri (due volumetti rari), un almanacco dal titolo manzoniano: Scappa scappa galantuomo, una ponderosa raccolta di enigmi logici e un ambizioso commento al pensiero medico.

Shakespeare, si dirà, ha scritto di più e questo inquina i miei sogni notturni.

In un volumetto da cui traggo sovente conforto (Modo pratico di assistere a' moribondi e ajutare a ben morire i condannati, del padre M.A. Brandimarte, Firenze 1855) l'introduzione, sobriamente dedicata "Al lettore", termina con l'augurio allora in uso, singolarmente adatto all'argomento trattato dal buon frate: VIVETE FELICI. Appunto.

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Pagina 11

La tredicesima incarnazione



Nella notte medesima in cui morì il Dalai Lama Tso-dbang-Blo-pa, dodicesima incarnazione del signor Avalokitesvara, i monaci sciamarono dal palazzo rupestre di Potala alla ricerca del successore. Palpitava nei loro cuori la pigra speranza di imbattersi subito, nel formicaio dei vicoli addossato alla mole di pietra, nel bambino nato nel preciso istante che aveva segnato l'evasione del dio dalla crisalide umana: e tendevano l'orecchio nell'oscurità per auscultarne, attraverso muri di fango, il tiepido vagito.

Rigate dal frettoloso calpestio delle squadre ammantate di giallo che si incrociavano in silenzio per viottoli scoscesi e chiassuoli deserti, le ore trascorsero fino all'aurora sui monti e poi al giorno pieno: mentre dalla piazza del mercato si levavano festosi lamenti per il dio morto e prontamente reincarnato le prime pattuglie già abbandonavano le estreme propaggini di Lhasa regolando il passo su una più paziente scansione del tempo.

Dopo undici anni e otto mesi da quell'attimo — la morte del dodicesimo Prezioso Protettore — un gruppo formato da due monaci e uno straniero convertito i cui knickerbocker apparivano a tratti sotto la tonaca arancione iniziava la traversata del passo montano di Galdan, a quasi cinquemila metri di quota, spazzato da una vigorosa tormenta. La piccola squadra, l'unica che ancora perseguisse la grande Inchiesta in quell'angolo remoto del paese, era composta originariamente da quattro uomini (scortati dai loro chela): ma uno di essi era morto santamente tre anni prima tra le braccia di una prostituta e l'altro, travolto da un turbine mentale che lo spingeva a bestemmiare di continuo in russo – lingua che peraltro sia lui sia i suoi compagni ignoravano – era stato consegnato alla pietosa custodia dei confratelli del monastero di Kunlun. Al suo posto si era aggregato l'europeo.

Un oracolo di massima autorevolezza, ricavato dal capitolo di Tas-hi-Lum-po, aveva indirizzato i cercatori verso quel valico; l'obiettivo, ormai prossimo, doveva essere un luogo identificato in un laghetto e da un grande, antico chorten dall'apice mozzo. Al riverbero del tramonto, in un momento di calma di vento, lo yeti che da due giorni accompagnava in silenzio il gruppetto, precedendolo di qualche passo, sembrò esitare scrutando con evidente interesse un ampio canalone che affondava verso oriente e volgendosi indicò qualcosa a uno dei monaci: laggiù uno spicchio di luce rifletteva – ma subito si spense – il lampo dorato del cielo. Dopo una parca consultazione i tre uomini ringraziarono con un cenno il loro muto compagno, che subito sparì fra le rocce, e trovato un risibile schermo al gelo notturno sotto uno sperone di basalto si apprestarono a trascorrere la notte avvolti nelle pesanti coperte (già da molti giorni l'ultimo che aveva ceduto alla stanchezza era stato affidato alla minuziosa cura degli avvoltoi). All'alba, una precoce alba estiva, i monaci scorsero quel che l'oscurità aveva lasciato soltanto intuire: in fondo al vallone che scendeva ripido si allargava un pianoro circolare al centro del quale luccicava lo specchio di un laghetto: presso la riva si distingueva un villaggio di una trentina di case e su una gibbosità del terreno un grosso monumento verdastro, simile a una pentola capovolta sormontata da un lungo pinnacolo: un chorten. Senza una parola, i tre raccolsero le loro sacche e presero a scendere, con il passo uguale e sicuro dei montanari, il canalone ghiaioso. Dopo due ore, tanto era durata la marcia, si soffermarono davanti all'antica struttura di pietra: incrostato di una sottile, tenace patina di lichene il grande chorten appariva ben conservato nella sua base robusta e nel tozzo fusto centrale; priva all'apice del suo ornamento rituale, la guglia levava verso il cielo terso i suoi tredici anelli sovrapposti; tredici, come le incarnazioni del Signore. Dopo essersi scambiati uno sguardo (il tibetano, strumento linguistico poco maneggevole, scoraggia ogni chiacchiera superflua) i tre religiosi continuarono il cammino verso il villaggio da cui già muoveva a incontrarli una piccola folla, animata da pia curiosità.

