Copertina
Autore Alessandro Paronuzzi
Titolo Nuove storie naturali
SottotitoloCome sviluppare una relazione felice con i nostri animali
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2010, Ecoalfabeto , pag. 160, ill., cop.fle., dim. 12x17x1,3 cm , Isbn 978-88-6222-119-1
LettoreSara Allodi, 2010
Classe animali domestici , scuola , ecologia , etologia
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Indice


Il colore del grano - Prefazione di Enrica Ricciardi     3


PARTE PRIMA

Nuove "Storie naturali"                                  9

In principio c'era il cane                              19

Per ultimo venne il gatto                               49

Elementi di bioetica animale                            63

L'essenziale è invisibile agli occhi
Una lettura zooantropologica de "Il piccolo principe"   85


PARTE SECONDA

Gli animali per me sono come i miei parenti
Nuove "Storie naturali" raccontate dai bambini         109

Bibliografia                                           155


 

 

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Pagina 2

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Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons "Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.5", consultabile all'indirizzo http://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libero, e può essere riprodotto e distribuito, con ogni mezzo fisico, meccanico o elettronico, a condizione che la riproduzione del testo avvenga integralmente e senza modifiche, a fini non commerciali e con l'attribuzione della paternità dell'opera.
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Pagina 10

Il "Contratto animale"


Balza dal letto di buon mattino e parte soltanto se ha la mente lucida, il cuore puro e il corpo leggero come un abito estivo. Non porta provviste con sé. Berrà l'aria fresca, in cammino, e aspirerà i salubri odori della campagna. Lascia a casa le armi e si accontenta di aprir bene gli occhi. Gli occhi servono da reticelle dove le immagini si imprigionano da sole. (Jules Renard, Storie naturali)


Chi più legge le Histories naturelles composte da Jules Renard nella campagna francese (era sindaco di un piccolo paese, Chitry) verso la fine dell'Ottocento? Soprattutto chi è ancora in grado di viverle? Per poterle quotidianamente sperimentare lo scrittore francese postula tre requisiti: una mente lucida, un cuore puro e un corpo "leggero come un abito estivo". Le nostre menti invece sono troppo spesso confuse, perché sottoposte a un vero e proprio quotidiano bombardamento da parte di stimoli visivi, acustici e olfattivi che ci stordiscono e ci indirizzano verso facili paradisi artificiali, invogliandoci a ottenere il più possibile nel minor tempo: tutto e subito è il motto della società consumistica, che seduce soprattutto il giovane suggerendogli affascinanti ma pericolose scorciatoie, impedendogli di maturare nel tempo, passando attraverso quelle tappe di formazione a volte anche dolorose ma ineludibili e senza le quali non è possibile diventare un adulto responsabile e capace di reagire agli intoppi che ogni vita propone.

In queste condizioni diventa difficile anche conservare quel cuore puro "come ghiaccio in vaso di giada" – così scriveva il poeta cinese Bao Zhao – capace di individuare qualche valore non effimero sul quale costruire una morale dove il bene e il male siano valori autentici e non contingenti, e per i quali valga la pena impegnarsi, lottare e all'occorrenza sacrificarsi. Per quanto riguarda, infine, il "corpo leggero come un abito estivo", l'espressione può essere intesa come una variazione dell'antico motto latino mens sana in corpore sano: un'affermazione che rivela come fin dall'antichità fosse nota la stretta relazione esistente tra mente e corpo, e della cui validità ogni giorno le più varie ricerche in campo scientifico continuano a produrre prova.

Da quando Renard scriveva le sue Storie naturali è passato poco più di un secolo – un arco temporale insignificante in termini geologici – eppure molte cose sembrano cambiate sul nostro pianeta. Siamo cambiati anche noi, e probabilmente non nel verso giusto. Abbiamo smarrito la capacità di stupire davanti agli spettacoli che quotidianamente e a ogni latitudine la natura si ostina a proporre; abbiamo scelto (sempre che questo verbo conservi il suo significato) di attraversare le giornate – e dunque la vita – con un passo troppo sostenuto e che non ci consente più di sviluppare quella "sospensione dell'incredulità" che Coleridge ha propugnato come requisito fondamentale dell'autocoscienza e di qualsivoglia fede poetica.

