Copertina
Autore Valeria Parrella
Titolo Lettera di dimissioni
EdizioneEinaudi, Torino, 2011, Supercoralli , pag. 194, cop.ril.sov., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-06-20016-9
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa italiana
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Pagina 5

Uno


In fondo per quello che ne sapevo io la nonna Franca era arrivata in città solo nel 1914, mediana di svariati figli. Lei si chiamava Čechov di cognome, e tutti i segni ne portava in quel viso da vecchia che io ricordo bene, talvolta nei miei sogni, con un naso come una pallina e le sopracciglia folte, gli occhi piccoli a proteggersi dalla tormenta delle notti russe. Raccontava solo due cose della sua infanzia: ricordava suo padre che andava al fronte della grande guerra. Ma che tornasse non lo ricordava: piuttosto raccontava della partenza straziante, e di un mantello nero che si allontanava, con qualche figlio veloce che poteva ancora correre per acchiapparne un lembo, e di una madre terrorizzata che la teneva in braccio. E come un sipario di morte calava nero su di loro quel mantello lasciando me, che ascoltavo, e lei, occhi sgranati di vecchia sul ricordo, in una polvere fumosa e un'immagine grigia. L'immagine, l'unica che lei possedeva e io avevo scandagliato nel fondo alla ricerca della mia origine, era una fotografia piccola come una figurina, su una carta ingiallita, e resa ancora piú incerta da una lampadina tremolante, in foggia di fiamma, che le faceva luce e buio assieme dal comò di questa mia casa pristina.

L'altro ricordo della nonna Franca riguardava appunto una lampadina. Il ricordo è questo: una sera non si dovettero piú accendere le candele, si andò tutta la famiglia vicino alla parete della stanza centrale, e da una conchiglia di ceramica parti la luce. Un impulso elettrico fece sfrigolare due fili neri attorcigliati lungo tutto il muro che salivano fino al soffitto. E in un tempo infinitamente inferiore a quello che serviva per accendere le candele, la conchiglia di ceramica lanciò un grido dal muro alla lampadina appesa, e quella lí, che penzolava, sollecita fece la luce. Nonna Franca mentre mi parlava, seduta nella sua cucina di maiolica verde, in un angolo della finestra che precipitava sulle colline abusate dall'amministrazione Lauro, foreste di palazzi tutti uguali tutti brutti, si accendeva anche lei assieme alla sua prima lampadina elettrica e poi chiosava sempre allo stesso modo: che dopo un poco sua madre andò a spegnere la lampadina perché aveva paura che si consumasse, e rimise in mezzo tutte le candele.

Io questo vedevo allora: una nonna ingenua che manco il congelatore possedeva, usando il frigorifero da campo impostole dalle figlie con i tempi di una dispensa, e che pure poteva ridere di un'ingenuità piú antica. E dietro di lei, stretta nello spazio di mezza finestra, vedevo una città infamata e infamante, derubata e ladra. Eppure da quel ventre io avrei tratto, e in quel ventre sarei scesa, lo sapevo, per diventare grande.

Dal quarto piano di quel palazzo, che a sua volta era nato sulle spalle di un altro palazzo, e che quindi calava veramente dall'alto su una teoria ininterrotta di palazzi senza potervi distinguere strade né divisioni, né androni, né marciapiedi, né interruzioni, ma solo a inseguirsi antenne e terrazzi di copertura e balconcini mille, io volavo sulla città. Facevo cosí: mi sedevo sulle mattonelle calde del balcone, dopo che il sole era finito dietro il suo orizzonte di cemento, allungavo le gambe giú dalla ringhiera, e pensavo di volare. Non giocavo a volare: io pensavo di volare, in fondo volavo. M'infilavo nei balconi degli altri, sbirciavo la luce azzurra e incerta dei televisori accesi, vedevo uomini sedersi a tavola e donne sfaccendare, poi piú tardi planavo sui terrazzi infuocati dove si usciva a prendere un poco d'aria, e seguivo senza poterle ascoltare le conversazioni delle signore, e i loro gesti che accompagnavano la parola, disegnati per aria dalle lucciole delle sigarette accese. Le storie che ho piú voluto si consumavano dietro tende tirate ed erano ombre cinesi che ingigantivano e rimpicciolivano nel movimento, tutto sotto i miei piedi sospesi.

