Copertina
Autore Roberto Parodi
Titolo Chiedi alla strada
EdizioneTea, Milano, 2013, Narrativa , pag. 258, cop.ril.sov., dim. 14x21x2,7 cm , Isbn 978-88-502-2692-4
LettoreDavide Allodi, 2013
Classe viaggi , narrativa italiana
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Indice


    Prologo                           7

 1. Facebook fuck-up                  9
 2. Due anni dopo                    11
 3. Fitta                            18
 4. Tuffo                            30
 5. Porcetto                         36
 6. Raniero                          68
 7. Accio                            70
 8. Fitta                            72
 9. La curva perfetta                74
10. Dietro di lui, nessuno           81
11. Tapas                            86
12. Rollio                           91
13. Tangeri                          94
14. Tropico del Cancro              110
15. Transahariana                   116
16. Mine                            123
17. Relitti                         133
18. Treno                           138
19. A capofitto verso sud           148
20. Dakar                           172
21. Arrivano i nostri               176
22. Spedizionieri                   178
23. Mali                            184
24. Il fiume Niger                  193
25. Cazzi in arrivo                 206
26. Strappo                         215
27. Corri!                          218
28. Sul Niger                       221
29. Cieco                           224
30. Back to reality                 237
31. Ultima tirata                   239
32. Tamburi                         244
33. Redemption Day                  249

Nota dell'autore                    255


 

 

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Pagina 12

Nelle cucine delle case di campagna c'è sempre un profumo particolare, un misto di pane, caffè e aria pulita, talvolta reso più bucolico dall'odore del concime e dell'erba tagliata. Tutta roba che le sue narici, assuefatte all'atmosfera di Milano, non erano più abituate a sentire ma che, per qualche strana sinapsi cerebrale, riconobbero subito e gli strinsero lo stomaco in una stilettata di nostalgia.

Si sedette al tavolo di legno massiccio che occupava gran parte della cucina. Su una tovaglietta verde che ne copriva solo metà, una mano misericordiosa aveva sistemato una caraffa di caffè e un cesto di pane coperto da un tovagliolo.

Mentre Scheggia rifletteva, con fatica, sul fatto di versarsi prima il caffellatte o addentare subito un pezzo di focaccia, Nathalia, la sua ragazza alla pari lituana, fece capolino in cucina.

«Ciao Nat, già sveglia?»

«Caffè e focaccia non si preparano da soli come in cucina di Apprendista Stregone», rispose la ragazza con una certa logica. «Comunque, questa mattina presto è arrivato camion e ha scaricato motore», continuò appoggiata al rastrello.

«Cosa? Un camion?» cercò di connettere.

«Sì, camion.» Gli articoli determinativi erano stati incolpevolmente esclusi dal vocabolario della ragazza. «E camion ha fatto bordello su aiuole e ghiaia di giardino.»

«Ok, ok», cercò di abbozzare Scheggia con un sorriso che implorava pietà, sperando di rimandare la discussione di qualche minuto, mentre ingurgitava la sua razione di carboidrati e caffellatte.

Come su molti altri argomenti, anche sulla colazione Scheggia aveva convinzioni ferree: non parlategli di american breakfast o di croissant o pain au chocolat, né tantomeno di aringhe affumicate, formaggi olandesi o porcate simili, incluso il tanto decantato cappuccino del bar: bella schifezza, diceva, roba che ti buca lo stomaco e, quel che è peggio, ti costringe a immergerti in quell'atmosfera da bar milanese, pieno di gente che fa colazione in piedi, guardando l'orologio per non perdere qualche dannato appuntamento di lavoro, che basta vederli perché venga l'ansia anche a te, anche se non hai niente da fare.

No, la focaccia calda era la benedizione di ogni mattina, il viatico per una giornata stupenda, specialmente di sabato.

Ma anche in quei momenti Scheggia riusciva a incazzarsi.

Non poteva soffrirli, quelli che, quando uscivi al mattino presto per comprare la focaccia, li vedevi già lì con i loro cazzo di giornali sottobraccio, il labrador al guinzaglio e i sacchettini per tirar su le cacche.

«Accidenti, esci alle sette e mezzo nella radiosa luce del mattino e la prima cosa che devi fare è mettere le mani in qualche merda di cane. Fosse anche il tuo, che cazzo.»

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Pagina 24

L'essenza della moto cui era giunto dopo anni di evoluzioni era il bobber.

