Copertina
Autore Pier Paolo Pasolini
Titolo Descrizioni di descrizioni
EdizioneGarzanti, Milano, 2006 [1996], Saggi , pag. 628, cop.fle., dim. 138x210x40 mm , Isbn 978-88-11-67511-2
CuratoreGraziella Chiarcossi
PrefazionePaolo Mauri
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe critica letteraria
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Indice

Introduzione di Paolo Mauri                                  I

Edward Morgan Forster, Maurice (26 novembre 1972)           21
[Osip Mandeil'stam] (3 dicembre 1972)                       27
Leo Pestelli, Perdicca (10 dicembre 1972)                   33
Alberto Arbasino, Il principe costante;
    Goffredo Parise, Sillabario n. 1 (17 dicembre 1972
    e 14 gennaio 1973)                                      39
Witold Gombrowicz, Diario 1957-1961 (24 dicembre 1972)      46
J. Rodolfo Wilcock, La Sinagoga degli iconoclasti;
    Storia Augusta; Marcel Schwob, Vite immaginarie
    (14 gennaio 1973)                                       52
Italo Calvino, Le città invisibili (28 gennaio 1973)        58
Anonimo russo, La via di un pellegrino;
    Lazarillo de Tormes (11 febbraio 1973)                  65
Andrej Platonov, Il villaggio della nuova vita
    (25 febbraio 1973)                                      72
Joris-Karl Huysmans, Controcorrente (11 marzo 1973)         78
Mary McCarthy, Uccelli d'America (25 marzo 1973)            86
Enzo Siciliano, Rosa (pazza e disperata) (1° aprile 1973)   93
Gaetano Carlo Chelli, L'eredità Ferramonti (8 aprile 1973)  99
Gottfried Benn, Poesie statiche (15 aprile 1973)           105
[Alcuni poeti] (22 aprile 1973)                            111
Carlo Cassola, Monte Mario (29 aprile 1973)                117
Anna Banti, La camicia bruciata (6 maggio 1973)            122
Giacomo Debenedetti, Niccolò Tommaseo (13 maggio 1973)     129
«Almanacco dello Specchio n. 2»; Marianne Moore, Il
    basilisco piumato (20 maggio 1973)                     135
August Strindberg, Inferno (27 maggio 1973)                141

[...]

Palladio, La Storia Lausiaca; Pietro Citati, Alessandro
    (15 novembre 1974)                                     541
Mario Soldati, Lo smeraldo (29 novembre 1974)              546
Alfredo Todisco, Breviario di ecologia (6 dicembre 1974)   552
Luciano, I dialoghi; Tito Balestra, Quiproquo
    (13 dicembre 1974)                                     558
Osvaldo Licini, Errante, erotico, eretico; Alberto Savinio,
    Hermaphrodito; Gian Paolo Caprettini, San Francesco,
    il lupo, i segni (20 dicembre 1974)                    564
Abelardo, Storia delle mie disgrazie. Lettere d'amore di
    Abelardo e Eloisa (27 dicembre 1974)                   569
Gianfranco Contini, La letteratura italiana, tomo IV:
    Otto-Novecento; Alberto Arbasino, Specchio delle mie
    brame (3 gennaio 1975)                                 577
Stanislao Nievo, Il prato in fondo al mare
    (10 gennaio 1975)                                      582
Roberto Denti, Incendio a Cervara (17 gennaio 1975)        590
Leonardo Sciascia, Todo modo (24 gennaio 1975)             594

Nota ai testi                                              601
Riferimenti bibliografici                                  603
Indice dei nomi                                            611

 

 

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Pagina 52

J. Rodolfo Wilcock, La Sinagoga degli iconoclasti
Storia Augusta
Marcel Schwob, Vite immaginarie



Riprendendo in mano La Sinagoga degli iconoclasti di J. Rodolfo Wilcock, per scriverne – dopo averlo letto una dozzina di giorni fa – provo come un leggero senso di terrore. Ma come! L'avevo letto con tanto divertimento, addirittura, qualche volta, ridendo a voce alta, da solo, come un pazzerello. Adesso il mio sguardo scorre su queste pagine, riconosce questi nomi e questi cognomi, questi titoli di libri, queste date di edizioni: e un disagio sottile mi dà come un senso di nausea, una voglia di dimenticare.