Questa nonna Čechov, arrivata in città come discendente di un ussaro maritato con una francese, era stata la piú sfortunata di tutte. Lo dicevano le sue figlie: mia madre e mia zia, che l'amavano tanto, e a regalarle la sfortuna si sentivano di proteggerla. Gli altri fratelli avevano fatto una certa carriera in città, dando l'avvio a due rami della famiglia: uno si era industriato nella fotografia, l'altro negli impianti di riscaldamento, e in breve ciascuno di loro aveva avuto un negozio, e poi dei dipendenti, e poi altri negozi, tirando su nell'agiatezza tutti i parenti e i congiunti. La piú bella di queste sorelle fu rapita un giorno, come i satiri rapivano le fanciulle, da un giovane ufficiale siciliano di stanza alla Nunziatella che se la dovette sposare, dunque, e la portò a vivere in un paese sprofondato tra la chiesa e il mare a qualche chilometro da Palermo, nel quale la zia Marta, femmina e straniera, non ebbe vita facile.

Si ammonticchiavano, sul comò di nonna Franca, affianco alla foto del padre perso in chissà quale trincea e della madre finita di vecchiaia sotto la luce tremolante, le lettere da Altavilla della zia Marta. Nonna Franca ci metteva giorni interi per decidersi a risponderle, e quando lo faceva non era mai davanti a me. Capitava quindi che mi svegliassi il pomeriggio, dopo un riposino imposto, e trovassi la lettera già chiusa e affrancata, imbottita di parole e pronta a partire per la cassetta della posta con il primo che si trovava a uscire. La nonna Franca aveva la grafia bella delle persone anziane che hanno fatto poca scuola, e con quella commentava la vita ritirata che menava la sua povera sorella. Facevano a gara a darsi delle poverelle: non l'una con l'altra in un compatimento manifesto, bensí ciascuna per suo conto: con il marito Giacomo mia nonna, e con le figlie entrambe, non tanto per sentimenti di pietas, quanto perché a rimarcare la sfortuna dell'altra ciascuna di loro sentiva meno la propria.

La sfortuna di zia Marta era iniziata con una grande fortuna, una di quelle per cui molte sorelle potevano invidiare e molti fratelli ingelosire e molti genitori odiare, di quell'odio contenitivo dei genitori che non sopportano la felicità dei figli: l'aveva rapita proprio quell'ufficiale della Nunziatella, quello bellissimo, che passeggiava di pomeriggio per piazza Plebiscito con lo spadino e l'uniforme blu e si spingeva fino al Rari Nantes per vedere se c'erano donne eleganti da invitare al ballo di fine anno. Era proprio il piú bello di tutti e si era innamorato di Marta, ricambiato da prima ancora di conoscersi, ricambiato da sempre, come sanno ricambiare le ragazze giovani per essersi preparate da sole, senza vera immagine alcuna, nel silenzio della propria stanza, davanti allo specchio o con il vestito di una sorella maggiore addosso, solo tenendo dietro a quell'affanno immotivato del cuore. Quindi io proprio non me la potevo figurare questa sventura, preludio a quella fitta corrispondenza che mi veniva nascosta, o per lo meno cosí a me sembrava: tutte le buste ricevute chiuse da un nastro con un fiocco che io mai avrei saputo riprodurre, ma chiuse strette, che a sfilarne una non sarei riuscita piú a rimetterla a posto, tra la biancheria intima di mia nonna. E quelle da spedire piene di parole nuove e nuovi sensi sigillate sempre un attimo prima che io mi svegliassi da quel maledetto riposino che, ne ero sicura, mi veniva imposto proprio per avere agio nello scrivere la sfortuna che non potevo cogliere.

Dopo la fuitina i due innamorati si erano dovuti sposare di corsa e di corsa erano andati a vivere nella Villa Soriano di lui, a strapiombo sui fichi d'india e di lí a strapiombo sul mare di Palermo, una di quelle ville giallo tufo: cosí mamma me la raccontava. Ma mentre me la raccontava le passava l'estate negli occhi, e cosí non c'era molto da starle a credere.

Mia nonna Franca, intanto, non era stata sottratta da alcuno al suo destino greve di sposare un uomo che non amava, il nonno Giacomo, e che quindi dopo un poco già odiava. Da quello che dicevano le figlie di quel matrimonio, e da quello che potevo vedere io, c'era e ci sarebbe stata nel mondo solo una cosa peggiore dello stare lontani da chi si ama: stare vicini a chi non si ama.

Il giovane Giacomo aveva messo gli occhi su Franca, quella che restava sola sotto i bombardamenti degli alleati con la madre paralizzata, mentre i fratelli maggiori sfollavano in quelle stesse catacombe che oggi i turisti visitano vocianti. I fratelli avevano famiglia e la morte non doveva toccarli, mentre la madre antica era paralizzata, permeata già per metà dalla morte, cosí che l'altra metà voleva compagnia. Franca restava.