Un bobber è una preparazione motociclistica tipica degli anni Cinquanta e caratterizzata da un approccio minimalista al mezzo, che viene spogliato di tutto ciò che non è indispensabile. La parola bobber deriva dal verbo to bob, cioè tagliare, ridurre, e si riferisce al parafango posteriore, che in queste moto viene solitamente tagliato in modo abbastanza brutale. Scheggia si incazzava quando qualcuno confondeva i bobber con i chopper, due animali che, pur essendo entrambi custom, hanno differenze colossali: i bobber vengono costruiti mantenendo il telaio originale, che invece nel caso dei chopper viene spesso pesantemente modificato, tagliato e risaldato. La moto di Peter Fonda in Easy Rider è un chopper, e così anche quella di Zed in Pulp Fiction. A questo punto, se qualcuno gli chiedeva «Ma si può sapere chi è questo Zed?» lui rispondeva invariabilmente «Zed is dead, babe, Zed is dead».

Lo stile dei bobber invece, molto spartano e privo della maggior parte delle caratteristiche estetiche dei chopper, era molto più confacente all'approccio radicale di Scheggia alla moto. E non era qualcosa che si otteneva subito.

Come tutti, Scheggia aveva passato fasi ridondanti, durante le quali aveva ricoperto la propria Harley (e il proprio giubbotto) di patacche e accessori tanto evidenti quanto inutili. Patch cucite sul gilè e cromo sulla superficie della moto vanno di solito di pari passo tra gli arlisti di primo pelo e anche lui, molti anni prima, non si era fatto mancare niente, compreso il faretto laser blu e l'indianino luminoso sul parafango anteriore.

Ma un giorno, osservando la propria moto attraverso i vetri opachi di un bar, aveva capito che tutta quella roba lo stava distogliendo dall'essenza che voleva raggiungere, sia come uomo che come motociclista. Da quel momento la parola d'ordine erano state levare, alleggerire, liberare. Far respirare il mezzo e tirare fuori la propria anima e quella della moto.

Per quanto riguarda la moto, il processo era ancora in evoluzione. Per quanto riguarda la sua anima, la cosa si era rivelata più complicata del previsto.

Scheggia e Raniero uscirono in giardino.

«Ehi ragazzi, che cavolo, nessuno mi aiuta qui con la mia Frankenstein-XT?» chiamò Accio quando vide i due amici uscire di casa.

«Molla quel cadavere e vedi di trovare un costume», disse Scheggia lanciandogli un asciugamano. «Ce ne andiamo al canyon!»


Le strade che portavano al canyon erano il sogno di ogni motociclista: strette e tortuose, con l'asfalto rugoso e spesso discontinuo, costeggiavano colline e torrenti verso i primi contrafforti dell'appennino ligure.

Molti dei valloni che la stradina costeggiava, erano talmente profondi che anche in piena estate i raggi di sole vi si avventuravano solo per poche ore al giorno. Scheggia e Raniero, nonostante quest'ultimo si portasse Accio a zavorra, pennellavano i tornanti come solo chi conosce alla perfezione la propria moto poteva fare.

Dopo una mezz'ora di pura estasi motociclistica, i tre amici arrivarono al canyon.

Si trattava di un'ansa tranquilla dell'Olbicella, un torrente secondario che, prima di tuffarsi infelicemente nel Bormida, dava il meglio di sé tra quelle montagne. Una pozza di acqua verde e profonda brillava tra i cespugli e le rocce. La montagna scendeva a picco su quello stupendo angolo di natura, creando balconi e cenge naturali che si affacciavano a strapiombo sull'acqua.

I tre uomini seguirono un sentiero, in piedi sulle pedane e schivando le frasche degli alberi. Dopo poco davanti a loro si aprì una piccola spiaggia. Lasciarono le moto all'ombra e si spogliarono coricandosi sulla ghiaia scaldata dal sole, gli stivali e i jeans che penzolavano dai manubri.

«Quanti anni sono che non veniamo qui, ragazzi?» disse Accio.

«A sufficienza per non ricordarsi quanto è fredda quest'acqua», rispose Raniero tuffandosi per primo nel fiume. «Ragazzi è bellissimo, venite mollaccioni!»

La voce arrivava nel silenzio assoluto, con l'eco delle pareti della montagna.

Scheggia e Accio si tuffarono.

«Fantastico!» disse Accio riemergendo. «Secondo me, c'è una cifra di trote qui sotto.»

«Può darsi, anche se nessuna reggerebbe il confronto!» disse Raniero.