Le città invisibili di Italo Calvino si concludono con questa frase: «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Ebbene, questi due modi di mettersi in rapporto con l'inferno per non soffrirne, non prevedono il caso di Wilcock. Egli non appartiene certo alla maggioranza per così dire silenziosa (in realtà essa parla il linguaggio dei motori, delle radioline e delle televisioni), che accetta l'inferno, ne fa parte e non lo riconosce più; ma non appartiene però neanche all'élite fortunata che cerca nell'inferno qualcosa che non è inferno.

Anzi, Wilcock sa, prima di ogni altra cosa, sa da sempre sa per sempre, che non c'è altro che l'inferno. Non si propone neanche nel modo più vago e generico (come Calvino) l'ipotesi che ci sia qualcosa al di fuori di esso. Non si sogna neanche lontanamente che ci possa essere un modo, anche illusorio, di non soffrirne o almeno di ignorarlo. E cos'è che distingue allora Wilcock dalla maggioranza silenziosa? Θ chiaro, benché terribile: egli accetta l'inferno, come la maggioranza silenziosa, ma al contrario della maggioranza silenziosa non ne fa parte, e perciò lo riconosce. Ecco delineata una condizione di «estraneamento». L'accettare un fatto per pura e semplice obiettività, e il non farne parte pur riconoscendolo, costringe Wilcock ad avere con questo fatto un rapporto tragico di estraneità: a cui non è consentita alcuna soluzione, nemmeno provvisoria o irrisoria. Quando la tragicità è ridotta ad essere così completamente priva di illusioni, non può che trasformarsi in comicità.

Visitatore-dannato dell'inferno, Wilcock, bruciando nel fuoco o dibattendosi nella pece bollente, osserva gli altri dannati: ma pur soffrendo – com'è naturale – in modo selvaggio, in questo suo osservarli li trova ridicoli. Il suo ridente sguardo cadaverico si posa soprattutto sui dannati in qualche modo simili a lui, appartenenti alla sua cerchia, alla sua specializzazione. La loro irresistibile comicità di dannati non spinge però Wilcock né a deriderli troppo né ad averne qualche pietà. Descrivendoli, egli concretizza semplicemente la propria condizione di «estraneità»: la concretizza in una forma di distacco linguistico che è infatti quasi filologico: e decisamente filologico lo è nella sua veste di «finzione» narrativa.

Ma è ora di spiegare in più povere parole di che si tratta. Wilcock ha finto di essere un enciclopedista, armato di una erudizione spaventevole, capace di tutto, e, nel tempo stesso, capace di semplificare tutto. Ecco, per dir meglio, Wilcock ha finto di essere un enciclopedista incaricato da un editore di scrivere un certo numero di «voci» per una enciclopedia divulgativa. Queste voci riguardano scienziati, inventori, utopisti, saggisti, filosofi. E Wilcock compila queste sue «voci» con tanto scrupolo, diligenza, abito professionale che, dico la verità, ad apertura di libro, ho creduto che si trattasse di nomi veri, di fatti realmente accaduti. La pagina dove si era posato il mio occhio, era la seguente: «Secondo Charles Carroll di Saint Louis, autore de Il negro è una bestia (The Negro a Beast, 1900) e Chi tentò Eva? (The Tempter of Eve, 1902), il negro fu creato da Dio insieme agli animali al solo scopo che Adamo e i suoi discendenti non mancassero di camerieri, lavapiatti, lustrascarpe, addetti alle latrine e fornitori di servizi simili nel Giardino dell'Eden. Come gli altri mammiferi, il negro manifesta una specie di mente, qualcosa tra il cane e la scimmia, ma è completamente privo di anima. Il serpente che tentò Eva era in realtà la cameriera africana della prima coppia umana. Caino, costretto dal padre e dalle circostanze a sposare sua sorella, rifuggì dall'incesto e preferì sposare una di queste scimmie o serve di pelle scura. Da questo ibrido matrimonio sono scaturite le varie razze della terra...»

