Copertina
Autore Blaise Pascal
Titolo Pensieri
EdizioneGarzanti, Milano, 2002 [1994], I grandi libri , pag. 520, cop.fle., dim. 11x18x3,3 cm , Isbn 978-88-11-58540-4
OriginalePensées
CuratoreBruno Nacci
TraduttoreBruno Nacci
LettoreLuca Vita, 2006
Classe classici francesi
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Indice

Blaise Pascal:
la vita • profilo storico-critico dell'autore
e dell'opera • guida bibliografica                 V

Prefazione                                        XX


       PENSIERI


Carte classificate

I      Ordine                                      5
II     Vanità                                      7
III    Miseria                                    19
IV     Noia e qualità essenziali dell'uomo        27
V      Ragioni degli effetti                      28
VI     Grandezza                                  35
VII    Contraddizioni                             39
VIII   Divertimento                               47
IX     Filosofi                                   53
X      Il bene supremo                            55
XI     A P.R.                                     57
XII    Principio                                  62
XIII   Sottomissione e uso della ragione          66
XIV    Eccellenza di questo modo di provare Dio   70
XV     Passaggio dalla conoscenza dell'uomo a Dio 72
XV BIS La natura è corrotta                       82
XVI    Falsità delle altre religioni              82
XVII   Rendere la religione degna di amore        87
XVIII  Fondamenti della religione e
       risposta alle obiezioni                    88
XIX    Che la legge era figurativa                94
XX     Rabbinerie                                107
XXI    Perpetuità                                109
XXII   Prove di Mosè                             113
XXIII  Prove di Gesù Cristo                      116
XXIV   Profezie                                  123
XXV    Figure particolari                        130
XXVI   Morale cristiana                          131
XXVII  Conclusione                               137


Carte tagliate in attesa di classificazione

Serie I                                          143

[...]


MISCELLANEA

Serie XX                                         218

[...]


MIRACOLI

Serie XXXII                                      306

[...]


       FRAMMENTI PERVENUTI
       DA FONTI DIVERSE DALLA PRIMA COPIA

Serie XXXV-ESDRA                                 339

Pensieri soppressi                               343

Altri frammenti autografi                        365

Altri frammenti                                  393


       APPENDICE

«Vita di Pascal» di Gilberte Périer              407

Note                                             449

Tavola delle concordanze                         499


 

 

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Pagina VII

La vita e le opere

«Ci fu un uomo che, a dodici anni, con delle aste e dei cerchi, creò la matematica; che, a sedici, fece il più erudito trattato sulle coniche che si fosse visto dall'antichità; che, a diciannove, riprodusse in una macchina una scienza che esiste solo nell'intelligenza; che, a ventitré, dimostrò i fenomeni della pesantezza dell'aria e distrusse uno dei grandi errori della fisica antica; che, all'età in cui gli altri uomini iniziano appena a nascere, avendo completato l'intero percorso delle scienze umane, si accorse della loro nullità e volse i propri pensieri verso la religione; che, da questo momento fino alla morte, giunto a trentanove anni, sempre malato e sofferente, fissò la lingua che parlarono Bossuet e Racine, fornì il modello della più perfetta comicità e del ragionamento più rigoroso; che infine, nelle brevi pause dei suoi mali, risolse in via teorica uno dei più difficili problemi di geometria, e mise sulla carta pensieri che stanno tra il divino e l'umano: questo genio terribile si chiamava Blaise Pascal». (Chateaubriand. Génie du Christianisme).

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Pagina XXV

Dovunque nei Pensieri la natura diventi un paesaggio per l'uomo, è subito chiaro che in essa si compie la suprema e decisiva epifania dell'abisso. Se, quando vuole incrinare la presunta oggettività dello sguardo, Pascal lo abbandona al relativismo, all'impossibilità di afferrare la caotica complessità del reale secondo principi unitari (l'anatomia dello sguardo), trattando la natura in quanto tale egli opera una sbrigativa semplificazione fenomenologica: «Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi regni» (fr. 290). Ridurre la natura agli elementi costitutivi significa la sua geometrizzazione: un gesto altamente simbolico di cancellazione. Il carattere più sicuro di questa realtà, che sembra costantemente osservata in una lontananza minacciosa, in una formidabile estraneità, è il suo silenzio: «l'univers muet» (fr. 184). Il silenzio è il limite estremo della corporeità, il sarcofago dentro il quale la materia sembra giacere in una calma immemore. Pascal ha sofferto in modo acuto questo silenzio della natura, che è poi speculare all'attenzione verso la parola che caratterizza le Scritture: come nessuna filosofia ha diritto di oggettivare Dio, così nessun paesaggio può parlare all'uomo. In entrambi i casi si consumerebbe l'idolatria creaturale. Il silenzio dunque non è solo un momento teologicamente derivato, né una tattica apologetica (per indurre al distacco, all' Abgeschiedenheit di Meister Eckhart), esso è il volto più autentico e necessario della natura. Descrivere Dio o descrivere la realtà sono forme diverse di un'unica follia. Il Dio dei filosofi è più che impossibile, è inutile. Così la scienza nel suo vano interrogare la natura: la natura è muta, in essa si manifesta l'orrore di ciò che non ha limite, a cui è vano rivolgersi. L'universo di Pascal, con i suoi corpi racchiusi dentro forme astratte, in una successione impercorribile, ha i tratti raggelati del cadavere. Ma ogni creatura è morta fuori dall'azione salvifica di Dio, dunque la natura è richiamo all'assoluta perdizione e metafora della colpa: «L'eterno silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce» (fr. 187). La natura è paesaggio, terra desolata, perché non è il luogo della parola (in questo Pascal è del tutto estraneo a quello che Foucault definisce come sapere classico: per lui ogni segno è insufficiente, alla vanità di ogni semiologia corrisponde perfettamente l'assurdità di ogni ermeneutica).