«Miii, ancora con quella vecchia storia? Ma crescete ragazzi!» commentò Accio.

«Mi spiace io lì non posso più crescere, vecchio mio», rise Raniero «sono già alle dimensioni massime consentite.»

«Consentite da cosa, sentiamo», borbottò Accio.

«Dalla Mother Company, ovviamente! Sopra la mia misura di uccello, non producono più selle per il Dyna!»

Uscirono saltellando sulla ghiaia, nudi come vermi e sghignazzando sgangheratamente, la pelle arrossata dall'acqua fredda.

Un ragazzino si parò loro davanti, con un'aria per niente colpita dalle presunte dimensioni degli attributi di Raniero e degli altri.

«Sono vostre quelle moto?» chiese indicando le tre Harley.

«Certo», disse Accio, «vedi qui attorno altri tre che potrebbero guidare gioielli del genere?»

Non erano completamente nudi, per la verità: Scheggia aveva i Ray-Ban e una fascia attorno alla testa, Raniero indossava i texani e Accio aveva fatto il bagno con i calzini.

Il ragazzino era quanto di più serio si potesse incontrare intorno ai dieci anni. Aveva l'attrezzatura da pesca e una rivista sotto braccio.

«Ehi ragazzo, giornata magra?» chiese Accio accennando con il mento al carniere vuoto.

«Non ho pescato oggi», rispose il ragazzino. «Era solo una montatura per uscire un po' di casa e leggermi questo in santa pace», accennando alla rivista.

«Roba di moto, vedo», osservò Raniero.

«Mio fratello ha un CBR e dice che le Harley sono dei cancelli» rispose il ragazzino. «Ma da lassù vi ho visti arrivare e mi sembrava che... voglio dire, quelle Harley, le usavate come moto normali, intendo.»

Si guardarono incerti se incazzarsi o mettersi a ridere. Poi Scheggia si infilò i jeans e condusse il ragazzino davanti alle moto. Le guardò e, come ogni volta, un tuffo al cuore gli fece capire che quelle moto erano davvero la quintessenza della meccanica a due ruote, niente di più, niente di meno.

L'aria del pomeriggio era profumata e il frinire di un paio di cicale faceva un discreto casino.

I tre amici si sedettero sulla ghiaia e Scheggia, appoggiando il braccio sulle spalle del ragazzino, gli disse: «Vedi, tu sei giovane, ma sembri un tipo sveglio e per questo voglio spiegarti una cosa. Qualcosa che non tutti sanno, ma che per diventare un vero motociclista è necessario sapere».

«Adesso distoglierà gli occhi e guarderà un posto lontano», sussurrò Raniero ad Accio.

Scheggia distolse lo sguardo e osservò un punto indefinito oltre il fiume.

«Le moto come quella di tuo fratello, be', diciamo che sono moto che ti aiutano, ok? Sono mezzi moderni, fatti per correggere i tuoi errori, per farti sentire un motociclista. Anche se non necessariamente lo sei.»

«Adesso, pausa d'effetto», aggiunse Accio mentre si sistemava per prendere un po' di sole.

Scheggia fece una pausa e poi riprese.

«Guidare una Harley-Davidson, invece, è qualcosa che si apprende di giorno in giorno. È un'evoluzione, ragazzo. Più che di tecnica si tratta di pura filosofia. Ogni curva che devi affrontare è il risultato di un'opera di mediazione con la tua moto. Devi sapere esattamente fin dove lei ti lascerà arrivare, e non devi mai barare perché, in quel caso, lei non ti perdonerà. Devi conoscere i suoi limiti e i tuoi, ed essere molto veloce a valutare quanto le due cose possono essere complementari, per compiere l'impresa.»

«Che sarebbe?» domandò il ragazzo.

«Ma la curva! La curva perfetta!» disse Scheggia con aria sognante. «Quando affronti una curva con una Harley, come per tutte le altre moto devi inserire nel tuo cervello una serie di dati tecnici sulla velocità, l'angolo di attacco, la piega massima, lo stato dell'asfalto, quello dei pneumatici e un parametro che quantifica la tua voglia di rischiare. Diciamo che quest'ultimo dipende dai tuoi maroni, e dalla tua esperienza.»

Il ragazzo lo seguiva guardandolo fisso negli occhi.