Non è forse attendibile come teoria razzista del primo Novecento? Wilcock descrive poi teorici e utopisti ancora più spaventosi, forniti di nomi mitteleuropei, anglosassoni, latino-americani, assolutamente assurdi, quasi da avanspettacolo, e inventori di congegni, macchinari, sistemi filosofici ancora più assurdi: eppure nessuna di quelle figure e nessuna di quelle invenzioni è più ridicola e stronza di come sarebbe stata se fosse stata reale. A libro chiuso, abbiamo letto una vera antologia di biografie di uomini di pensiero.

Cos'è che dà a questo libro un così forte sentimento di realtà? Θ, soprattutto, il surrealismo: è infatti sul surrealismo che Wilcock investe la vena comica con cui rende accettabile la patetica malvagità che gli fa identificare tutto il mondo con l'inferno. Egli approfitta insomma delle teorie dei suoi eroi per farne dei pezzi di magistrale letteratura onirica: cosicché tali teorie non sono più delle cose semplicemente pazzesche, da genialoidi destinati al manicomio, ma, diventando «visioni», attraverso lo stile del loro descrittore, recuperano una realtà poetica che si proietta su loro, restituendole all'universalità che avevano perduto nella miseria della pazzia. Diventano – se vogliamo – delle metafore perfette di analoghe scoperte, invenzioni, ideologie reali. Naturalmente – come un quadro surrealista è dipinto con la pennellatina pre-impressionistica, che, con cura accademica, ambisce alla fedele riproduzione del modello – così anche la scrittura di Wilcock è una scrittura perfettamente normale, piana, convincente. E non solo per scherzo (ché in tal caso non ci occuperemmo del libro), ma con il rigore di una scelta stilistica intrasgredibile. «... uno stile piano e impersonale è concesso a pochi, e non certo a uno scrittore di successo», scrive Wilcock nell'unica riflessione diretta sul proprio scrivere nella Sinagoga.

Su questo piano di riflessione metalinguistica, ciò che colpisce di più il lettore leggendo il libro di Wilcock, fatto tutto di una serie ci brevi pezzi, intitolati ognuno (come appunto in un'enciclopedia) col nome proprio del pensatore, è la curiosità con cui lo si divora, quasi si trattasse di un libro giallo. La «suspense» che mantiene così morbosamente attenti, è appunto di genere metalinguistico, e consiste nella domanda: «Che cosa inventerà nella prossima "voce" l'autore?» E l'autore, nel nostro caso non tradisce mai, neanche nelle attese più ingenue (ognuna di queste sue biografie potrebbe essere un magnifico film comico).

Θ una coincidenza certo casuale: ma insieme a quello di Wilcock sono usciti almeno altri tre libri che si divorano per l'interesse causato dalla stessa domanda: «Cosa inventerà l'autore nel prossimo pezzo?»

Si tratta prima di tutto della... Storia Augusta, le biografie – scritte nel secolo IV d.C. – degli imperatori romani che si sono successi dal 117 al 284-85. Sono brevi romanzi, in cui la storia è completamente sognata. L'accumulazione dei fatti e dei dettagli – dovuta al taglio breve del racconto – accresce questo sentimento di sogno. Ho letto prima di tutto, in omaggio a Arbasino, la vita di Eliogabalo: possibile che al tempo di Costantino il «Basso Impero» apparisse già in tutto il suo gusto decadente, come appare a noi? Quei secoli che se ne vanno via a manciate, trascinando interi popoli e intere vite in men che non si dica amen... Quelle epoche storiche che hanno minor consistenza di un banchetto... Quegli assestamenti di popoli in cui una vita umana sembra sottratta alla legge del tempo, oppure regolata dalla legge del tempo che vale per le farfalle che vivono un solo giorno... Sono propenso ad abbracciare la teoria del Dessau (sembra un personaggio di Wilcock) che in Ueber die Zeit und Persφnlichkeit der S.H.A. dimostra che la Storia Augusta è stata scritta da un'unica persona, così che i sei autori tradizionali (Elio Lampridio, Elio Sparziano ecc.) sarebbero stati inventati di sana pianta da quell'autore unico, rimasto anonimo (forse per estrema raffinatezza).