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Pagina 8

19
Quando si è troppo giovani non si può giudicare bene, e neppure quando si è troppo vecchi.

Se ci pensiamo poco... Se ci pensiamo troppo, c'infatuiamo e ci ostiniamo.

Quando consideriamo il lavoro subito dopo averlo fatto, ne siamo ancora coinvolti; se lasciamo passare troppo tempo, non lo riconosciamo più.

Così per i dipinti guardati da troppo lontano e da troppo vicino. Non c'è che un solo punto giusto, gli altri sono troppo vicini, troppo lontani, troppo in alto o troppo in basso. Nell'arte della pittura spetterà alla prospettiva stabilirlo, ma nel campo della verità e della morale a chi spetterà?


20

Il potere delle mosche, che vincono battaglie, impediscono alla nostra anima di agire, mangiano il nostro corpo.


21

Vanità delle scienze.

Quando saremo afflitti, la scienza della realtà fuori di noi non ci consolerà dell'ignoranza morale, ma la scienza morale mi consolerà sempre dell'ignoranza delle scienze oggettive.


22

Condizione dell'uomo.

Incostanza, noia, inquietudine.

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Pagina 18

45
Mi sembra che Cesare fosse troppo vecchio per divertirsi a conquistare il mondo. Queste specie di distrazioni andavano bene per Augusto o Alessandro. Erano giovani, difficili da tenere a freno, ma Cesare doveva essere più maturo.

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Pagina 74

185
H. 9.

Sproporzione dell'uomo.

Ma poiché non può vivere senza credervi, mi auguro che, prima di inoltrarsi nelle più profonde ricerche della natura, egli la consideri almeno una volta con calma e serietà e pensi anche a se stesso, riconoscendone le proporzioni.>

Che l'uomo contempli dunque l'intera natura nella sua alta e piena maestà, distolga il suo sguardo dai bassi oggetti che lo circondano. Osservi quella luce splendente messa come una lampada eterna per illuminare l'universo, finché la terra gli appaia come un punto a confronto con il vasto giro descritto dall'astro, e si stupisca di come quello stesso vasto giro non è che un filo fragilissimo rispetto a quello percorso dagli astri che ruotano nel firmamento. Ma se la nostra vista si ferma lì, che l'immaginazione vada oltre, sarà lei a smettere di pensare prima che la natura smetta di fornirle materia. L'intero mondo visibile non è che un impercettibile segno nell'ampio seno della natura. Nessuna idea vi si avvicina. Abbiamo un bel dilatare i nostri pensieri al di là degli spazi immaginabili, a confronto della realtà partoriremo dei semplici atomi. È una sfera infinita il cui centro è dovunque e la circonferenza in nessun luogo. Che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero è in fondo la più grande testimonianza sensibile dell'onnipotenza divina.

Dopo aver fatto ritorno a sé, l'uomo consideri ciò che è rispetto a ciò che esiste, si veda smarrito in un angolo dimenticato della natura, e da questa piccola cella dove si trova, cioè l'universo, impari a dare il giusto valore alla terra, ai regni, alle città e a se stesso.

Cos'è un uomo nell'infinito?

Ma per fornirgli un altro prodigio di uguale eccezionalità, esamini le cose più impercettibili, come un acaro, che pur nella piccolezza del suo corpo rivela parti incomparabilmente più piccole: zampe con giunture, e vene nelle zampe, e sangue nelle vene, e umori nel sangue, e gocce in questi umori, e vapori nelle gocce. Ma divida ancora queste ultime cose, spinga al limite la sua capacità di pensare, e l'ultimo oggetto a cui può arrivare sia per ora quello che interessa il nostro discorso. Forse penserà che questa è la cosa più piccola della natura.