Nelle lunghe estati senza scuola, io a piedi nudi fuori al balcone e con le mani sporche di gelso, mi raccontava di quegli aerei che volavano senza essere visti, di quegli annunci di sirena che ancora e per sempre le percuotevano i timpani. Faceva con la testa cosí, dalla balaustra alla finestra, passando con il ricordo su tutti i palazzi che entravano nel mio sguardo e che si corrompevano davanti ai miei occhi. Davanti ai miei occhi smettevano i palazzi di Achille Lauro, tutti grigi, e ne comparivano altri, in bianco e nero e fumo assai, e il caldo che sentivo sotto i piedi già non era piú quello della vacanza estiva, ma il piano di sotto che bruciava.

Saltavano a uno a uno i vetri, con scoppi sequenziali, quasi contemporanei ma sfalsati di un secondo, e poi, in quella stanza buia, piegata sulle gambe fredde e immobili della madre, tentando rosari come mantra, come ninne nanne, Franca sentiva il primo fischio fendere l'aria. Il fischio è una cosa pesante che cade dall'alto e si avvicina sempre di piú, e se cade su di te, muori. C'era un sollievo amaro a sentir saltare per aria il palazzo affianco, quello delle signorine Autiero. Poi un altro fischio, ma questo lontano, poi un altro vicino, e cosí via, centocinque volte per tre anni. Quando i fischi furono finiti davvero, i fratelli di Franca pensarono che alla loro paralitica madre serviva proprio un aiuto costante, e che quindi non era cosí urgente che Franca si sposasse. Invece Franca, mentre i fratelli calcolavano i danni e rimettevano su i commerci, si era innamorata di un giovane stampatore: lo aveva conosciuto nella penombra della camera oscura, lei spuntinava le fotografie. Poi si erano parlati sotto la luce rossa dello sviluppo, le mani corrose dal rivelatore e l'odore del bagno d'arresto su per il naso fino alla fronte, infine mentre lei ritoccava le gote rosa di una sposa di guerra con un acquerello, lui le aveva baciato i capelli, e poi la bocca.

«Pizzichi e baci non fanno pertusi», chiosava la nonna, poi non diceva piú niente, ché tanto il resto si intendeva, si è inteso per una sessantina d'anni. Io, all'epoca, seduta sulla sediolina costruita e dipinta dal nonno Giacomo per i nipoti, una sedia bassa, che pure fuori a un balcone di luglio in mezzo al cemento aveva i poteri evocativi del focolare, non capivo precisamente, ma certo che quegli occhi, dietro occhiali spessi e unti di mani concentrate alla cucina, bruciavano mentre dicevano, e non c'erano cataratte che potessero spegnerli.

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Sotto il balcone dove mio padre è cresciuto, lungo le sei corsie della strada nuova, mentre enormi sfere di metallo agganciate alle gru dissolvevano in polvere gli antichi quartieri, sfilava ogni mezzo di locomozione. Questa scena, di tram arancioni che scintillavano sulle rotaie e a volte si fermavano mentre l'attrezzista correva a muovere la fune in un incrocio, o di filobus, che al primo intoppo potevano accendere il motore e fare una gimcana per procedere, e poi di camion, gli articolati rossi che entravano vuoti nel porto per uscirne dopo qualche ora con i teloni tesi sul dorso, e automobili di ogni misura e modello, e motociclette e motorini, e qualche volta pure un cavallo, poi tutti i tipi di autoambulanze e macchine di carabinieri finanza e polizia, e finalmente: i pompieri fiammeggianti. Tutta questa scena, a pochi metri dagli occhi, ha sempre costituito l'attrattiva principale di quella casa. Una generazione dopo, anche mio fratello si sedeva a terra sul balcone in estate, o dietro i vetri in inverno, e restava ore fermo cosí a guardare il quadro che si muoveva, tracciando le traiettorie sul vetro con un ditino unto che pareva invisibile e poi si manifestava quando la stanza diventava all'improvviso calda e i vetri si appannavano. E cosí avevamo una mappa del traffico di Napoli che mandava su tutte le furie la moglie del portiere quando saliva per le pulizie pesanti. Mio padre su quel plastico ci era cresciuto, e quel plastico lo proteggeva: mi diceva sempre che non c'è stata voce della sua infanzia, nel momento notturno di precipizio verso il sonno, che sia riuscita a essere piú dolce della ripresa delle auto al verde del grande semaforo di via Vespucci. Crescere su un incrocio è una fortuna: tutto viene scandito secondo ritmi precisi che continuano anche mentre dormi. E poi, di giorno, quelle file lunghe di automobili si arricciavano nella furia della città, si scavalcavano, perdevano l'ordine, prevaricavano e si manifestavano con le voci prepotenti dei clacson. Quando una febbre improvvisa, o uno di quei piccoli interventi chirurgici che i genitori fanno di nascosto senza che sia poi mai possibile ricostruirne la verità, mi costringevano a dormire a casa dei nonni, e dormivo cosí in quella stanzetta antica affianco a mio fratello, su quei lettini che erano stati di Claudio e Raffaele, sentivo proprio questo: che addormentarsi era dolce. Abituati noi all'abbrutimento sereno della provincia, al non rumore o al rumore uguale, allo scampanio del santuario di Pompei, a quel poco di città che subito diventa campagna, che pure se cresce nel numero di case e gente, resta per sempre paese; abituate a quello, le mie orecchie sentivano la città incessante come una promessa. Nulla è stato per me dormire a Manhattan al diciottesimo piano di un palazzo sulla Seconda, perché io la mia promessa l'avevo raccolta mille notti prima in un lettino di fronte alla caserma Bianchini. Mi arrotolavo nel letto con questa speranza nuova del cuore: era la città che mi aspettava. Mi prometteva quello che sapeva di potermi dare: che non si sarebbe mai fermata, che la strada era larga e lunga e ci sarebbe stato posto, che qualcuno era sempre sveglio cosí da non sentirsi mai soli, che viveva, era viva, era viva e io stavo cosí vicino a una delle arterie che sentivo il sangue scorrere. Mi addormentavo.