Il secondo libro è un classico, cioè Vite immaginarie di Marcel Schwob. Anche qui la domanda che tiene desta l'attenzione di «Vita» in «Vita» è la stessa. Ma una certa ordinata distribuzione cronologica, dall'antichità classica all'Ottocento rovina un po' il piacere di trovarsi di fronte a possibilità imprevedibili. Meglio leggere questo libro non di seguito. Oppure andare diretti ai racconti più belli, gli ultimi, dalle storie dell'adorabile puttana Katherine la Merlettaia e dell'adorabile assassino Alain le Gentil in poi.

Anche qui la caratteristica è l'accumulazione dei casi – delle volte apparentemente minimi – dovuta alla concentrazione del racconto (una vita in due-tre pagine): il montaggio distrugge le regole del tempo, sostituendole con regole morali: una vita è tale non in quanto è una continuità ma in quanto è una serie di avvenimenti significativi, anche quando a evidenziarli sia una luce di sogno. Il tempo, annullato, si vendica però covando la sua assenza come una terribile nostalgia, un insostenibile senso di possibilità irrealizzate.

Il terzo libro è Le città invisibili di Italo Calvino. Ma di esso parlerò nel prossimo numero.

14 gennaio 1973

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Pagina 58

Italo Calvino, Le città invisibili



Sono cresciuto insieme con Italo Calvino, l'ho visto giovanissimo, quasi un ragazzo (credo che abbia uno o due anni meno di me, ma quando sono entrato nel mondo uscendo dal monastero friulano nel 1950, lui era un po' più adulto, e più dentro le cose della società e della letteratura, che ancora per un pezzo mi sarebbero state precluse, quasi che io non le meritassi, per qualche indegnità – o per troppa ingenuità). Abbiamo lavorato insieme, lui a Torino, io a Roma, fin verso ai quaranta anni, cioè fino a che abbiamo raggiunto il centro della vita (quarant'anni è l'età in cui l'uomo è più «illuso», crede di più nei cosiddetti valori del mondo, prende più sul serio il fatto di dovervi partecipare, di dover impossessarsene. Il ventenne, nei confronti del quarantenne, è un mostro di realismo). Il nostro lavoro, in qualche modo si integrava, benché fosse così diverso: e ci legava soprattutto l'ottimismo — come un buon sentimento — consistente nella convinzione che il nostro lavoro fosse al «centro» di qualcosa, e che qualcosa ne dovesse risultare. In modo molto ombroso, ci ammiravamo e ci amavamo, senza molti complimenti, troppo presi dall'importanza di ciò che facevamo per consentirci pause disinteressate.

Poi Calvino ha cessato di sentirsi vicino a me. L'ho capito subito. All'inizio degli anni Sessanta, qualcosa si spaccava, e io e lui eravamo sulle parti opposte della spaccatura. Il suo viso militare, fiero e furbetto, sotto le grosse sopracciglia nere, che benché così settentrionale, lo rendono molto mediterraneo, la bocca carnosa che si agita sempre come sul punto di dire qualcosa che passa ilarmente da lontano nel suo cervello attento – questa sua immagine ha cominciato un po' a ingiallire e a scolorirsi: a sorridere «de lonh», come quella di una cara persona la cui perdita viene conosciuta dopo qualche anno, quando è ormai tardi per soffrirne. Naturalmente ho da ridire sul modo con cui Calvino ha scelto l'«attualità»: la sua apertura verso la neo-avanguardia e la sua adesione aprioristica al Movimento Studentesco (per tenermi molto sulle generali). Non so cosa è passato realmente dentro la sua testa in questi ultimi anni, perché Calvino, forse diplomaticamente, ha taciuto o ha un po' mentito. Cosa che del resto, nel mondo, bisogna saper anche fare. Non è detto che si debba sempre dire la verità. Qualche volta è forse meglio tacere che dire la verità. Θ più sano, forse, qualche volta, tenersela dentro, la verità. Fatto sta che Calvino ha mantenuto intatto il suo credito, mentre io screditato due volte, da due mode da cui Calvino invece non si è dissociato — stabilendo con esse una specie di sia pur distratta alleanza — col ristabilirsi della verità, che io, inopportunamente, ho gridato a tutti i venti come una gallina spennacchiata — continuo a godermi non solo il discredito (che si rivela dunque piuttosto immeritato), ma anche la antipatia di chi non mi sa perdonare di aver detto a suo tempo ciò che era giusto dire. Di Calvino, dicevo, per qualche anno non ho saputo realmente niente, quasi che anche fisicamente egli avesse avuto una specie di sospensione. Le Cosmicomiche – lo confesso – mi erano giunte come una cosa irreale e interlocutoria. Adesso egli mi riappare, non solo vero, ma più vero che mai, col suo ultimo libro, che non solo è il suo più bello, ma bello in assoluto.