Dopo essersi rifocillati e riposati, in una bassa fumosa saletta che era quanto di meglio il sindaco potesse offrire, i due lama presero a esaminare gli abitanti del luogo: in tutto cinquantadue persone che si accalcavano timidamente sull'uscio del piccolo magazzino adiacente e sulla strada. Il tempo era sereno, tiepido per quelle alte valli, e le bandierine svolazzavano dappertutto. Dalle file più lontane del piccolo assembramento si udiva un parlottio sommesso mentre gli sguardi impassibili dei monaci scorrevano lentamente sui maschi del villaggio: c'erano tre bambini molto piccoli, sei ragazzini fra i quattro e i dodici anni, quattordici giovani di età diverse ma già grandi e robusti, poi adulti, anziani, femmine. Attenti, i due lama osservavano i volti abbronzati dei ragazzi, sfioravano con le dita le palme delle loro mani, toccavano delicatamente le guance e le scapole coperte di ruvida lana marrone. Uno dei fanciulli aveva una scimmietta accoccolata sulla spalla, un altro, dallo sguardo luminoso, portava appeso alla cintura un cilindretto di rame scolpito, l'occorrente per scrivere; uno, pressappoco decenne, aveva orecchie singolarmente grandi che richiamarono la muta attenzione degli esaminatori. Concluso il primo, accurato controllo, i religiosi congedarono con un gesto gli spettatori, trattenendo nella stanza soltanto tre bambini, sedettero sui cuscini e cominciarono a estrarre dalle sacche alcuni oggetti, chiusi in consunte custodie di seta, che deposero su un tavolino di lacca. Due dorje di bronzo, due rosari di avorio marrone, due tamburelli, due piccole coppe di nefrite, due campanelli d'argento: coppie di oggetti perfettamente identici fra loro. Seduti sul pavimento dall'altra parte del tavolino i bambini tacevano osservando attenti ogni gesto: i lama sorbivano adagio il tè. Uno dei due tibetani si volse al confratello straniero (il sole e il vento delle montagne avevano conciato il roseo incarnato inglese in una pergamena rugosa e brunastra: solo gli occhi splendevano dell'atavico azzurro) e con un lento borborigmo spiegò lo scopo della singolare cerimonia. Uno dei membri di ogni coppia di oggetti era appartenuto al Dalai Lama defunto: se fra i bambini accosciati davanti al tavolino ci fosse stata la nuova incarnazione – l'oracolo ne dava quasi la certezza – avrebbe scelto con sicurezza l'oggetto giusto.