Mio padre si svegliava con Igor, il cane lupo nero che gli leccava la faccia. Questo fino a quando nacque Raffaele: lí, la bisnonna cosí esperta in separazioni affettive, oltre a permettere a sua figlia Margherita di insegnare e covare sensi di colpa per tenersi lei i nipoti maschietti, pensò pure che quel cane non faceva altro che ridurre pantofole in poltiglia, e cosí lo mandò a far uccidere. Mio padre dice proprio cosí, questo fatto lo sa: non fu mandato a vivere in campagna, fu mandato a uccidere. Del resto chi l'aveva deciso aveva avuto mezzo secolo d'Europa per abituarsi ai colpi di pistola. Cosí Claudio ebbe un fratello in piú e un cane in meno, e fu spedito a studiare all'istituto Pontano, una scuola tenuta da gesuiti: dal preside all'ultimo dei bidelli, tutti gesuiti che non ci si poteva sbagliare, e a non starci attenti, a non essere figli di notai o di farmacisti, ci si poteva pure diventare lí per lí, un gesuita, e parlare un bel latino tardo come quello del Pontano, anche se nell'istituto all'Umanesimo non si era ancora arrivati e vi albergava un alto Medioevo fatto di cilici psicologici e mea culpa. Claudio segui con profitto le lezioni, dalla prima elementare al terzo liceo classico, ed era il piú bravo della classe. Si vede ancora dalle foto: che gli altri ridono e lui no. Tutto andò cosí finché un giorno il professore di storia dell'arte entrò in classe alla seconda ora, mentre i figli della borghesia napoletana sonnecchiavano sui banchi guardando il golfo, e disse che Dio non esiste. Lo spiegò rapidamente, che era tutta una pagliacciata molto pericolosa, poi li salutò con grande affetto, mio padre in particolare: lo abbracciò, gli lasciò il suo indirizzo e lo pregò di andare al suo matrimonio.

«Quel prete spretato che ha rovinato tuo padre», diceva mia nonna Margherita quando ero piccina e mi voleva convincere a tutti i costi a fare la prima comunione, che mi avrebbe accompagnato lei in via Duomo a comprare un vestito bello. Ma la rovina non era tanto per la religione, che anche lei frequentava poco - ne frequentava un surrogato via tubo catodico alla domenica, davanti al televisore pure pregava un poco, e a intermittenza andava a controllare le tracchie nel ragú, però non l'assaggiava se il Santissimo Padre, da San Pietro, non dispensava prima l'ostia ai fedeli -, quanto per il fatto che lei avrebbe voluto il figlio medico, o almeno avvocato, e invece Claudio ci era andato sí al matrimonio del gesuita stonacato, ed era andato pure alle sue lezioni all'università, e si era alla fine laureato in architettura, con una tesi sul mosaico bizantino.

Perché mio padre a quella inesistenza del Dio ci aveva creduto, me lo raccontava ancora quel momento cosí semplice, come quando Copernico vide che a far girare la Terra poi tornava tutto; e dopo la maturità se ne andò a Parigi con l'unica cosa che aveva al mondo: una Canon a focale fissa, ma con una profondità tale che catturò se stesso in una teoria di specchi a Versailles, e la Nike con tutte le scale per raggiungerla, e anche uno strano vento nell'aria che stava arrivando e che, a dispetto dei doccioni di Chartres, andava soffiando da parecchio che non c'era nessun Dio, e quindi cercava di porvi rimedio dal basso: in questa foto con i contorni orlati c'è una ragazza in minigonna a grandi cerchi verdi, e le si vede la fica, perché non ha mutande. E la didascalia che Claudio appose a tergo recita: «1965, [...]».