La prima osservazione che mi viene da fare è che questo suo libro, Le città invisibili, è il libro di un ragazzo. Solo un ragazzo può avere da una parte un umore così radioso, così cristallino, così disposto a far cose belle, resistenti, rallegranti; e solo un ragazzo, d'altra parte, può avere tanta pazienza – da artigiano che vuol a tutti i costi finire e rifinire il suo lavoro. Non i vecchi, i ragazzi, sono pazienti.

D'altra parte nella città di Isidora, «c'è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro». E indubbiamente, cioè secondo logica, Le città invisibili sono l'opera di un vecchio, o almeno di un uomo anziano, che ha visto passare la vita. Questa esperienza – che è la più importante che un uomo possa fare – fa sì che egli non riesca a vedere più il futuro come il futuro della propria vita, e nemmeno, ormai, come il futuro dei figli o dei nipoti (che è l'orizzonte umano entro cui, per esempio, opera la Ragione, e l'etica, soprattutto normativa, trova i suoi fondamenti): no, l'esperienza dell'aver visto passare la vita equivale all'esperienza dell'aver visto passare tutta la possibile vita, la vita del cosmo. Il futuro si allarga quindi smisuratamente, e tutte le proporzioni del reale, con la sua razionalità e la sua morale, saltano. Resta soltanto il dato di tale esperienza – che dunque senza razionalità e senza morale, deve giustificarsi da sola, non potendo confrontarsi con niente altro che con le illusioni, e, d'altra parte, non avendo altro possibile sbocco che quello di esprimersi.

Il libro di Calvino è così il libro di un vecchio, per cui «i desideri sono ricordi». Non solo, però, i desideri sono ricordi: lo sono anche le nozioni, le informazioni, le notizie, le esperienze, le ideologie, le logiche: tutto è ricordo. Ogni strumento intellettuale per vivere, è un ricordo.

Di conseguenza anche la assoluta novità del conoscere la vita «come passata», non ha altri strumenti per esprimersi che questi vecchi ricordi. Θ vero dunque che ogni illusione culturale in Calvino è decaduta, ma la sua cultura è però rimasta: almeno come fornitrice di quei ricordi culturali, attraverso cui Calvino può esprimere il nuovo mondo, come esso si presenta ai suoi occhi abbacinati di vecchio-ragazzo, seduto sul muretto.

In questa cultura, che possiamo chiamare «sopravvissuta», di Calvino c'è tutto: anche naturalmente il marxismo con le sue esigenze praticistiche di intervento, la sua retorica ecc., perché è questo soprattutto che il libro, pur inglobando, nega (ma non abiura). L'idea di una Città Migliore, raggiunta attraverso la vittoria, mettiamo, della lotta di classe, viene semplicemente immersa in una diversa idea del tempo: non dico della storia, ma proprio del tempo. Infatti molte delle città sognate da Calvino in un certo momento raggiungono la perfezione. Che poi la riperdano è un discorso che riguarda generazioni incredibilmente future. Questo lo dico per cercare di tranquillizzare le coscienze dei miei colleghi critici marxisti osservanti.

Dunque, malgrado la caduta di ogni illusione culturale, la cultura di Calvino, ripeto, è rimasta intatta, sia pure come Illusione: e, in quanto tale, ha raggiunto la perfezione formale di un oggetto, di un meraviglioso fossile. La cultura specifica di Calvino, poi, che è quella letteraria, liberatasi dalla sua funzione, dai suoi doveri, è divenuta come una miniera abbandonata, in cui Calvino va a prelevare i tesori che vuole.

