Autore Valeria Parrella
Titolo La Fortuna
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2022, Narratori , pag. 142, cop.fle., dim. 14x22x1,1 cm , Isbn 978-88-07-03486-2
LettoreGiovanna Bacci, 2022
Classe narrativa italiana












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


   11 Prologo

   19 La Fortuna

  127 Epilogo


  139 Riferimenti e ringraziamenti


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

La rotta era facile: andare dove nessuno sarebbe andato.

Navigando verso la nuvola ho capito che eravamo rapiti da essa, attratti come dietro un incantamento. La nuvola non era fatta di acqua, faceva piovere, sì: ma pioveva cenere, uguale a quella che resta alla fine della sera nei bracieri.

Quando si attraversa un banco di nubi si va avanti fino a sbucare dall'altra parte per vedere la costa, e noi così abbiamo fatto. Ma era la costa che stava venendo verso di noi: il mare si era riempito di pietre e non c'era più pescaggio per le nostre chiglie. Le mappe non corrispondevano più al mondo, e il disegno della terra non assomigliava al mio ricordo. A quel punto i marinai sono impazziti per la paura e non potevamo che tornare indietro. Sotto i nostri scafi non c'era più acqua, dovevo impartire l'ordine, subito.

Del resto ci sono solo due modi di vivere: uno è avere sempre paura. Arrischiarsi il meno possibile, chiudersi in casa, fare sempre gli stessi movimenti, mangiare le stesse cose, incontrare le stesse persone, oppure proprio più nessuno. Assumere che il giorno faccia il giorno e la notte la notte. Ascoltare l'agguato dei malanni, quasi tendere loro l'orecchio: a ogni prurito, ogni morso della fame, ogni dolore.

Oppure guardare verso la paura e dire:

"Mi fa paura quella cosa lì. Quel pezzo di vita. Quella scelta, quell'esercitazione che il maestro di retorica si aspetta da me, quella carica che vuole assegnarmi l'imperatore. Mi fa paura la strada che porta fuori dalle mura, i barbari asserragliati alle colline, il rumore nel mezzo della notte di cui non so distinguere l'origine. Mi fa paura la donna che vorrei, perché la voglio".

Ognuna di queste paure dice sempre la stessa cosa: ci ricorda che non siamo dei e che possiamo morire. Per la più piccola o la più grande impresa: noi possiamo morire, perché affrontandola scopriamo che non ne eravamo all'altezza, che quello non era il nostro posto nel mondo né il nostro destino né avevamo sufficiente abilità per sederci al tavolo di quel gioco. Se falliamo, moriamo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 26

Amavo le gite. O meglio: le volevo fortemente quando me le prospettavano, o tra di noi bambini ne organizzavamo una. Le desideravo e diventavano una cosa bella da guardare in avanti, poi, a mano a mano che si avvicinava il giorno, si avvicinava anche quell'emozíone, e mi travolgeva fino a farmi star male. La sera prima ero completamente prostrato, volevo che arrivasse l'alba e insieme la temevo. Imparavo, senza poterlo ancora sapere, che convivono il buio e la luce. Tutto quel fremere degli uccelli a sera, quando rincasano sugli alberi ondeggiando come fossero la forma del vento. L'ululare dei cani alla luna: non sono il canto dello stupore? Non stanno li per ripetere da bestie quello che gli umani sentono da bambini finché il rumore del mondo, e la voce che si fa bassa in gola, e la toga coprono quella contraddizione? Io soffrivo enormemente per quello che desideravo, e soffrivo di più quando stavo per coglierlo.

Poi finalmente il giorno della gita arrivava, e il mondo mi travolgeva, non era più fatto dalla mia immaginazione, ma era vero, ed era sempre meglio di come l'avevo immaginato.

Ricordo.

il giardino di pietra dove mi fecero abbandonare un gatto che amavo. una matrona che innaffiava da sola le rose. una macina grandissima, mossa dall'acqua di un torrente che si riversava dopo poco a mare.

Ci potevano arrivare solo gli schiavi, ma noi bambini ci infilavamo dietro di loro per andare a guardare la grande pietra che girava. Lì, sotto gli alberi di arance, trovai una stella marina, grigia e verde, poi un'altra e un'altra ancora: la terra era piena di stelle.