Di ritorno da quel viaggio che gli valse la libertà, la felicità e la scelta, suo fratello Raffaele, che all'epoca aveva otto anni e dopo l'esperienza famigliare del Pontano stava seguendo la terza elementare in una scuola pubblica e laica, fece capolino da dietro i suoi pantaloni di velluto a coste, e tenendosi ben saldo a quel vento che muoveva gli abiti del fratello, disse ai suoi genitori:

«Da grande voglio fare il ballerino».

Poiché era innegabile che la musica fosse una delle muse, i miei nonni comperarono a Raffaele un pianoforte, cercando, come fanno i genitori, di convogliare in una direzione parallela a quella che vogliono loro, i desideri tangenziali dei figli. Andò cosí, che quando il maestro di pianoforte veniva a casa, Raffaele, invece di ripetere le scale, si alzava e attraversava la stanza sinuoso in fantasmagorici chaînés che non sapeva neppure che si chiamassero cosí o, con la schietta invertebrata dei bambini, si curvasse perfettamente in un'arabesque dando grandi capocciate al controbuffet di noce e inviperendo il maestro.

Me lo raccontava di corsa, mentre slittavamo sui marmi della Galleria, ripeteva il passo davanti alla vetrina di Barbaro, e mimava anche la faccia rubizza di quel maestro dell'infanzia, ora che era libero, lui con le sue scarpe di suola e io con le ballerine di vernice. Poi, attraversata la strada, si inchinava alle maschere del San Carlo indicandomi veloce:

- Mia nipote.

Che significava sia presentarmi orgoglioso, sia lasciar intendere che entravo di stramacchio, e mentre tutti facevano la fila agli ascensori noi salivamo le scale ricomponendoci, e io già mi sentivo piú borbonica ad appoggiarmi a quei corrimano di velluto intrecciato e a tenere la schiena dritta. Quando hai dodici anni e uno zio di venticinque ti aiuta a sfilarti la giacca e ti porge la sedia, è un fatto. Poi la musica iniziava. Io questo ricordo, i legni fare scintille e gli ottoni cacciare lucciole, e a quel grande spettacolo che erano la tela e i palchi, la scena e l'orologio d'oro al soffitto, la buca e il sipario, e le poltrone di velluto lí in fondo e gli specchi di ogni palco tutti rivolti verso il palco reale, si aggiungeva lo spettacolo dell'orchestra, che era quello della precisione e dell'arte: erano la matematica e la poesia uniti senza piú possibilità di scissione.

Tutte le mie scuole medie furono questo: andare al San Carlo con zio Raffaele, fila III palco 18 per la lirica e fila II palco 16 per la sinfonica. E se era lirica allora ci facevamo questa lunga passeggiata sottobraccio, prima di arrivare al teatro, da piazza Borsa dove viveva lui con la sua fidanzata, e dove mi avrebbero ospitato per la notte, a me che arrivavo con la corriera blu della Sita, e che a varcare le porte di Napoli già mi pareva di tornare verso me stessa. E durante queste lunghe passeggiate mio zio mi spiegava la trama dell'opera, mi presentava i personaggi e le loro voci, poi, una volta in scena, si accostava al mio orecchio e me li indicava, in linea con i violini; a ciascuna voce il suo strumento. Era una lirica senza regia, gli artisti stavano fermi come legni conficcati nel palco, ma nessuno sentiva il bisogno di altro. Ecco che io già sapevo tutto e mi riuscivo a orientare in quelle arie e quei recitativi, senza dover guardare da un binocolo o spiare il libretto con una lucina, cosí potevo ridere o commuovermi, sperare o intorbidirmi da subito.

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Pagina 94

Undici


Mentre io scrivevo, in nessuna direzione andando con certezza, Gianni studiava il suo orale. Si sapeva che il complicato era passare gli scritti, piú che altro perché era piú difficile imbrogliare. Agli orali nessun candidato si presentava da solo, ma scortati entravano, da quegli avvocati grossi da cui facevano a lungo la pratica, sgobbando per loro senza nulla in cambio, se non quella presenza silenziosa, quello stringere le mani a tutti in commissione, e poi stare negli scranni ad ascoltare il proprio protégé.

Gianni andava solo.

A qualche giorno dalla prova iniziò ad avere paura proprio di questo, e poi nella sua commissione c'erano avvocati piú giovani di lui, ex colleghi di università con i padri che gli avevano abbreviato i tempi.