Che cosa vi preleva? Prima di tutto una scrittura metallica, quasi cristallina, ma leggera, incredibilmente leggera: la scrittura del gioco. A questa leggerezza Calvino non trasgredisce mai: non c'è mai un solo istante in cui egli scrivendo non cavalchi a briglie sciolte, come se andasse senza avere meta: eppure, in questo andare per andare, l'eleganza, la cura disinteressata dell'eleganza, non è tradita mai un momento.

La seconda cosa che Calvino preleva nella sua cava in disuso, sono le tecniche dell'ambiguità. In ogni pagina delle Città invisibili ogni canone è sospeso: anzi, è motteggiato. Il senso è come un'eco in una valle piena di grotte che suona ora qua ora là, pur essendo sempre lo stesso.

Ma l'ambiguità, nel suo aspetto più tipico e classico di sfumatura infinita, si trova specialmente nelle pagine connettive del libro, quelle in corsivo, che affabulano dei referti di uno pseudo Marco o di uno pseudo Polo all'imperatore. Ambedue gli interlocutori sono eternamente cangianti, e si presentano, ogni volta, come i simboli di tutti i libri possibili che questo libro potrebbe essere; o come i simboli dei punti di vista attraverso cui questo libro, sia ideologicamente che linguisticamente, potrebbe essere angolato. Non si può quindi affatto parlare di «relativismo» a proposito di Calvino, perché il suo relativismo è completamente visionario, confrontato con infinite possibilità diverse.

La terza cosa che Calvino ricava dalla sua miniera letteraria è il surrealismo: un surrealismo che è la delizia delle delizie, perché la galleria dei quadri surrealistici che ne risultano, non si spiegano affatto attraverso se stessi, cioè attraverso il surrealismo, ma sono funzionali a quella folle ideologia multipla, che contesta ogni possibile logica della ragione, e soprattutto quella dialettica.

Il fondo di tale ideologia, infinitamente possibilistica o multipla, è però sempre lo stesso, ossessivamente lo stesso: ed è costituito dallo scontro inconciliabile di due opposti: la realtà e il mondo delle idee. Sì, nella letteratura archeologica di Calvino, è saltato fuori il platonismo, sotto il cui segno quella letteratura è nata. Tutte le città che Calvino sogna, in infinite forme, nascono invariabilmente dallo scontro tra una città ideale e una città reale: questo scontro ha il solo effetto di rendere surrealistica la città reale, ma non si risolve storicamente in nulla. I due opposti non si superano in un rapporto dialettico! La lotta tra essi è ostinata e disperata quanto inutile: il tempo fa da paciere trascinando tutto con sé in una dimensione completamente illogica, che risolve i problemi diluendoli all'infinito, distruggendoli fino a farne dei rottami a loro volta surreali.

Per me, che sto lavorando a Le mille e una notte, leggere questo libro è stato quasi inebriante: e non è un caso o un fatto personale. Proprio Le mille e una notte sono il modello figurativo che il surrealismo di Calvino parsimoniosamente saccheggia: e come ogni racconto de Le mille e una notte è il racconto di una anomalia del destino, così ogni descrizione di Calvino è la descrizione di una anomalia del rapporto tra mondo delle Idee e Realtà (che è poi il Destino nella civiltà occidentale). L'invenzione poetica consiste nell'individuazione di tale momento anomalo.