"C'è stata una mareggiata," disse Flavio.

'Il mare mi aspetta,' pensai io.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 41

Di lì a poco arrivò in porto, tutta china da un lato, quasi stesse per affondare, una grande oneraria. Era un approdo imprevisto: trasportava un carico di anfore vinarie e doveva arrivare fino in Gallia. Ma avevano avuto bisogno di una riparazione. Noi ragazzi corremmo a vederla: era altissima all'ormeggio, e ne scendevano marinai bianchi come le vele: raccontavano che per poco non avevano perduto tutto.

Con Flavio e Claudio restammo seduti fino a sera sulle bitte, a guardare tutta quella confusione che ci cresceva attorno. Finché loro si annoiarono, e quando si decise di tornare in città io dissi:

"Voglio salire".

"Non puoi, abbiamo il divieto."

"Io non vado lì su a prendermi la peste."

"Io sì."

Così mi misi dietro un artigiano che era stato mandato a bordo, come fossi il suo apprendista. La nave era enorme e bellissima. Sul ponte c'erano due marinai seduti a giocare a dadi, ma lo facevano con una lentezza estenuante, come se fossero ubriachi, quasi perdendo l'equilibrio a ogni lancio. Mi guardarono senza guardarmi davvero e continuarono. A prua un gabbiano, indisturbato come i marinai, sventrava un pesce; lì c'era una botola aperta e scesi con una scaletta di corda dentro la stiva. Mi sentii afferrare per la gola: era un uomo enorme; non voleva strozzarmi, credo, ma mi sollevò tutto intero.

"Cosa sei venuto a rubare? Chi ti ha fatto salire? È il vostro apprendista?"

"No," disse l'artigiano, ma poiché era un uomo di città vide che non potevo essere un ladro. Lo vide dai sandali, dagli abiti, dall'anello.

"Mettilo giù, forza, cosa può rubare qui? A chi appartieni, ragazzo?"

"Al proconsole di Cirenaica."

"Perché sei salito?"

"Volevo vedere la nave da dentro."

Il marinaio mi tirò fuori per il polso - mi ha fatto male per tre giorni, dopo - e mi assicurò all'ufficiale del molo, che dichiarò conclusa la visita in mare e la questione in terra e mi disse di correre subito a casa. Neppure mezz'ora dopo mio padre era informato.

"Perché sei salito?"

"Volevo vederla da dentro."

"Va bene, domani chiediamo a Cassio di accompagnarti. L'ha fabbricata lui quella nave."

Quando ci tornai con Cassio, la nave si era trasformata. Era pulita, sana, placida e ferma. Il marinaio enorme aveva un bel grembiule di pelle e la stava ramazzando con una scopetta.

La nave si chiamava Olor e aveva una grande vela quadra e un albero prodiero e, sovrapposta, una vela triangolare. Cassio mi spiegava ogni cosa:

"Aumenta la superficie e va più veloce".

Il sartiame era enorme, robusto come radici.

"Serve per fare le manovre."

A poppa c'era una cabina con porte e finestre, l'aplustre aveva la forma di una testa di cigno.

I due marinai che il giorno prima giocavano imbambolati ora stavano cuocendo una zuppa su un piccolo fuoco e me ne offrirono un mestolo. Io l'accettai.

Era schifoso ma ingoiai e sorrisi.

Cassio, che conosceva la cucina della mia casa, lesse ogni espressione e ogni movimento.

Quella sera, quando mi riportò a casa, disse tutto orgoglioso a mio padre:

"Se un ragazzino di questa età manda giù un mestolo di frumento e colatura di alici vuol dire che farebbe qualsiasi cosa per stare a bordo di una nave".

Lì è stato il momento in cui tutto è diventato difficile. Perché quella frase si è insinuata tra noi, splendente come il desiderio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 54

Prima di partire per Roma ebbi un presagio.

Avevo lasciato la città dalla porta di Ercolano: non era quella diretta sul monte, ma mi piaceva costeggiare la villa Giuliana.