- È normale che hanno fatto tanto prima di te, le loro mamme mica vivono in una voliera, - gli dicevo, perché ci sostenevamo l'un l'altra come due carte da gioco poggiate in piedi.

Ma lui aveva ragione: quelli lo stavano aspettando per compatirlo, per fare numero di bocciature adeguato, percentuale, proporzionale al totale di promossi inevitabili.

Gianni esisteva, quel giorno, per bilanciare il mondo.

Io aspettavo da ore al centro direzionale, seduta su un muretto a fumare, intorno a me piramidi di vetro e fughe da architetto, e diecine di grattacieli con ascensori esterni che parevano navette spaziali in decollo verticale. Diecine di palazzi contro cui pregare. Ma era facile: il centro direzionale crollava da solo anche prima che ci pensasse la camorra a dar fuoco al Palazzo di Giustizia. Era il luogo perfetto a dirigere la città, tra il cimitero e il carcere piú affollato d'Europa, secondo solo a quelli turchi. Ed era cosí: che gli architetti avevano guardato in alto senza guardare in basso, sotto i grattacieli non c'era un autobus da poter prendere, o una scuola, o una metropolitana che passasse piú frequente di - ogni venti minuti -, o una fognatura che non si otturasse a ogni minima pioggia lasciando disperazione di colletti bianchi e pantano. E sotto ancora a tutto, sotto la torre del tribunale, c'era un parcheggiatore abusivo da tutti i mestieranti conosciuto e pagato mille lire a motocicletta, che pareva il guardiano dell'inferno, e che il giorno in cui i vigili erano andati a smantellargli l'indegno traffico aveva sfoderato uno scritto su carta intestata del consiglio dell'Ordine degli avvocati, che sosteneva che lui svolgeva una funzione di pubblica utilità.

Questo era e niente altro, il centro direzionale.

Io aspettavo Gianni.

Lo vidi arrivare da lontano dignitoso e mortificato, e cominciai a sorridere mentre dentro mi montava un dolore accecante.

- Sono stato bocciato.

- Erano difficili le domande?

- No, sono io che non ho parlato proprio, sono partito sconfitto.

Non era del tutto vero, era solo partito in ritardo: se non stava in carcere come il suo compagno di banco forse lo doveva anche a un professore che gli aveva regalato l'opera omnia di Montale. E ai suoi occhi attenti, al suo animo aperto, che glielo avevano fatto leggere: con tutto quello che ne consegue per sempre. Per esempio l'attenzione costante all'essere umano, ai suoi sogni e ai suoi bisogni. O per esempio il fatto che io ero sicura, quando la notte mi abbracciava, di avere il petto stretto a un comunista.

Quando lo sentivo in imbarazzo, quando lo vedevo in difficoltà, quando sentivo che in lui cresceva una rabbia, io coglievo la giustezza di quelle sensazioni. Sapevo perché c'era la rabbia e contro cosa era rivolta, e dove nasceva l'affanno che gli bloccava il parlare sul nascere, o la reazione, e ne soffrivo come se quell'ambascia fosse mia, o peggio: perché, mia, mi ci sarei buttata come un titano contro. Se qualcosa faceva soffrire Gianni non era mai una cosa piccola, o se lo era, era la sua piccolezza a farlo soffrire. Ai miei occhi Gianni era nel giusto come sarebbe dovuto essere il mondo, e un'ingiustizia contro di lui era intollerabile.

Non cercai di dire cazzate, ma di guardarlo negli occhi ferma ferma, quello sí, poi gli dissi: - Andiamo a casa a piedi -. E lungo la strada si tolse la giacca e la cravatta e la regalammo a un marocchino, ma non per generosità e manco perché erano simboli borghesi. Solo perché avevano portato male: l'ho detto, noi andavamo all'essenziale. Poi ci mangiammo una pizza, poi due paste cresciute, e arrivammo a casa che imbruniva, che tutta l'Arenaccia ci eravamo fatta a piedi, e avevamo commentato la sopraelevata di corso Novara, a chiederci se impiccare gli architetti che l'avevano progettata o la giunta che l'aveva concessa, e nel caso chi prima. A simpatizzare con le prostitute che l'abitavano sotto, e gli inquilini dei palazzi inizio Novecento che si vedevano passare lecitamente le automobili in bocca. E quando poi eravamo arrivati a casa, un poco ubriachi della città e del destino, ci eravamo abbracciati stretti sulla poltrona.

Io in tutta la mia vita non ho mai piú avuto una poltrona cosí.