Passò un tempo immobile, pari a due tazze di tè. Poi il bambino con le orecchie grandi stese la mano e afferrò uno dei campanelli: lo scosse producendo un debole suono chioccio, poi lo rimise sul tavolo e rientrò nel suo guscio di silenzio. Dopo uno iato morto e prolungato, il bambino con la scimmietta sulla spalla, si sporse in avanti e colse il dorje di bronzo — uno dei due — palpeggiandolo con mano esperta. Si udì, lontano, un sordo rombo di tuono e i tre religiosi si irrigidirono tutti assieme come per un comando tacito. Il bambino dopo qualche minuto di intensa contemplazione depose nuovamente lo strumento sul piano di lacca e con un sorriso afferrò il suo omologo, accennando ad alzarsi. Impettiti sui loro cuscini, gli esaminatori sembrarono afflosciarsi: uno sguardo desolato trasmise dall'uno all'altro la delusione improvvisa. Ma in quel momento la scimmia che soggiornava sulla spalla del fanciullo saltò sul tavolo, prese con la zampina anteriore il dorje scartato e lo depose davanti ai monaci; poi con gesti rapidi e sicuri scelse uno dei due tamburelli, un rosario, un campanello, una coppa di giada e allineò i quattro oggetti a fianco del dorje. Poi si mosse un poco, afferrò la sacca di uno dei monaci, che seguivano i suoi gesti con occhi duri come il diaspro, affondò la manina pelosa e ne trasse un libretto antico chiuso in due valve rettangolari di avorio inciso, sciolse sveltamente i nodi dei nastri di seta viola che univano i due elementi del dittico e depose il volume aperto davanti ai tre uomini. Con un movimento convergente e simultaneo questi si chinarono a leggere (con un goffo rapido gesto l'inglese si assestò sul naso gli occhiali): la stessa frase HOM MANI PADME HUM fluì da tre bocche in un sussurro reverente. Sotto la bronzea cotenna i volti dei due lama, quando si risollevarono, erano pallidi come la carta lunare, rigata da argentee ragnatele, su cui avevano letto la preghiera. Seduta a gambe incrociate sul tavolo basso, la scimmietta li fissava con sguardo fermo. Al secco invito del più anziano dei monaci i ragazzi si alzarono e sgusciarono in fila fuori dalla porta: la scimmia non si mosse. Dopo qualche istante, i tre uomini raccolsero gli oggetti che avevano deposto sul tavolino, li riavvolsero con cura nelle loro preziose custodie ricamate e li riposero nelle sacche. L'anziano si inginocchiò davanti all'animale e allungò un braccio su cui il minuscolo primate si arrampicò prontamente, accovacciandosi poi tra le pieghe della tunica arancione: poi tutti si mossero, superarono la soglia passando nelle stanze ormai oscure fra due compatte ali di fedeli inginocchiati, uscirono sulla strada e, allontanati bruscamente i pochi che si apprestavano a seguirli, si avviarono di nuovo verso la montagna da cui erano discesi al mattino. Non una parola fu scambiata. Giunti all'altezza del grande chorten, la scimmia saltò spontaneamente a terra e si accoccolò sulla larga base di pietra. I due tibetani si inginocchiarono davanti a lei e si raccolsero in meditazione: dal suo zaino — che tradiva una remota origine militare — il lama britannico estrasse una pistola Browning, con un gesto rapido e preciso mise il proiettile in canna, appoggiò l'arma sul torace del piccolo peloso bodishattva, immobile a occhi chiusi, e fece fuoco.

Sempre in silenzio, i tre scossero la polvere dalle loro tuniche, si gettarono i fardelli sulle spalle e con il passo lento dei montanari si avviarono alla ricerca della quattordicesima incarnazione del Signore Avalokitesvara.

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Pagina 16

Muhammad



Mi hanno raccontato che un tale Muhammad, prima allievo e poi modesto assistente del medico Abu Ali al Hosain ibn Abdallah ibn Sina (molti anni e una lunga tradizione orale avrebbero trasformato questo nome in quello a noi più familiare di Avicenna ), interpretando erroneamente una distratta osservazione del maestro si fosse convinto che la gobba del cammello fosse non una peculiarità anatomica della specie, ma una malattia. L'idea, deposta nella sua mente come l'uovo dello scarabeo in una pallottola di sterco, germinò adagio fino ad assumere in forma adulta l'ostinata certezza della paranoia. Deciso a passare dalla sterile speculazione alla sperimentazione cruenta Muhammad acquistò in tutta segretezza – perché non voleva spartire con altri il frutto glorioso – tre lame di Damasco, le più affilate che il mercato di Hamadan potesse offrire, e nove cammelli; tutti soggetti giovani, corridori. Volle dedicare all'attività chirurgica le ore pomeridiane del venerdì e scelse, come luogo tranquillo e protetto da ogni intrusione, il patio della sua casa. Le deboli proteste degli animali seviziati e ancora senzienti malgrado le fumigazioni oppiacee, e la loro morte, che seguiva al massimo in terza giornata, non scoraggiavano Muhammad. Al termine di ogni intervento se ne stava lì seduto a gambe incrociate, contemplando la schiena appiattita del cammello e la fine sutura semilunare che segnava il bordo del lembo: fischiettando assorto osservava a lungo l'animale ormai silenziosamente nella sua dignitosa agonia, sbadigliava educatamente e rientrava in casa. Soddisfatto, tutto sommato.

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