Annota Desmond Morris: "L'inventiva umana è stata come una droga di cui non abbiamo verificato gli effetti collaterali. Abbiamo trascinato i nostri corpi primordiali in un meraviglioso campo giochi futuristico, pieno di occasioni di svago e di divertimento. Ci siamo lasciati abbagliare da noi stessi e siamo arrivati, in qualche occasione, a contemplare la possibilità di non essere animali, dopo tutto, ma dèi. Come tali, ovviamente, saremmo immuni dai rischi delle leggi naturali, protetti dal nostro stato divino. (...) Come mai siamo arrivati a questo punto? La risposta, a parere mio, è che tutto questo è incominciato quando abbiamo rotto il Contratto animale: non appena abbiamo cominciato a sopraffare i nostri compagni animali, ci siamo trovati nei guai. Abbiamo creato un mondo sempre più unilaterale, minato alla base da infiniti fattori di instabilità che neppure la nostra grande ingegnosità è riuscita a controllare. In diecimila anni abbiamo sconvolto l'equilibrio della natura a un punto tale che ora ci vorrà un mutamento radicale di mentalità per rimediare al danno".

L'osservazione mi pare particolarmente significativa per l'argomento sviluppato in questo libro, che mira a sottolineare l'importanza e 1'insostituibilità della relazione uomo-animale, fornendo anche alcune indicazioni pratiche per strutturarla sin dall'inizio in maniera da prevenire quelle incomprensioni che continuano a verificarsi troppo spesso e che la rendono problematica.

È tempo dunque di stabilire un nuovo contratto animale. Un contratto che deve partire dai contenuti di CartaModena2002, un importante documento sottoscritto da numerosi enti e associazioni, tra i quali in particolare la SISCA (Società Italiana dì Scienze Comportamentali Applicate), la SIUA (Scuola di Interazione Uomo Animale) e la FNOVI (Federazione Nazionale degli Ordini Veterinari Italiani). Dei diciassette articoli che lo compongono, il secondo è probabilmente quello più significativo:

"L'interazione uomo-animale presenta importanti valenze emozionali, cognitive, formative, assistenziali e terapeutiche che vanno promosse, tutelate e valorizzate all'interno della società. Per portare a eccellenza tali valenze si ritiene indispensabile promuovere un rapporto uomo-animale che sia equilibrato e consapevole, caratterizzato da reciprocità e corretta espressione etologica nel rispetto delle specifiche individualità. La relazione deve essere costruita sulla piena conoscenza delle caratteristiche di specie e di individualità dei soggetti e deve tradursi in un atto di assunzione di piena responsabilità da parte di chi la promuove".

Per rendere operante il nuovo contratto animale è tuttavia necessario, come ha sottolineato Desmond Morris, un mutamento radicale di mentalità; e perché questo possa avvenire viene richiesto di penetrare nella diversità, di decifrare finestre sensoriali che non sono le nostre, di frequentare mondi abitati da creature avvertite come aliene perché non appartengono alla specie umana ma che come noi sono in grado di provare emozioni, sentimenti, gioie e dolori. Non è fantascienza: è piuttosto quella che mi piace chiamare dimensione empatica.

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Pagina 14

La dimensione empatica


Non è bello, il mio cavallo. Ha troppi nodi e troppi incavi, ha le costole piatte, una coda da topo, e gli incisivi da signora inglese. Ma mi fa tenerezza. Mi stupisco che rimanga al mio servizio e si lasci, senza ribellarsi, girare per dritto e per traverso. Ogni volta che lo attacco, mi aspetto che mi dica bruscamente: "No" e se ne vada. Invece, niente. Abbassa e alza la sua grossa testa come per raddrizzarsi il cappello, e rincula docile fra le stanghe. Del resto non gli misuro né avena né grano. Lo striglio fin che il pelo luccica come una ciliegia. Pettino la sua criniera e intreccio la sua coda sottile. Lo accarezzo con la mano e con la voce. Gli lavo gli occhi con la spugna; gli lucido gli zoccoli. Lo commuovono le mie cure? Non si sa. (Jules Renard, Storie naturali)


"Non si sa" conclude sconsolato Renard, che dopo aver prestato le cure quotidiane al suo cavallo pare non essere in grado di capire o di quantificare il possibile piacere percepito dall'animale: il suo sforzo empatico risulta però evidente.