«Il risultato di tutti questi dati esce dal tuo cervello e tu lo devi valutare. Peccato che hai solo qualche istante per farlo quindi, se guidi una moto, devi essere piuttosto rapido a prendere decisioni», continuò Scheggia guardando il ragazzo. «Ma se hai una Harley in mezzo alle gambe, devi dimenticarlo, lasciandolo sedimentare in un remoto lembo del tuo cervello. A quel punto, inizia la curva vera e propria, quella che tu ti giochi a poker con il tuo ferro. Staccata, colpo di freno, frizione, scali di marcia, il tuo peso si sposta all'interno della curva, la mano destra sulla manetta del gas, con due dita che sfiorano leggermente la leva del freno. E in quell'istante entra in gioco la parte del corpo davvero cruciale per portare a termine la curva.»

«Il cervello?» azzardò il ragazzino.

«Sbagliato: il culo. È tutto concentrato nel culo. È li che si materializza la sensazione di essere schiacciato dentro la sella come in un ottovolante che sta invertendo l'accelerazione su una parabolica. L'effetto dell'energia cinetica che ti tiene attaccato all'asfalto. Le gomme che mordono il fondo e quel leggero scivolamento controllato che qualche volta senti di poterti concedere, giusto per farti una risata davanti alla morte. Too fast to live, too young to die, e sei il padrone del mondo, nulla ti fa paura. Hai governato le forze oscure: la velocità, la gravità, lo scatto. Sei un felino, un'aquila, un leone. Niente ti può fermare, e mentre la curva finisce tu riapri finalmente il gas. La coppia bassa e progressiva erogata dai tuoi due pistoni si trasforma in una forza inarrestabile che ti raddrizza e ti conduce per mano fuori dal tornante.»

Gli occhi di Scheggia brillavano d'ispirazione anche se il ragazzino non sembrava molto impressionato.

«Vedi, ragazzo, una Harley è qualcosa di vivo, che deve essere governata e domata come un cavallo selvaggio. È una moto che vibra, freme, scarta. Per di più, è pesante, lunga, bassa e, di solito, non frena. Un mezzo che deve essere capito e guidato con una notevole componente fisica.»

Poi, osservandolo con aria critica aggiunse: «Be', per ora sei uno sbarbato, ma ti farai e, forse, avrai anche tu il privilegio di guidare una Harley», concluse Scheggia alzandosi e raggiungendo i suoi amici sulla spiaggetta.

«Il grande maestro dell'Harley ha convertito un altro giovane infedele?»

Il ragazzino si rimise a leggere Moto-Competition, volgendo le spalle alle Harley.

«Secondo me, no», concluse Accio.

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Pagina 43

Nel giro di qualche ora, la festa era decollata grazie alle birre, una buona musica e alle specialità del Monferrato che una instancabile Nathalia non faceva in tempo a servire.

In un angolo del giardino, Scheggia aveva sistemato una batteria, un paio di amplificatori e, naturalmente, le sue chitarre. Prima del successo come scrittore, e subito dopo aver abbandonato il suo vero lavoro, Scheggia aveva passato diversi anni ad arrangiarsi con quello che sapeva fare: qualche collaborazione con riviste, qualche sporadica pubblicazione di racconti, ma specialmente facendo serate nei locali, suonando rock e country con la sua chitarra Martin e la Telecaster. Erano entrambi due strumenti bellissimi. I legni dai colori morbidi e naturali le rendevano simili, in un certo senso. La Martin D28 era una vecchia chitarra vintage con battipenna in tartaruga e un profumo irresistibile di resina che ancora, dopo anni, continuava ad affascinare chiunque avvicinasse il naso alla cassa armonica. Era una grossa chitarra: il modello D derivava da dreadnought, la nave da guerra inglese della prima guerra mondiale, e stava a indicare le sue grandi dimensioni. Le dreadnought, infatti, erano più grosse e il loro suono più forte e caldo. La necessità di creare una chitarra più sonora veniva dalla nascita delle piccole band completamente acustiche, dove gli ottoni finivano per coprire letteralmente le chitarre tradizionali.

Scheggia adorava la storia della Martin, e gli piaceva immaginare se stesso come un musicista di strada, uno di quelli che saltavano sui treni e andavano in giro per il Midwest americano, durante la grande depressione, accompagnandosi con la chitarra: gli stessi che gettarono le basi di stili musicali come il Mississippi Blues, suonato da musicisti che usavano le chitarre dreadnought, le uniche a non scomparire nei grandi cori gospel. Il manico scuro e liscio garantiva una tensione perfetta delle corde. Scheggia per quattro anni non aveva mai sostituito neppure un Mi cantino.