Dopo la villa, cominciai a salire tra l'euforbia e il ginepro, su un sentiero che conoscevo bene. Era una giornata particolare: la nebbia serpeggiava assieme a me, bassa, si avvolgeva ai miei piedi, suoi lembi mi precedevano per poi dissolversi come se li avessi calciati via. Noi la chiamiamo nebbia di mare.

Era per quella che non distinsi subito cosa, e per quella mia debolezza di vista, ma il fuoco: lo intesi dal crepitio. Era tutto intorno a me, non come fa il fuoco dei contadini che procede sugli sterpi, e neppure come fa il fuoco delle case che si attacca alle tende e risale alle travi. Non aveva un percorso, era piuttosto come se ai lati del sentiero vi fossero piccoli pozzi di fuoco, accesi e fermi. L'aria aveva un odore pesante, denso, che chiedeva di respirare aprendo il petto.

Mi decisi a tornare indietro e, vòlto sul pendio, invece della città che mi ero da poco lasciato alle spalle, con i suoi tetti e le cime degli aranci dai giardini, io vedevo i loro interni: gli affreschi di cui erano dipinte le mura, i mosaici sotto i piedi di chi le abitava, gli orci di terracotta e ciò che contenevano. Vedevo i cavalli nelle stalle, e i cani stesi accanto ai padroni, vedevo gli abbracci, e ciascun movimento di ciascun abitante, e quante monete custodivano nelle sacche. Tutto nello stesso momento. Più volte mi passai la mano sugli occhi e stringevo come potevo quell'unico buono che mi orientava nel mondo, ma la visione non mutò. Era tutto vivo e immobile assieme, fermo, ciascuno, nel suo movimento. Vidi la villa Giuliana con le sue cinquantasei stanze - non sapevo quante fossero quando vi ero entrato -, una cesta di fagioli e cipolle nel lupanare a cui non avevo mai avuto accesso, ottantuno pani in un forno, rotondi, tagliati in otto. Vidi il foro, vuoto, i piedistalli senza le statue e ventotto colonne di mattoni nella navata centrale della basilica.

Poi la nebbia si levò così come era venuta e il sole mi restituì al panorama che conoscevo.

Scappai a casa e ognuno interpretò la visione in maniera differente: Ascia disse che l'origine del presagio era lo specchio di mia madre, perché uno specchio così magico poteva essere stato forgiato solo da Vulcano in persona, da qualche parte lì, tra Creta e Cirene, dove governava mio padre. Bisognava sbarazzarsene gettandolo nel fuoco. I miei genitori ne parlarono a cena.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 71

Era il più bravo e il più pedante degli allievi. Almeno Quintiliano così diceva e, tra gli allievi, era il più antipatico. E poi era stato adottato da Plinio, quindi era suo figlio e questo gli dava un enorme vantaggio. Perché la scuola dove andavamo non era come quella all'aperto sotto il portico della palestra o del mercato che frequentavano gli altri. Era una specie di allenamento a essere più veloci degli altri, più scaltri degli altri, saperla più lunga non per saperla e basta, come avevo creduto fosse la natura del sapere dalle lezioni di Alessandro e dalle favole di mia madre, no no: era più simile alla truffa ai dadi di Orazio o al tirar sui prezzi di Ascla con i venditori. Quintiliano era un retore raffinatissimo e una persona perbene, non era sua intenzione scatenare tutto questo, ma intanto la sua scuola era diventata tutto questo, perché da lì uscivano uomini che avrebbero avuto incarichi a ogni angolo dell'impero, e quindi, nonostante non interessasse neppure a lui la competizione, e anzi fosse aborrita tra i suoi insegnamenti, di fatto a scuola si faceva a gara. Il mio amico le vinceva tutte. Secondo era preciso preciso, puntualissimo, se gli assegnavano una traduzione di un passo lui ne portava due, e così via. Io non potevo trovarlo antipatico perché non lo capivo proprio, eravamo troppo dissimili: dove io vedo coste e scogli lui vede poesie, dove io sento la burrasca lui sente i metri, e quando lui si siede io mi alzo. Ma non mi sarei arreso così facilmente alla scuola e all'infinito studio delle variazioni retoriche se non fosse stato per quei due. Lo zio era la salvezza: se a un uomo così immerso nelle lettere avevano affidato un'intera flotta, a me che non avevo voglia di imparare neppure la centesima parte di quello che sapeva lui, almeno una triremi prima o poi me l'avrebbero passata.