Renard era cresciuto nella campagna francese insieme con gli animali: non solo cani e gatti, anche pecore, capre, galline, asini e cavalli, che facevano parte del mondo agricolo; leggere le sue pagine ci aiuta a comprendere quanto possa essere importante per un giovane crescere coltivando la relazione animale; proprio questa convinzione sta alla base degli interventi che da diversi anni faccio nelle scuole, e che suscitano puntualmente l'entusiasmo nelle classi.

In realtà crescere con gli animali aiuta il giovane a coltivare e sviluppare sensi spesso sottovalutati o ignorati (olfatto e tatto) e ad aumentare l'autostima e l'autocontrollo; lo facilita nella comunicazione con il prossimo e a inserirsi nella socialità. L'animale inoltre si rivela un fenomenale strumento cognitivo che può essere utilizzato con profitto 'trasversalmente' nelle più diverse discipline scolastiche: oltre alle scienze, anche nell'apprendimento della grammatica e nella letteratura, nella storia e nella geografia, nel disegno e nella musica. Ma forse l'aspetto più interessante è proprio quello rappresentato dal fatto che l'animale ci aiuta a crescere nella relazione con il prossimo, impegnandoci in uno sforzo empatico che ogni specie, ogni razza, ogni singolo individuo esige per poter strutturare un rapporto congruo e reciprocamente soddisfacente.

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Pagina 20

Perché il cane


Oggigiorno i programmi delle scuole, oltre alla grammatica, l'aritmetica, la geografia e la storia, tendono a includere anche l'insegnamento di nozioni per la vita quotidiana, come l'educazione civica, le norme nutrizionali, l'igiene personale, il comportamento in società e via dicendo. Ma durante le lezioni di scienze naturali gli alunni hanno maggiori probabilità d'imparare qualcosa sulle balene, i gufi o le rane che sui cani... Anche se il giovane cittadino medio non avrà mai occasione di vedere una balena dal vivo, e gufi e rane li incontrerà solo durante le rare visite allo zoo o all'acquario. Si presume, insomma, che tutti sappiano già tutto ciò che c'è da sapere sui cani grazie al loro rapporto con uno di questi animali, proprio o altrui, e che quindi non siano necessari ulteriori insegnamenti. Eppure nella stragrande maggioranza dei casi, le nostre effettive conoscenze sono assai limitate. (Stanley Coren, L'intelligenza dei cani)


Entrate in una classe e chiedete agli alunni che cos'è un cane: si scatena il putiferio, ognuno vuole dire la sua, e non rimane che mettersi alla lavagna per raccogliere le definizioni offerte; dal diffuso desiderio d'intervenire e di fornire delle risposte, sembra che tutti conoscano piuttosto bene questo animale. È una domanda trabocchetto, una mente più arguta lo fa notare: "Un cane non è una cosa!". La domanda da porre è dunque un'altra: "Chi è un cane?". Parimenti, per estensione: chi è un gatto? Chi è una balena? Chi è un ciliegio? Bisogna sin da subito evidenziare la peculiarità dell'essere vivente, e da questa considerazione di partenza intraprendere un sentiero di conoscenza che può essere portatore di grandi soddisfazioni. Per quale ragione il cane si distingue da tutti gli altri animali? Per quale ragione il cane - come nessun altro animale domestico - è riuscito a ritagliarsi un ruolo nella storia dell'umanità che non può essere in alcun modo sostituito?