La Fender Telecaster invece era una '52 Butterscotch Blonde, colore naturale, manico in acero e corpo in frassino, con venature di legno che la rendevano diversa da ogni altra. Una chitarra versatile che poteva passare dai suoni di una steel fino ai toni caldi del blues, pur mantenendo un suono proprio, riconoscibile, che la distingueva in ogni situazione. Uno strumento semplice che lo faceva prediligere a molti musicisti country, blues e rock. Era lo stesso modello con cui Keith Richards e Bruce Springsteen avevano suonato le loro ballate più famose, ma era stata usata anche da Muddy Waters ed Eric Clapton. Il suono asciutto e preciso della Telecaster non poteva che essere amplificato da un Marshall valvolare, compatto e potente, nonostante le dimensioni contenute.

Una lunga rullata fece girare tutti verso l'angolo del giardino dove erano sistemati gli strumenti.

Un ragazzo sui vent'anni, forse meno, si era seduto alla batteria e aveva iniziato a martellare un ritmo di quattro quarti.

Sembrava comparso dal nulla. Era a torso nudo, indossava una bandana verde e aveva gli occhi semichiusi, presi dal ritmo. Qualcosa di molto famigliare lo avvicinava a Scheggia, per il corpo asciutto e le spalle larghe, ma soprattutto per lo sguardo.

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Pagina 50

«Già, peccato che però una quantità di motociclisti questo concetto non l'abbia ancora metabolizzato. Ma in realtà sai di chi è la colpa? Di chi ha la missione di farci viaggiare sempre più comodi, più caldi, più asciutti e con il culo più comodo. Ci vogliono dipendenti dall'evoluzione tecnica, che in molti casi diventa morbosa. La colpa è degli scooteroni grandi come bilocali, delle copertine per le gambe, delle moto a tre ruote, di quelle con il tettuccio e di quelle che si possono guidare senza casco. Insomma, di tutti quegli ammennicoli che hanno la presunzione di rendere la moto un surrogato dell'auto. Ecco perché mi fanno incazzare "quelli con la moto grigia metallizzata". Io li chiamo così perché è il colore delle Porsche, delle Mercedes, dei SUV: chi compra una moto di quel colore puoi star certo che ama le trovate dell'elettronica d'avanguardia, i dispositivi e il comfort.»

«Ok, ma a te cosa cavolo te ne frega? Basta che si vada in moto, no? E tanti mototuristi "metallizzati", in moto ci vanno molto più degli arlisti.»

«Certo, Ragno. Ma andare in moto non basta», riprese Accio, «c'è modo e modo: si può viaggiare in un blister asettico passando da un 4 stelle a un altro, oppure immergendosi nella natura, fermandosi a respirarla e sedendosi sul ciglio della strada e comprare da mangiare da un misero baracchino locale. Se ci pensi, con la moto è uguale: la puoi vivere facendoti attraversare dall'aria, dal solleone e dalla pioggia, sentendo il rumore e le vibrazioni del ferro al quale sei aggrappato, oppure tirando su le zip e gli integrali, ascoltando la musica nell'interfono e godendo del tepore delle manopole riscaldate e della copertina per le ginocchia.»

Accio scosse la testa per sottolineare ciò che aveva appena detto, appoggiando la mano su una BMW GS Adventure con due caschi a elmo medievale con la visiera sollevabile, appoggiati sulla lunghissima sella ergonomica.

«Io credo che volare in autostrada a centosessanta a cavallo di una roba di queste e gli occhi sul GPS sia ben diverso che affrontare una remota strada e cercare di farsi intendere da un pastore o arrangiarsi con qualche benzinaccia presa da una tanica di un ragazzino africano, da filtrare con una calza o, ancora, bussare a casa di qualcuno per potersi riparare durante una pioggia improvvisa. Insomma, Ragno, lo sai: immergersi totalmente nel viaggio, cambiare programmi, fermarsi una notte a dormire in casa di qualcuno, vivere le esperienze che l'itinerario ci offre, curare un vecchio motore, che ogni tanto ha bisogno di un rabbocco d'olio o di una stretta ai bulloni. Conoscere gente e dipendere da loro per un po' di benzina, un'indicazione sulla strada, un riparo o un fuoco per asciugarsi. Qui li voglio, questi cazzo di metallizzati.»