Ma anche là dentro voglio che scorga un nuovo abisso. Non voglio raffigurargli solo l'universo visibile, ma l'immensità della natura racchiusa in questo minuscolo atomo. Guardi che infinità di universi, ciascuno col suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile. E animali su questa terra, e acari nei quali ritroverà tutto ciò che ha trovato negli altri, e altri ancora nei quali ritroverà le medesime cose, incessantemente e senza tregua. Si perda in queste meraviglie stupefacenti per la loro piccolezza come le altre per la loro grandezza. Chi non proverà ammirazione per il fatto che il nostro corpo, poco fa impercettibile in un universo a sua volta impercettibile in seno al tutto, sia diventato ora un colosso, un mondo o meglio un tutto davanti all'inarrivabile nulla? Chi rifletterà in questo modo si spaventerà di se stesso, e considerandosi sospeso alla massa che la natura gli ha dato tra i due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà alla vista di queste meraviglie e penso che, mutando la curiosità in ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a farne oggetto di una ricerca presuntuosa.

Ma alla fine, cos'è un uomo nella natura? Un nulla davanti all'infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli estremi. Il fine e il principio delle cose gli sono inesorabilmente nascosti da un segreto impenetrabile.

Incapace al tempo stesso di vedere il nulla da dove è tratto e l'infinito che lo sommerge, cosa potrà fare se non cogliere qualche aspetto di ciò che sta a metà, disperando eternamente di conoscerne il principio e la fine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e portate nell'infinito. Chi saprà seguire questi incredibili passaggi? Solo il loro autore li comprende. Nessun altro lo può fare.

Per non aver contemplato questi infiniti, gli uomini si sono messi alla temeraria ricerca della natura, come se tra loro e la natura ci fosse qualche proporzione.

È curioso che abbiano voluto comprendere i princìpi delle cose per poi spingersi a conoscere tutto, con una presunzione infinita quanto il suo oggetto. Poiché certamente un simile progetto è possibile solo a patto di una presunzione o di una capacità infinita, come quella della natura.

Quando si è studiato si capisce che, avendo la natura impresso la propria immagine e quella del suo autore in tutte le cose, quasi tutte partecipano della sua doppia infinità. Per questo constatiamo che l'estensione della ricerca è infinita in tutte le scienze, e così, per esempio, chi può dubitare che la geometria possa dispiegare un'infinita infinità di proposizioni? Anche la moltitudine e la sottigliezza dei loro princìpi sono infinite, perché chi non vede come quelli che prendiamo per ultimi non si sostengono da soli, ma si appoggiano ad altri i quali, appoggiandosi ad altri ancora, non ne ammetteranno mai un ultimo definitivo?

Ma riguardo ai princìpi ultimi che appaiono alla ragione, noi ci comportiamo come davanti alle cose corporee, quando chiamiamo indivisibile quel punto oltre il quale i nostri sensi non percepiscono altro, per quanto infinitamente divisibile per sua natura.

Di questi due infiniti delle scienze, l'infinitamente grande è molto più evidente, ed è per questo che poche persone hanno avuto la pretesa di conoscere tutte le cose. «Parlerò di tutto», diceva Democrito.

Invece l'infinitamente piccolo è molto meno visibile. Sono stati piuttosto i filosofi a pretendere di arrivarvi, e qui tutti si sono arenati. Da questo hanno origine titoli così comuni come: I Princìpi delle cose, I Princìpi della filosofia, e altri ugualmente pomposi, a dir la verità, benché meno appariscenti di questo che abbaglia: De omni scibili.

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Pagina 265

582
Che cos'è l'io?

Un uomo che si mette alla finestra per vedere i passanti, se io passo di là, posso dire che si è messo là per vedere me? No, perché egli non pensa a me in particolare; ma colui che ama qualcuno a causa della sua bellezza, lo ama? No, perché il vaiolo, che ucciderà la bellezza senza uccidere la persona, non gliela farà più amare. Ma se mi amano per la mia intelligenza, per la mia memoria, amano davvero me? No, perché posso perdere queste qualità senza perdere me stesso. Dov'è dunque questo io, se non si trova nel corpo e neppure nell'anima? E come amare il corpo o l'anima, se non per queste qualità, che non sono ciò di cui è fatto l'io, dal momento che sono caduche? Si può amare la sostanza dell'anima di una persona in modo astratto, indipendentemente dalle sue qualità? Non è possibile e non sarebbe giusto. Non amiamo dunque mai nessuno, ma solo le sue qualità.

Non prendiamoci più gioco dunque di quelli che si fanno onorare a causa di cariche e di uffici, perché non si ama nessuno se non per qualità prese a prestito.

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Pagina 267

588
Ordine.

Avrei volentieri impostato il discorso come segue: per dimostrare la vanità di ogni condizione, dimostrare la vanità delle vite comuni e poi la vanità delle vite filosofiche, scettiche, stoiche; ma l'ordine non sarebbe rispettato. Conosco un po' di cosa si tratta e come poche persone lo capiscano. Nessuna scienza umana lo può mantenere. San Tommaso non l'ha rispettato. La matematica lo mantiene, ma pur nella sua profondità essa è inutile.

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Pagina 274

615
Due infiniti. Centro.

Quando leggiamo troppo velocemente o troppo adagio non capiamo niente.


616

Non si deve misurare la virtù di un uomo dalla sua eccezionalità ma nel quotidiano.

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