Nessun altro mammifero - con l'eccezione dell' homo sapiens - risulta ubiquitario sulla Terra come il cane. Dai ghiacci artici (i cani 'primitivi' del grande Nord, che Jack London ci ha fatto conoscere e amare con Il richiamo della foresta e Zanna Bianca) ai deserti orientali (i veloci levrieri afghani); dalle Alpi (san Bernardo) alle Ande (gli indispensabili cani da pastore che lo scrittore peruviano Ciro Alègria ha celebrato in un'opera memorabile, ancorché in Italia poco conosciuta, I cani affamati), i cani hanno saputo conquistare il nostro pianeta; lo hanno fatto seguendo da vicino le impronte lasciate dalla specie umana nel corso delle sue migrazioni a partire dal continente asiatico - nel quale è avvenuta la sua domesticazione, circa 15.000 anni fa - e si sono distribuiti nei cinque continenti, condividendo con l'uomo le stesse nicchie ecologiche, così ratificando una vicenda di straordinaria intelligenza evolutiva. Per poter conseguire questo eccezionale risultato il cane ha dovuto sapersi adattare a climi e situazioni ambientali estremamente diversificati; il risultato è che nessun altro mammifero si propone con una costellazione morfologica così ampia: un chihuahua pesa meno di un chilo, mentre un alano o un san Bernardo possono sfiorare il quintale; inoltre ogni cane può teoricamente accoppiarsi con un cane di razza diversa, e l'accoppiamento è fertile. L'uomo ha contribuito in maniera determinante a questo processo di diversificazione, selezionando le razze secondo le proprie convenienze. Già Plinio in epoca romana suddivideva i cani in sei categorie: i villatici (cani da guardia), i pastorales pecuarii (da pastore), i venatici (da caccia), i pugnaces (da combattimento); i nares sagaces (da fiuto) e i pedibus celeres (da punta o da ferma).

Le razze ufficialmente riconosciute sono oltre trecento, con caratteristiche e attitudini che le indirizzano a specifici utilizzi; nel 1987 la Federazione Cinologica Internazionale ha deciso di raggruppare tutte le razze in dieci diverse categorie, alle quali vengono iscritti i cani forniti di un regolare pedigree.

Il secondo fattore che spiega l'indiscutibile popolarità conseguita dalla specie canina è ancora più importante. Nessun altro mammifero che sia stato abituato a convivere con l'uomo, posto davanti a una scelta (perché i cani possono operare delle scelte, e questa realtà impone delle importanti conseguenze, soprattutto di ordine etico) preferisce stabilirsi a fianco dell'essere umano piuttosto che convivere con un suo simile. Si verifica un vero e proprio 'tropismo' verso l'uomo in virtù del quale – non a torto – Michelet ha definito il cane "un candidato per l'umanità". Nessun altro mammifero manifesta una simile predisposizione all'ascolto, un'attenzione verso l'uomo come il cane; l'intelligenza delle scimmie antropomorfe (attenzione, quando si parla di intelligenza ci si avventura sempre in un terreno minato: perché in realtà le intelligenze sono diverse, e squisitamente specie-specifiche) può essere considerata per certi versi superiore a quella del cane: ma le scimmie antropomorfe non sono così attente verso il comportamento umano, diversamente ci saremmo preoccupati di coltivare una domesticazione che invece non ha avuto luogo.

Il cane è costantemente proteso verso l'uomo: lo guarda, l'osserva, lo decifra, l'intuisce, a volte addirittura è in grado di prevedere il suo comportamento e dunque di anticiparlo. La punizione più grande e più efficace che si possa mettere in atto verso un cane, qualsiasi sia stato il comportamento che intendiamo correggere, è ignorarlo. Il cane è l'animale antropotropico per eccellenza: un neologismo che sta a evidenziare una vera e propria propensione per l'umano che non ha eguali nel mondo animale; in questa disposizione è facile individuare la più autentica chiave del suo successo e della sua insostituibilità. Per vivere al meglio questa biologica disponibilità è tuttavia necessario conoscere le regole più elementari che governano la 'società' canina, riuscire quanto meno a percepire il loro mondo, penetrare nelle loro motivazioni e sintonizzarle sulle nostre frequenze, operando un reciproco avvicinamento. Perché la felicità di un cane è anche la nostra. E viceversa.