Intanto con questa speranza vivevo a casa di Secondo e di Plinia, sua madre, come la mia famiglia romana, mi prendevo le stesse sgridate da suo zio perché volevamo andare a scuola a piedi e non in lettiga, "se camminate perdete tempo per lo studio". Io impazzivo nell'immobilità di quella panca, scrivevo svelto per finire presto e alzarmi.

Quando Quintiliano ci spiegava come costruire in ordine un discorso ci diceva che per funzionare deve essere come il corpo umano: non possiamo dimenticare una gamba o il collo. Allora noi ci sceglievamo le cose che ci piacevano di più o quelle che sapevamo meglio. Secondo lo erigeva come la villa di famiglia, dalle fondamenta al tetto. Invece io immaginavo la mia nave.

L'esordio era la chiglia, con il fasciame interno di serrettoni e serrette alternati.

Per la narrazione costruivo una buona deriva accresciuta.

Al momento dell'argomentazione poggiavo le tavole del ponte e le inchiodavo sui bagli.

E per conclusione ci aggiungevo un rostro.

Aveva ragione Marco Fabio Quintiliano? Aveva ragione Secondo? Io?

Non mi pare: le navi affondano, i palazzi crollano e gli uomini muoiono.

Vivono solo gli dei e ciò che gli assomiglia:

quando abbiamo riso per una sciocchezza. cercare la sua schiena nella notte. quella bracciata che mi fa tutt'uno con il mare. il momento in cui mia madre poggiò la sua mano sulla mia, guardando lontano oltre il davanzale. essere uomo e cavallo nel galoppo. la lama del primo gladio che mi fu regalato. e tu, lenta ginestra.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 91

Sono arrivato a Miseno per l'inizio della navigazione. In questa festa, che le persone di terra non possono capire, c'è la rinascita dopo l'inverno, la speranza che il mare sia propizio, così gli dei. Tutto torna al mare: le ragazze con i fiori, i pescatori con le reti, i bambini scalzi per accaparrarsi un dolce. Il mondo torna a mettersi in movimento, le grandi onerarie tornano a riempirsi di carichi e l'acqua è di nuovo la strada su cui andare e venire. La barca di Iside, piena di spezie, con una grande vela, viene mandata ad aprire quella strada. C'è chi sale fino al faro per cercare di vederla il più possibile e, mentre scompare all'orizzonte, la stagione cambia.

Tra gli ufficiali che osservavano con rispetto il varo, che si preoccupavano sia dell'ordine pubblico che della sacralità del gesto, c'era Porzio, l'uomo a cui mi ha affidato Plinio.

Tutto quello che so delle navi l'ho imparato da solo, tutto quello che ho imparato sulle navi l'ho imparato seguendo Porzio. La prima cosa che ha fatto, salito a bordo, è stato gettare i suoi sandali sugli zoccoli dei marinai. E così ho fatto io, e poi siamo andati sempre scalzi sul ponte di coperta, come uomini qualunque.

"Quando impartisci il comando, devi immaginare cosa succede dentro il mare."

Lo ascoltavo mentre dettava la manovra al timoniere, lo accompagnavo se saliva sul seggio o se scendeva giù dai rematori. Restavo all'inpiedi, nei pochi giorni di pioggia che ci furono durante il mio apprendistato, ancora più dritto di lui, come se l'acqua non mi bagnasse, il vento non mi facesse tremare. Se Porzio era fermo, io restavo fermo, quando Porzio si muoveva, io andavo come lui.

"Quando tutto sarà perduto, per la notte o per la tempesta o per la battaglia, devi sapere immaginare. Questo fa un comandante: sa cosa succede."