Nelle descrizioni delle città di Maurilia, di Zobeide, di Ipazia, di Eutropia, di Ottavia, di Ersilia, di Bauci, di Pirra, di Moriana, di Bersabea, di Raissa, di Marozia, tale individuazione dell'anomalia è talmente perfetta che pare essere avvenuta da sé: abbiamo davanti a noi dei fenomeni di una realtà «surreale» di cui Calvino pare essere veramente il semplice descrittore. Come può essere accaduto questo, quando è ben chiaro che, secondo la logica, e anche la pratica (per chi ce n'abbia un poco) tale operazione appare, a tavolino, estremamente difficile, se non impossibile? Come si fa a ripetere il miracolo del narratore de Le mille e una notte, la sua esaltante attendibilità nel raccontare le anomalie del codice del destino? In fondo – invece – la cosa si spiega abbastanza semplicemente: anzi, è la prima cosa che avrei dovuto dire parlando di questo libro: Calvino non inventa nulla, tanto per inventare: semplicemente si concentra su un'impressione reale – uno dei tanti choc intollerabili, che meriggi o crepuscoli, mezze stagioni o canicole, ci causano negli angoli più impensati o più famigliari delle città note o ignote in cui viviamo – e, pur sentendolo in tutta la sua qualità struggente di sogno, lo analizza: i pezzi separati, smontati, di tale analisi, vengono riproiettati nel vuoto e nel silenzio cosmico in cui la fantasia ricostruisce, appunto, i sogni. Θ sempre dunque una «base» di sensibilità reale che fornisce materia per i «vertici» poetici e ideologici di Calvino.

28 gennaio 1973

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Pagina 590

Roberto Denti, Incendio a Cervara



A una prima, curiosa occhiata si ha l'impressione di capire tutto dell' Incendio a Cervara di Roberto Denti. Θ un libro che mostra subito com'è fatto: un falso libro-inchiesta, in cui parla un coro di personaggi (i paesani di Cervara), dando fondo al proprio buon senso rivoluzionario, disperante, e alla propria rassegnazione, non meno disperante, a proposito di un tema allegorico (l'incendio appiccato da loro stessi al paese). Avendo così individuato subito il soggetto e la forma del libro, il lettore pretende quindi di poterlo leggere in una chiave che egli stesso si è trovato. Resta, di conseguenza, inceppato e deluso. La lettura, facilissima (tanto che si può capire tutto il contenuto di una pagina, e perfettamente, leggendo solo qualche riga qua e là), diventa in pratica difficilissima, perché la chiave che il lettore adopera per leggere, in realtà non serve, o serve poco e solo formalmente.

Dunque, capire che si tratta di una allegoria, e di una allegoria politica, e capire, insieme, che c'è un doppio livello di lettura, e che il primo di questi livelli è metastorico (in quanto rappresentazione del succedersi delle generazioni che, mettendo i figli al posto dei padri, ripropone loro i vecchi problemi come se fossero i primi della storia), tutto ciò serve ben poco per questo curioso libro, tanto più marginale, stravagante e enigmatico quanto più disperatamente normale, calzante e chiaro.

Probabilmente la «semplificazione» linguistica che ha tanta parte nella pagina di Denti, benché trovi il proprio pretesto nella perfetta mimesi del linguaggio delle inchieste (cioè i discorsi degli intervistati, registrati e riassunti per lettori presumibilmente al loro livello), si spiega in realtà meglio, credo, attraverso un'esperienza fondamentale del Denti (desunta peraltro dalla scarna notizia del risguardo): cioè la gestione di una Libreria per ragazzi. A quanto pare, Denti è uno di quegli intellettuali che, provenendo dalla Resistenza, non si sono poi più allineati, e hanno fatto una vita destinata all'emarginazione e all'insuccesso. Ma ciò spiega forse ancora meglio l'assoluta semplicità «referenziale» della pagina di Incendio a Cervara. Infatti il Denti in tutta la vita, ormai abbastanza lunga, qui schematizzata, è sempre stato scrittore, ma non ha mai scritto. E finalmente ha fatto il suo «romanzo». Questa informazione, totalmente pratica, talmente pratica da rasentare il pettegolezzo letterario, in realtà ci spiega perché la scrittura di Denti sia così «semplice». Lo è perché Denti è colpito, come scrittore, da una forma di afasia, che lo inibisce e lo blocca: e di conseguenza egli può scrivere, e poco, solo attraverso una finzione (la «falsa inchiesta» in cui Denti parla attraverso le interposte persone degli intervistati, ma senza mimarli) e solo attraverso un'ambizione di assolutezza in quanto totale funzionalità.