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Pagina 50

Il piú selvaggio di tutti gli animali


Il Cane era selvaggio, il Cavallo era selvaggio, la Mucca era selvaggia e la Pecora era selvaggia, e il Maiale era selvaggio – più selvaggi di quanto si possa immaginare – ed essi se ne andavano negli Umidi Boschi Selvaggi, tutti soli. Ma il più selvaggio di tutti gli animali era il Gatto. Egli se ne andava da solo, e tutti i luoghi erano uguali per lui. (Rudyard Kipling, Storie proprio così)


L'amicizia con il gatto è più recente rispetto a quella che l'uomo ha stipulato con il cane. Nella complessa storia della domesticazione il gatto risulta tra le ultime specie animali addomesticate e la divertente novella di Rudyard Kipling "Il gatto che se ne andava da solo" riesce a mettere bene in evidenza questo aspetto. Lo scrittore immagina che il gatto sia stato l'ultimo degli animali domestici a essersi accostato all'uomo, conservando comunque una sua spiccata autonomia. Probabilmente questa è proprio la verità, poiché la fortuna di questo animale – e anche quella dell'uomo – deve avere avuto inizio con la cosiddetta rivoluzione agricola (periodo Neolitico: circa 8000-5000 a.C.). Una fantasiosa leggenda ipotizza che il gatto sia originato da una carezza che Noè aveva fatto alla leonessa addormentatasi sull'arca, in occasione del diluvio universale; in realtà, il progenitore del felino che tutti conosciamo va considerato il gatto libico (Felis lybica), un animale un tempo molto diffuso nel continente asiatico e africano, di pelame giallo-fulvo e di dimensioni ragguardevoli. Diventato da poco agricoltore, lungo la fertile pianura del fiume Nilo, l'uomo aveva imparato a fare provviste per il futuro, accumulando i cereali coltivati in solidi granai, che tuttavia risultavano esposti ai quotidiani saccheggi dei roditori, che con le loro incursioni notturne provocavano perdite ingenti. Un'autentica 'macchina da guerra' come il gatto – fenomenale cacciatore – deve essere stata prontamente apprezzata dall'uomo dell'antico Egitto; e il gatto considerato come l'efficace soluzione di un problema altrimenti irrisolvibile. Diventato in breve un animale sacro (lo rappresentava la dea Bastet), la sua uccisione era punita con la pena di morte a mezzo lapidazione; e la sua perdita era considerata un vero e proprio lutto familiare. Il corpo dell'animale veniva imbalsamato, avvolto in bende di tela intrecciate di diversi colori, il musetto ricoperto da una maschera di legno scolpito. A Beni Hasan e a Bubastis gli archeologi hanno individuato dei cimiteri felini con migliaia di esemplari imbalsamati; in alcuni casi venivano imbalsamati anche dei topi, che dovevano servire come promessa di cibo per l'aldilà!

La fortuna del gatto si è però bruscamente eclissata con l'avvento dei nuovi padroni del Mediterraneo, i Romani, che nelle abitazioni gli hanno preferito il cane (e il furetto, come cacciatore di topi). Con il Cristianesimo impostosi nel IV secolo d.C. come nuova religione, il gatto da semidio viene degradato a misero proscritto, se non addirittura considerato un sinistro emissario del Diavolo. I cosiddetti secoli bui del Medioevo sono costellati di roghi che assieme alle streghe fanno ardere i gatti; in occasione della festa di san Giovanni (il 24 giugno) trionfano le superstizioni, e i poveri felini – soprattutto se neri – sono spesso le vittime designate.

Per la riabilitazione del gatto bisognerà attendere l'avvento del Rinascimento, quando Leonardo da Vinci giungerà ad affermare che "il più piccolo felino è un capolavoro". Il gatto può riconquistare il perduto ruolo di compagno delle nostre vite; e con il suo fascino entrare in modo particolare nelle grazie degli artisti. Numerosi sono i poeti che, sedotti dai misteri felini, gli hanno dedicato versi suggestivi: Pablo Neruda, Umberto Saba, Charles Baudelaire e Thomas Eliot sono solo alcuni tra i più celebrati autori, e la proposta delle loro poesie può essere una maniera accattivante per introdurre l'argomento nella classe.