Odiavamo la proprietà privata, e non avevamo l'automobile, né i soldi per i viaggi. Un viaggio solo ci concedemmo, era dicembre e zio Raffaele aveva accumulato cosí tante millemiglia andando e venendo dai teatri di tutto il mondo, che ci aveva regalato per Natale due biglietti premio, ma le destinazioni erano limitate e ci capitò Oslo, dove andavano tutti in estate a godere delle notti bianche. Il cambio lire-corone era terribile, avevamo prenotato da qui un albergo che non dava nulla e si faceva pagare tantissimo, e ci facemmo i conti al centesimo: che bisognava fare colazione il piú tardi possibile, e tentando di infilarci nello stomaco alimenti grassi e pesanti per arrivare almeno fino a sera.

Gianni ebbe paura sull'aereo all'andata e io al ritorno. Non avevamo vestiti abbastanza pesanti da portare e chiedemmo in prestito agli amici, Sonia che andava a Roccaraso a sciare una settimana l'anno, e Antonella, che aveva la sorella che lavorava in un negozio Moncler e teneva questi giubboni imbottiti che a Napoli non era mai riuscita a vendere. Come nella campagna di Russia, anche il nostro problema furono le scarpe. Io preparai lo zaino di sicurezza: c'erano sette scatole di tonno al naturale e sette di Simmenthal, poi mais e fagiolini. Bustine di tè, una resistenza che messa in un bicchier d'acqua la faceva bollire, zucchero, cucchiai coltello forchetta, freselle e una bottiglietta di olio d'oliva.

A Oslo ci furono giorni in cui ogni quindici-venti minuti entravamo in un centro commerciale per riscaldarci. Noi non sapevamo cosa fosse un centro commerciale, e ci dicevamo che erano invenzioni nordiche, piazze coperte per sopravvivere alle temperature glaciali. Cercammo a lungo l'ingresso della metropolitana: era segnata sulla carta proprio in quel punto lí, ma non c'erano da nessuna parte M e neppure U. Finché vedemmo una teoria di lavoratori infilarsi in un sottopasso che aveva come insegna un millepiedi con le scarpe da ginnastica. Ai docks imparammo che una zuppa di cipolle poteva costare anche ventimila lire, ma era buonissima, e che non passa nessuno per farti una foto in strada e l'autoscatto è reso difficile dalle lastre di ghiaccio delle panchine. Anche sedersi sulle panchine è reso difficile dalla stessa cosa.

Scoprimmo che il sabato sera, e anche il venerdí, se non prenoti non ceni, e ripiegammo entrambe le sere su una tavola calda che di caldo aveva delle zuppe in scatola da riscaldare sul momento. Attorno a noi c'era un tentativo di inghirlandamento natalizio, e candele ovunque. L'ostessa curva ci osservava dal buio della cucina come dallo sfondo di un quadro fiammingo: eravamo soli e restammo soli. Se io penso a quel momento, la faccia di Gianni un po' delusa per non avermi saputo portare a cena e i sorrisi complici che ci scambiavamo mentre ricominciavamo ad avvertire le estremità dei piedi, ebbene io vedo quel tavolo con la tovaglia a quadri sollevarsi tutto intero con le zuppe e le panche, e galleggiare leggero sul fiordo di Oslo, tenuto insieme dalle nostre mani intrecciate al centro. Noi illuminati dalle candele e dalla rifrazione del ghiaccio. Non bisogna mai staccare le mani, è la legge del volo.

Fagiolini e Simmenthal fecero il loro corso, andammo a Bergen con un treno lentissimo che attraversò il crepuscolo per dieci ore. Fuori erano laghi e lande e fiordi e paesetti con tetti spioventi fino a terra, e il fumo li diceva abitati, fuori era il ghiaccio e dentro eravamo noi. Al museo nazionale attraversammo sdegnati la gipsoteca con le copie da Roma e Atene, e restammo con la bocca aperta e senza voce alcuna davanti a L'urlo di Munch. Lo stesso stupore provammo al guardaroba, dove con sollievo ritrovammo il Moncler di Antonella, nonostante fosse incustodito e chiunque, nel nostro immaginario malato, l'avrebbe potuto rubare.

Quando atterrammo a Capodichino e salimmo sull'autobus per tornare a casa - all'epoca non esistevano shuttle spaziali, ma il 178 che faceva la linea dei cimiteri e si allungava un po' a prendere i passeggeri che volevano tornare in città -, ma insomma quando io mi sedetti sul sediolino di legno istoriato di scritte d'amore e cuoricini trafitti dagli studenti, lo zaino tra le gambe, il portafogli tornato a contatto con la pelle a scanso di trafugamenti, e vidi Gianni che andava verso la macchinetta per obliterare, in un attimo pensai che saremmo tornati a casa insieme. Non come quando si torna dai viaggi che sono stati belli ma stanno a fare parentesi perché poi dopo ognuno si rimpossessi del suo, o come le giornate di vacanza e di gita dopo le quali ricomincia la scuola e la madre pedante. No, qui era naturale: saremmo tornati proprio insieme nella stessa casa, uno di noi due avrebbe trovato le chiavi per primo sotto lo strato di sciarpe e calzettoni della valigia e ci saremmo precipitati al telefono ad avvisare i parenti: Atterrati.