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 107

E bene ho fatto perché nella notte è iniziato il maremoto. È Nettuno stesso, scuotitore di terra, che ha spinto fuori quella colonna nera dalla cima del monte, ha gettato nel terrore le città, e ci ha attirati qui per salvarci, poi, a ogni onda. Cadiamo, camminiamo carponi, ci teniamo l'un l'altro. I rematori si sono stesi tra le panche, io resto sopracoperta perché è qui che devo stare, mi sono legato con Porzio all'albero maestro e guardiamo il dio mentre fa.

Arriva da terra come un muro d'acqua, molte volte più alto della nave, e quando è certo che ci travolgerà, si ridistende in forma d'onda e ci solleva, ci porta su. Restiamo su qualche attimo, poi scendiamo nel vuoto, e infine l'onda si ripiega e la mano di Nettuno ci lascia dove eravamo.

Ci guardiamo intorno, bagnati: è scomparsa la Vittoria: è quel gorgo di legni e braccia laggiù, per lei, per loro non possiamo nulla. E, quando abbiamo finito di disperarci, Nettuno torna come un muro di acqua dalle pendici del monte. È immenso, è come il terrore che ti afferra nell'incubo la notte. Si avvicina e moriremo, ma poi si ridistende sotto la nostra chiglia e ci solleva, e quando siamo su sappiamo che cadremo e ci sfasceremo come barbari lanciati dalle mura e invece: scendiamo nel vuoto, l'onda si ripiega e la mano di Nettuno ci lascia dove eravamo.

Finché un marinaio si è trovato la catena dell'àncora tra le mani, la teneva fra le braccia come un cadavere senza testa.

"Dobbiamo legarci all'Annona," ha detto Porzio, ma quando la schiuma ci ha permesso di guardare abbiamo capito che l'Annona era sparita.

Non abbiamo detto una parola a riguardo, cosa c'è da dire quando credi di essere in compagnia e ti trovi solo?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 123

Le persone hanno un'idea vaga della catastrofe, finché non se la trovano davanti. E molti, per loro sorte felice, non se la troveranno mai davanti. Ne hanno un'idea fatta sui testi antichi e sulle tragedie viste a teatro e allora immaginano. Immaginano che nella catastrofe, quando una civiltà viene risucchiata dalla guerra o dal mare, o un'esistenza non tornerà mai più come prima, le donne si battano il petto come Le troiane. E si dicano parole alate come le avrebbe dette Enea lasciandosi alle spalle Ilio in fiamme. Immaginano postura da eroi e grandezza.

Invece nella catastrofe non è possibile alcuna postura, nessuna grandezza. È eroe chi sopravvive a quel momento, chi lo conserva e continua a vivere. Farsi custodi del mondo di prima è già abbastanza per una vita mortale. Non esiste più un petto da battere e le parole non escono perché il fiato è scomparso. Piuttosto: chi sopravvive cerca qualcosa di normale a cui aggrapparsi, qualcosa di quotidiano, un gesto che fa sempre e che lo ricollega alla vita di prima, quando c'era una vita. Gli altri, gli spettatori dell'esistenza, si indignano: "Come, non ha tentato di accecarsi l'unico occhio che gli restava? Edipo avrebbe fatto così".

Non mi sono accecato: ho lasciato il comando a Porzio e ho attraversato il ponte facendo attenzione a non sfiorare i feriti che si dibattevano nei loro orrendi dolori. Ho chiuso la tenda, e nell'angolo a terra in basso ho visto un mucchietto che si muoveva: era la merla, mi guardava con un occhio giallo, anche lei cercava di vivere, era l'unica cosa pulita e morbida attorno a noi per miglia e miglia, per cielo e terra e mare.

Poi mi sono fatto la barba. Tremavo - non sapevo di tremare - ma ho continuato, tagliandomi un poco, finché non mi sono sbarbato del tutto, di tutto, dei giorni alla fonda. E quando ho finito ho riattraversato il ponte, pulito più che potevo, e sono arrivato a poppa, dove rantolava da tre giorni il marinaio che aveva tentato di uccidermi. La ferita dello stilo aveva impregnato di sangue la sua bulla. Allora mi sono steso accanto a lui e gli ho dato la mano.

Ho chiuso gli occhi e sono rimasto così, a sentire il ticchettio regolare delle gomene sull'albero maestro, mentre la Fortuna andava come sa.

| << |  <  |