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Pagina 52

Gatto, mistero Senza fine


I misteri non mancano. I gatti, con i loro occhi lucenti e il passo felpato, si sono sempre sottratti a spiegazioni definitive. Nel corso di migliaia di anni di storia comune, il gatto è stato per gli esseri umani fonte di stupore e turbamento, di venerazione e superstizione. (Stephen Budiansky, Il carattere del gatto)


Ma quali origini ha questo così celebrato potere seduttivo? Per tentare di decifrarlo dobbiamo avvicinarci – in punta di piedi – al mondo dei sensi del gatto, così diverso dal nostro. Cominciamo dall'occhio, nel quale i cinesi – secondo un noto proverbio – sanno leggere l'ora. Da sempre le pupille del felino sono state oggetto di dotti commentari; a colpire è il loro insolito colore ambrato e la forma – così perfettamente rotonda – che richiama l'immagine del sole. Pur non distinguendo i colori come noi (i gatti hanno essenzialmente una visione bicromatica) gli occhi contengono uno speciale meccanismo di conservazione delle stimolazioni luminose, chiamato tapetum lucidum, che riflette la luce non assorbita dalla retina e che aiuta migliorandola di molto la visione notturna. Il campo visivo binoculare da 90 a 130 gradi è superiore a quello dei cani (circa 60 gradi) e consente di svolgere al meglio l'attività di appostamento e balzo sulla ignara preda. Il grado di dilatazione delle pupille dipende non solo dall'intensità della luce, ma anche dall'umore; durante il giorno la dilatazione pupillare esprime infatti paura o ansietà (non dobbiamo pertanto avvicinarci per accarezzarlo), mentre durante la notte permette al felino di muoversi con destrezza, utilizzando al meglio la condizione di penombra.

Dopo l'occhio, un altro 'mistero': quello delle fusa, tuttora al centro di diverse speculazioni, mai del tutto convincenti. Nel regno animale solo i felini hanno a disposizione questo particolare strumento di comunicazione, così gradito alle nostre orecchie; originano da impulsi nervosi particolarmente regolari, che dal sistema nervoso centrale pervengono al diaframma e alle corde vocali. Il micio comincia a fare le fusa sin dalla nascita, al momento della suzione, e mamma gatta gli fa pronta eco, tranquillizzandolo immediatamente. In seguito, da adulto, il gatto ricorrerà alle fusa anche durante il corteggiamento, per i saluti amichevoli o come segno di conciliazione per farsi accettare da un esemplare dominante; anche in punto di morte alcuni gatti fanno le fusa: un'uscita di scena decisamente commovente, forse il loro modo di esprimere un ultimo 'grazie' alla vita! Un altro mistero può essere ricondotto alla presunta superiore capacità di sopravvivenza di questa specie animale; un noto proverbio sostiene che i gatti posseggono nove vite (quanti saranno mai i proverbi che hanno come protagonista il gatto? Una possibile consegna per la classe che unisce il divertimento all'apprendimento, quella di ricercarli e commentarli) e in un certo senso è vero. Nonostante uno "stile di vita" tendenzialmente spericolato, il nostro felino domestico supera le prove che s'ingegna ad affrontare con invidiabile disinvoltura; e la sua agilità non può essere messa in discussione. Esemplare a riguardo è la capacità di atterraggio. La colonna vertebrale del gatto è particolarmente elastica; i cuscinetti carnosi presenti sotto le zampe al momento dell'urto con il terreno funzionano da veri e propri airbag. Durante la caduta sono sufficienti sessanta centimetri per poter effettuare una completa rotazione del corpo, arcuare la schiena per assorbire l'urto, e atterrare al suolo generalmente senza conseguenze. Un gatto siamese di nome Cognac, a Long Island (Stati Uniti) è precipitato da un aeroplano leggero da un'altezza di 335 metri dal suolo, sopravvivendo miracolosamente!