Incendio a Cervara è un libro anormalmente privo di ridondanze, il che significa di espressività. Denti non ricorre alla mimesi, ripeto, per quanto riguarda i discorsi dei singoli personaggi; la sua mimesi viene esercitata soltanto sul genere, quello del libro-inchiesta. Ora il libro-inchiesta non può essere che puramente comunicativo, o, ripeto, referenziale: non vi può essere espressività se non a patto di veder scalfita irrimediabilmente la sua attendibilità e la sua scientificità. Ci troviamo dunque davanti agli occhi le pagine stilisticamente grigie e inerti di un'inchiesta, fatta magari per un rotocalco di sinistra. Ma di quale sinistra?

Ho detto che i livelli di lettura dell'allegoria sono almeno due: uno «metastorico», che inganna il lettore, fornendogli gli strumenti inutili per una interpretazione di ambito vagamente kafkiano. Il secondo è invece perfettamente storico, anzi, attualistico: Incendio a Cervara è l'allegoria dei nostri ultimi trent'anni, da subito dopo la Resistenza a oggi. Ci sono tutti i temi fondamentali: la lotta per la sopravvivenza (sboccata nell'incendio appiccato dalla collettività all'intero paese per avere l'acqua), nei tempi residui del paleocapitalismo, e poi la lotta per la vita, una vera dignitosa vita, nei tempi nuovi del neocapitalismo. C'è la partecipazione dei comunisti a tutto questo, caratterizzata, oltre che dalla tradizionale funzione di guida, dalla loro accettazione «naturale» dello sviluppo (e quindi del rapporto «diplomatico» coi padroni). C'è la delusione dello «sviluppo» che si presenta come il massimo del benessere possibile ma anche come il massimo dell'alienazione possibile. E tutto questo sfaccettato, sia pure schematicamente, in tutte le sue principali tematiche concrete (vissute personalmente dai personaggi del paese intervistati): l'ottica diversa delle generazioni, l'immigrazione meridionale, la riorganizzazione urbanistica, ecc. ecc. Ma in tutto questo universo così perfettamente riconoscibile come nostro – benché così didascalicamente sintetizzato – ci sono due punti anomali, che gettano l'allarme.

Il primo di questi punti è proprio l'incendio. L'incendio non è l'allegoria di niente di quanto è davvero accaduto. Θ una pura invenzione dell'autore. Non è la Resistenza, perché di essa se ne parla come tale, e poi l'incendio avviene qualche anno dopo; non è il Sessantotto, perché il Sessantotto, benché serva a interpretare l'avvenimento secondo una certa luce retrospettiva, è molto posteriore. Si potrebbe dire, forse, che l'incendio è il Sessantotto retrodatato di circa un decennio e nato in un ambito arcaico contadino e non studentesco. Ma insomma il fatto è questo: che tutto ciò attribuisce al libro quel mistero che la sua scrittura rifiuta.

Il secondo punto anomalo del libro è l'angolo visuale dell'autore. Ferma restando la sua posizione anticapitalistica e la sua totale adesione al mondo popolare e alla sua umile lotta (insieme spontaneistica e guidata dal Pci), esso presenta un carattere di ambiguità i cui poli sono ravvicinatissimi: il giudizio di Denti potrebbe essere quello di «gauchista» essenzialmente anarchico ma portato dalla «cultura», che è sempre razionale, su posizioni vicine a quelle del «Manifesto», oppure potrebbe essere quello di un comunista restato fedele, dalla Resistenza, al Pci ma che non abbia alcuna incertezza a esercitare sulla sua politica la critica più lucida, dura e anche magari definitiva, pur capendo, quasi attraverso una nuova forma di «pietas», l'ineluttabilità di certe accettazioni e di certa «realpolitik» del Partito.

Malgrado questa riserva di mistero – che contrasta con l'assoluta, elementare chiarezza della rappresentazione – questo libro di Roberto Denti è forse il primo prodotto letterario compiuto e maturo del «gauchismo». Segno, forse, che il «gauchismo» è finito, consumato dal suo pragmatismo e dal suo verbalismo: e può ormai diventare materia, ricordo, rivitalizzazione avvenuta, oggettivo angolo visuale.

17 gennaio 1975

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