Sbatté una mano sul sellone della BMW facendo cadere, da Formica atomica, uno dei due costosissimi caschi, che per fortuna finì nell'erba che non essendo stata tagliata da almeno tre anni, attutì perfettamente la caduta. Lo raccolse schifato rimettendolo a posto, e disse: «Non dico che si debba essere Easy Rider, Ragno: il rischio sarebbe quello di incontrare un redneck e beccarsi una schioppettata nella schiena, ma vivere la nostra moto si può, con un po' di coraggio in più e molti pensieri in meno. Solo così, davvero, diventeremo viaggiatori e non turisti, solo così conterà il viaggio e non la destinazione, solo così, finalmente diventeremo motociclisti e non semplici proprietari di moto».

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Pagina 76

«La tua moto è davvero magica», disse il ragazzo accarezzando il testone del faro della Road King.

«Magica magari no. Piuttosto direi viva!» disse Scheggia sorridendo. «Sai cosa pensavo mentre le curve ci si snodavano sotto il culo? Pensavo a questo dilemma. Guido una Road King vecchia di dieci anni, trasformata in qualcosa di più cattivo e più leggero e la conosco come le mie tasche. Non c'è bullone che non abbia avuto bisogno di una stretta e avrò cambiato almeno sei tipi di manubri e altrettanti tipi di gomme. Nonostante tutto, anche se quelle curve le conosco come le mie tasche, ogni volta ero assalito da un certo senso di agitazione.»

«Agitazione in moto? Tu?» rise Roy.

«I movimenti sono sempre gli stessi. Approccio alla curva, colpo di freno, staccata. Porto il peso in avanti piegandomi leggermente sul manubrio e sposto il culo verso il centro della curva. A metà curva, progressivamente, riapro il gas. La moto si schiaccia sugli pneumatici, che aderiscono perfettamente all'asfalto, mentre il gas mezzo aperto mi incolla sulla traiettoria come se fossi su una rotaia. Ho il casco a trenta centimetri dai catarifrangenti del guardrail, ma la curva è ormai impostata e si srotola sotto di me. Poi, piano piano, la forza centrifuga mi spinge fuori, facendomi raddrizzare.»

Una leggera brezza scompigliava i capelli di Roy, mentre osservava suo padre. Scheggia aveva uno strano sorriso.

«Detta così, può sembrare una descrizione di Giacomo Agostini o vattelapesca», continuò, «ma la faccenda è ben diversa. Sì, perché c'è una cosa che non ti ho mai detto, e cioè che quella stramaledetta curva è la moto che la fa, non tu. E la vuole fare esattamente come piace a lei, non ci sono santi. Puoi impostarla come preferisci, puoi essere un padreterno, puoi viaggiare su qualsiasi tracciato, ma resta un fatto: è la tua Harley-Davidson che ti porta, non sei tu a guidarla. Diciamo che ci stai sopra, ma poco di più. È la drammatica consapevolezza che, a cavallo di quei due cilindri, non si può fare come vuoi tu. Nossignore, ogni operazione è un compromesso tra la tua volontà e la disponibilità che quello stramaledetto ferro ha di fare quello che tu gli stai chiedendo. E non è detto che non abbia ragione lei.

«Ecco cosa significa scegliere di essere dei motociclisti di Harley-Davidson: significa conoscere, ma soprattutto avere rispetto per la tua moto, per le sue possibilità, le sue capacità e i limiti oltre i quali non ti puoi spingere. Un motociclista Harley-Davidson lo sa. Sa che non la potrà trattare come farebbe uno con la BMW, che pretende dalla sua moto ciò che a lui serve, che vuole la soluzione dei suoi problemi, che decide e aziona i comandi», Scheggia sorrideva come se parlasse di un cavallo brado, che nascondeva potenzialità insospettabili, ma che non aveva la minima intenzione di lasciarsi montare.

«No, Roy, l'arlista queste cose se le sogna. L'arlista può solo chiedere, con rispetto, al suo ferro se questa curva la si potrà fare a questa velocità e con questa traiettoria, e poi affidarsi a lui, sentendo il suo fremito basso e continuo, la sua vibrazione nelle mani e sul retrotreno, controllando il leggero sbacchettare del manubrio, graduando la coppia scaricata sull'asfalto in terza piena. L'arlista può solo chiedere, ma lo fa con l'affetto che ha un cowboy verso il suo cavallo, o un cacciatore verso il suo cane da riporto. Questa è la differenza tra un motociclista e un arlista: il primo pilota una moto, il secondo la guida, la sente, la conduce.»

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