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Pagina 77

Che l'uomo sia 'nato' come cacciatore è un luogo comune da sfatare, piuttosto è vero il contrario: i primi ominidi comparsi sul pianeta (in Africa, nella Rift Valley, come hanno dimostrato i numerosi reperti fossili rinvenuti) erano in realtà prede vegetariane, oggetto di caccia di mammiferi carnivori più grandi di loro; questi primi ominidi dovevano riunirsi in tribù, per aumentare le possibilità di sopravvivenza agli improvvisi attacchi notturni degli animali, e trasformare i legami sociali in un'arma vincente. È pur vero, tuttavia, che successivamente si è verificata una trasformazione importante dell'apparato masticatorio e che l' homo abilis ha appreso la lavorazione della pietra, riuscendo con i primi utensili a scorticare le carcasse degli animali rinvenuti morti, per poi cibarsene. L' homo erectus, più tardi, imparando a camminare speditamente sulle gambe e utilizzando le mani libere è diventato un cacciatore provetto, in grado spesso di avere la meglio su animali fisicamente più dotati di lui; la caccia è probabilmente l'attività che meglio ha caratterizzato l'alba dell'umanità.

Da allora tuttavia diverse migliaia di anni sono trascorsi e la storia dell'uomo si è evoluta in una precisa direzione; diventato agricoltore e sviluppando la zootecnia, l'uomo ha potuto trarre dagli allevamenti animali la fonte principale per soddisfare le sue esigenze alimentari. La caccia ha ancora qualche giustificazione quando gli animali cacciati possono essere responsabili di alterazioni ecologiche o veicoli di malattie infettive pericolose anche per l'uomo (come, per esempio, la rabbia), ma ridotta a mera attività sportiva ha perduto il suo originario motivo di essere.

L'aumento della sensibilità verso il mondo animale – l'estensione del cosiddetto "cerchio di compassione" – va però ben oltre il quesito sulla legittimità della caccia; sempre più spesso ci si interroga su quali potrebbero essere le conseguenze etiche dei nostri quotidiani comportamenti alimentari. "Chi ama gli animali non li mangia" in realtà è molto di più di un semplice slogan a sostegno della causa vegetariana: è un invito ad aumentare la consapevolezza che un consumo alimentare critico può influenzare i sistemi di allevamento degli animali, provocando modifiche radicali sull'intero pianeta.

Il primo passo da fare, anche nella scuola dell'obbligo, è naturalmente quello di evitare ogni forma di fanatismo. La scelta vegetariana è un punto d'arrivo al quale può auspicabilmente arrivare un soggetto adulto, ma che è più difficilmente proponibile a giovani in crescita, che molte volte tra l'altro praticano attività sportive, e che hanno fabbisogni nutrizionali particolari.

C'è tuttavia un'etica possibile anche nella scelta di mangiare la carne, e la scuola ha il compito importante di formare degli "onnivori coscienziosi", secondo la felice definizione di Peter Singer. L'onnivoro coscienzioso si preoccupa di evitare carni provenienti dagli allevamenti intensivi, nel supermercato fa attenzione a scegliere le uova di galline fatte crescere 'a terra' e non in batteria, non considera le carni di animali appartenenti alla fauna selvatica, abbattuti dai cacciatori, e predilige i prodotti locali o provenienti da allevamenti biologici. A proposito degli allevamenti biologici, vale la pena rilevare come lo sviluppo di questo tipo di zootecnia non è solamente rispettoso delle più elementari esigenze etologiche degli animali allevati, ma induce tutta una serie di vantaggi ambientali determinanti per il miglioramento del nostro sofferente pianeta, quali in particolare la conservazione della qualità del terreno, la promozione della biodiversità animale, la riduzione dell'inquinamento provocato dalle infiltrazioni di azoto e l'eliminazione del ricorso ai pesticidi e ai diserbanti, caratteristico dell'agricoltura convenzionale.

Tra i compiti affidati alla classe insegnante, la formazione di onnivori coscienziosi – rimandando la possibilità di una scelta vegetariana a tempi successivi – deve rientrare nei programmi formativi in virtù dell'indiscutibile importanza che il comportamento alimentare riveste, sia in termini di individuale stile di vita che di benessere animale. "La distanza morale tra le scelte alimentari degli onnivori coscienziosi e quelle della maggioranza della popolazione" riconosce Peter Singer, vegetariano e fervente sostenitore dei diritti degli animali "è talmente grande, che sembra giusto lodare gli onnivori coscienziosi per il cammino da loro compiuto, piuttosto che criticarli per non essere andati oltre". Il cerchio di compassione va estendendosi a piccoli passi. Piccoli, certamente, ma quanto mai significativi.

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