Copertina
Autore Fausto Pasotti
Titolo Panopticon
EdizioneLupetti, Milano, 2003, Letteratura , pag. 96, dim. 137x205x8 mm , Isbn 978-88-8391-076-0
LettoreGiovanna Bacci, 2003
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

Minuto primo
Per ogni cosa c'è il suo momento,
il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.



Ho sempre pensato di essere destinato a realizzare qualcosa d'importante per la quale la gente, e per gente intendo soprattutto quelli che non ho conosciuto e che mai conoscerò, mi avrebbe ricordato. Non che della gente e delle loro opinioni m'importi granché, ma la cosa mi ha sempre affascinato.

Un libro, una canzone, un edificio, una cosa qualsiasi... tanto per creare l'inganno dell'immortalità. Questa idea del ricordo postumo è stata per anni una vera ossessione, svanita, grazie a Dio, con l'avanzare dell'età e le disillusioni della vita.

Adesso che sono riverso sull'asfalto, intriso del mio stesso sangue, a guardare immoto e impotente quello che resta del mio corpo, tutto appare insensato.

Quando si sta per morire, e io so che sto per andarmene, le cose appaiono chiare, ognuna col suo giusto peso.

Non ho paura e, vivaddio, non sento nemmeno dolore. La morte, la mia almeno, spero sia lieve come un'aria di Mozart.

Sento ancora il frastuono degli spari, ma di quanto è successo non mi è rimasta alcuna immagine sulla retina. Mi sono sentito spingere all'indietro, le colonne dei porticati in fuga verso la Cattedrale, i volti risucchiati dal mio passare, il vuoto che avvolge ma non sostiene. È stato come volare. Poi il freddo e il ruvido del selciato e infine l'azzurro del cielo.

C'è anche una piccola nuvola bianca.

Erano anni che non ne vedevo una.

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Pagina 16

Un'ombra ci sovrasta e non è la morte, almeno non ancora.

Un uomo mi guarda dall'alto della sua posizione eretta. È in controluce e fatico a distinguerne i lineamenti. Indossa un impermeabile dozzinale, di quelli che si trovano nei grandi magazzini per pochi soldi e che portati anche una sola volta rimangono stazzonati per sempre. Anche le scarpe, che sono la cosa di lui che vedo meglio, sono una consunta imitazione delle britanniche Clarks. Ha un enorme, almeno per lui, cappello a tesa larga calcato sulle orecchie, la cui ombra contribuisce a nascondergli il volto. Un altro samaritano? Si piega fino quasi a genuflettersi e mi guarda dritto negli occhi. Finalmente lo vedo. Ha le guance scavate in due profonde rughe nelle quali la barba si annida e prospera intonsa a qualsiasi tentativo di rasatura. La fronte, anch'essa solcata da penetranti infossature della pelle, è alta e spaziosa e lascia intravedere, nonostante il cappello, un'incipiente calvizie. Naso e bocca sembrano un tutt'uno tanto sono schiacciati l'uno contro l'altro dalla prominenza di un mento degno di una statua dell'isola di Pasqua. Porta una camicia dal colletto troppo piccolo e flaccido dal quale prorompe il nodo malfatto della cravatta. Nel complesso è un essere ributtante. Anche le mani sono rozze, le unghie sporche e rosicchiate che terminano dita tozze e pelose. Mi squadra con lo sguardo asettico di un medico ma non lo è, perché non fa niente di quel che farebbe un dottore per soccorrere un ferito. E non è nemmeno un buon samaritano, non gliene frega niente di me e del mio dolore, sembra solo interessato al puro atto cognitivo del guardare. Gli occhi di Jasmine, dapprima dilatati come se fosse al cospetto del maligno poi rappresi in due fessure d'odio, continuano a passare dai miei ai suoi, smarriti da quell'intrusione ancora illeggibile. Ma non ho tempo di preoccuparmi per lei, prima devo rassicurare me stesso. È come essere sottoposti alla scansione di una tac: il suo sguardo sta frugando ogni parte del mio corpo. È privo di sentimenti, proprio come un medico in un pronto soccorso dopo una notte di morti ammazzati, fratture ricomposte e lavande gastriche. I muscoli facciali sono bloccati in una morsa marmorea, solo i globi oculari si muovono frenetici per realizzare scansioni tridimensionali sulle mie carni.

Poi lo vedo: un guizzo rapido ma inequivocabile, mentre guarda lo strazio provocato dal proiettile. È soddisfatto, ha fatto un buon lavoro. Ho solo pochi minuti di vita. Lo scopo è raggiunto. La sua mano destra, per un qualche impulsivo istinto, scorre lungo il fianco e s'infila nella tasca dell'impermeabile e la stoffa sottile e malforme lascia trasparire la sagoma di una pistola. Si accorge della stupidità del gesto e alza di scatto lo sguardo a cercare le reazioni della folla. Soprattutto gli interessa Jasmine, ma lei non lo sta nemmeno guardando, ha il capo voltato dalla parte opposta. È stata distratta dal latrato lontano di una sirena, un falso allarme perché in meno di un secondo è già sparito. L'uomo aspetta che l'attenzione della donna torni al nostro improbabile trio, le fruga le intenzioni attraverso il suo sguardo vitreo. Jasmine, anche se è visibilmente turbata e risentita dalla vicinanza dell'uomo, sembra non essersi accorta di niente. Né dello sguardo soddisfatto, né dell'arma che mi ha colpito a morte.

Soltanto io so che lui, il morto vivente che mi sta accanto, è il mio assassino. Solo io so che ha ancora in tasca uno strumento di morte.

Il chi è risolto.

Perche?

Ma questa domanda, temo, resterà senza risposta.

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