Atterrati.

Tutto a posto, sí.

Poi ci sentiamo con calma domani.

E, buttati sul letto, avremmo guardato lo stesso soffitto proiettandoci la volta bassa e gelida del fiordo che avevamo visto insieme. E che quindi in fondo tutto continuava, e nulla era stato regalato o concesso. Non era tempo rubato ma la vita vera, e quella vita era mia. Allora mi commossi profondamente, tanto che Gianni tornava sconfitto nel corridoio dell'autobus: - Nessuna macchinetta funziona, c'hai una penna?

E mi vide con le lacrime dietro gli occhiali.

- E se fai cosí per il pullman mo che vedi le macchine in tripla fila che ti viene, un colpo?

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Quindici


La guerra era iniziata alla fine della prima Repubblica, lí dove pareva che le monete dell'Hotel Raphaël come grandine, come pioggia, avessero cominciato a lavare tutto. Invece essa silente e sotterranea era iniziata, aveva usato cunicoli già scavati e ne scavava di nuovi, per poi rendersi manifesta direttamente negli animi. Non era stato necessario spargere gas, o iniettare veleni, e non era neppure cosí necessario sparare e incarcerare, come nelle dittature del brivido. Qui non era reale, il dolore: era etereo, per questo pareva un racconto di fantascienza piuttosto che una pagina di storia.

La psicologia, dopo aver guarito, era stata scienza dei pubblicitari, degli addestratori al marketing, degli sparring partner per improvvisati amministratori, dei ghost-writer per insegnanti di aerobica finite a far le ministre dello Stato. Ma senza altezza, senza che Mefisto c'entrasse nulla. Perché Mefisto è l'alter ego di Dio, mentre qui, del Faust, vi erano solo improbabili spiriti goffi facili da prendere al sacco e rutilanti su biciclette a una sola ruota.

Del diavolo, solo fraudolenza.

C'era un racconto, su «alter alter», che mio padre leggeva a me e Alessandro: diceva di un dittatore che pensava di comandare il mondo, invece il suo uomo di fiducia riusciva a ipnotizzarlo per imporgli le sue decisioni, ma anche quest'ultimo era diretto dal maggiordomo, il quale a sua volta dal portiere, il quale dal fruttivendolo e cosí via, fino a scoprire che il piú povero del mondo, mediante l'ipnosi, era il padrone del mondo. Noi, anche mia madre, quando lui ci leggeva questa storia, restavamo immobili impietriti, e poi ci scioglievamo solo pensando che non era possibile, e glielo chiedevamo, a mamma e papà, andandocene, che non era vero, vero? E loro ci rassicuravano. Mamma del tutto: diceva due cose, la prima è che era un racconto di fantasia, e dopo, scavando e scoprendo come fanno le madri, le talpe dell'animo, aggiungeva: «E poi non sarebbe possibile perché l'ipnosi è un procedimento complesso, dopo che sei stato ipnotizzato magari non ti ricordi quello che è successo, ma di esserci stato sí. Quindi con l'ipnosi non si può controllare proprio niente».

E siccome lei era zoologa e ipnotizzava le tartarughe, noi ci facevamo i conti tra tutto quello che separa un rettile da un essere umano, e ce ne andavamo alquanto rasserenati. Invece mio padre diceva una cosa assurda, diceva: «E tanto pure se fosse vero a voi cosa cambierebbe? Se a decidere la guerra o quanto costa la roba nel supermercato o se bisogna pagare il ticket o se devono esistere le frontiere, se lo decide il piú povero o il piú ricco della terra, a voi cosa cambia?»

«Claudiooo...!» lo zittiva mia madre dalla cucina, e noi ce ne andavamo tormentati, lungo il corridoio infinito, razionalmente placati ma con un enorme terrore dentro il petto, che io mi spiegavo cosí: posso accettare di essere comandata ma devo sapere da chi, devo poterlo riconoscere, eleggere, dargli colpa o merito. Voglio sapere chi è, se non lo so mi fa paura.

E mio padre come un gatto ci faceva un ultimo agguato sperando che la moglie non lo sentisse, lí, proprio dove il corridoio svoltava nelle nostre camere da letto: «Ma se sarete voi a decidere le cose: questo cambia, si».

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