Copertina
Autore Luca Paulesu
Titolo nino mi chiamo
SottotitoloFantabiografia del piccolo Antonio Gramsci
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2012, Varia , pag. 288, ill., cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-07-49126-9
LettoreDavide Allodi, 2013
Classe biografie , fumetti
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Indice


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  9    Prefazione


 19    Prologo

 67    Il Novecento

 97    La classe

121    Il cortile

163    Croce

187    Teresina

221    Tia Alene

229    Le russe


267    Epilogo

277    Appendice

285    Ringraziamenti
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Pagina 9

Prefazione



Nel 1911, a vent'anni, Antonio Gramsci intraprese un viaggio che dalla natìa Sardegna lo portò a Torino, per concorrere a una borsa di studio del Collegio Carlo Alberto. In quell'anno si festeggiava il cinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia. La ex capitale del Regno di Sardegna, e — dal 1861 al 1865 — del Regno d'Italia, era in festa. Le pensioni a buon mercato erano occupate, i prezzi erano alle stelle.

Antonio spese presto i denari ricevuti da casa e si trovò in difficoltà.

Ma a Torino rimase a lungo.


Teresina Gramsci Paulesu, mia nonna, la sorella di Antonio, ricordava che due avvenimenti erano stati interpretati come un triste presagio da Francesco e Giuseppina, i suoi genitori: uno fu la prima richiesta di aiuto economico da parte di Antonio subito dopo l'arrivo a Torino. Essi, ancor prima della sua partenza per il continente, temevano che il figlio dilapidasse nella prima libreria della città la somma ricevuta da casa. Antonio faceva così anche quando si trovava a Cagliari, per studiare al liceo Dettori. Quella richiesta di aiuto confermava il loro sospetto, ma appariva anche come un rimprovero della loro incapacità a soddisfare le esigenze di sopravvivenza, biologica e intellettuale, di quel figlio così debole di salute ma così intelligente.

Antonio, o meglio Nino, come era chiamato in famiglia, avrebbe dovuto imparare presto a cavarsela da solo.

Il secondo presagio si presentò a casa Gramsci undici anni dopo, nel 1922, trasportato da due carabinieri. Si trattava di una piccola cassaforte di metallo scuro, con la serratura forzata. Era la cassetta di sicurezza del giornale "L'Ordine Nuovo" di Torino, la cui redazione era stata sgomberata dalle forze dell'ordine dopo anni di scontri sindacali e di lotte. Apparteneva al direttore del giornale, quindi ad Antonio.

La fama di Antonio, giornalista della stampa socialista e comunista torinese e attivista politico, raggiungeva in questo modo il paese di Ghilarza, dove i Gramsci vivevano. Il padre Francesco firmò, a nome di Antonio, la ricevuta di consegna. Francesco era di origine campana e interpretò a modo suo l'arrivo a casa di una cassa vuota.

I coniugi Gramsci furono presi da una certa paura, e capirono di non poter fare più nulla per aiutare quel figlio così intelligente ma anche così spregiudicato.


I presagi spesso si avverano.

Del fatto che Nino spendesse troppo in libreria, Francesco e Giuseppina si resero conto quando tornò a Ghilarza, per la prima pausa universitaria, portando con sé una voluminosa cassa di libri.

La spregiudicatezza politica di Antonio fu invece punita severamente dalla corte del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato (fascista), con una condanna a vent'anni di reclusione.

Nino morirà nel 1937, dopo undici anni di prigionia.

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Pagina 16

"...l'altro mi guardò a lungo poi domandò: 'Gramsci Antonio?'. Sì, Antonio!, risposi. 'Non può essere,' replicò, 'perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo così piccolo.' Non disse più nulla, si ritirò in un angolo, si sedette su uno strumento innominabile e stette, come Mario sulle rovine di Cartagine, a meditare sulle proprie illusioni perdute."

È il racconto dell'incontro avvenuto nel 1927 nel carcere di Palermo tra Antonio e un operaio, anch'esso condannato politico destinato al confino, durante il viaggio di traduzione a Ustica. È un piccolo frammento tratto da una delle tantissime lettere di Nino a Tania.

Quando, adolescente, lessi per la prima volta integralmente le Lettere dal carcere, questo episodio mi piacque moltissimo. Anch'io allora incontravo Antonio.

Da "piccolo" di statura, e gracile, come lo immaginavo, come me lo avevano presentato nei racconti, e come risultava ancora dalla narrazione di questo episodio, a me, in questa prima occasione di conoscenza letteraria, all'inverso, Nino sembrò grande come un gigante.

Negli scritti Antonio si mostrò senza mediazione. E a poco a poco sostituì il nostro rapporto di parentela, che seppure lontano era comunque collegato a tanti ricordi della mia vita, con un rapporto prima di natura esemplare, per la sua storia umana e politica, come essa emergeva dalla sua biografia, poi con quello di natura intellettuale, quindi più diretto e intimo, di un autore col suo nuovo lettore.

Le opere di Nino erano lì a portata di mano e io le ho lette, quando è venuto il momento.


Anni fa, per puro caso, mi sono occupato di Antonio, e del rapporto col fratello maggiore Gennaro, testimoniato da un piccolo carteggio giovanile. Affrontare la biografia di Antonio è un compito difficile, "terribile e complicato": vita e politica, amore e pensiero risultano inscindibili. Ogni elemento, anche marginale, della sua storia diventa un richiamo ad altro fatto, più importante o più intimo.

Successivamente, durante una manifestazione commemorativa, ho eseguito per gioco alcune illustrazioni per la Casa Museo Antonio Gramsci.


Prendo un libro da uno scaffale, questo appartiene alla mia biblioteca. È una raccolta quasi completa delle Lettere dal carcere. Trovo subito il riferimento che cerco in una lettera di Antonio al figlio Giuliano: "Io da ragazzo disegnavo molto, ma i disegni erano soprattutto lavori di pazienza [...]. I fratelli e le sorelle guardavano, ridevano, ma preferivano correre e gridare e mi lasciavano alle mie esercitazioni". In questo ricordo della sua infanzia, che è identico a tanti miei ricordi, trovo l'elemento che mi avvicina nuovamente a Nino. Una passione che ci accomuna. Conosco la camera della casa di Ghilarza dove Antonio disegnava, riproduco con l'immaginazione la disposizione esatta del tavolo in quello spazio. A quel tavolo mi sono seduto anch'io.


Allora mi è venuta l'idea di disegnare un piccolo Antonio che facesse da guida nella visita al museo agli studenti delle scuole di Ghilarza. Poteva essere il primo capitolo di una biografia disegnata. Nino poi cresceva, si diplomava, partiva per Torino ecc.

Il quadro descrittivo era pronto: la casa col suo ingresso in penombra, la stanza da letto e il cortile erano ambienti che conoscevo bene avendovi trascorso molto tempo. Il corso, la fontana, il cortile della scuola elementare di Ghilarza, sono i miei posti. Sono in grado di disegnarli a memoria. Io a Ghilarza ci ho trascorso l'infanzia. I documenti erano da Diddi, ed erano beni pronti al mio saccheggio. Per quanto mancava, mi sentivo capace di una discreta inventiva. Tutto stava giù, stivato nella memoria, ordinato dai racconti precisi di Teresina, dai fatti più noti agli inediti. Bastava sedersi al tavolo e recuperarli.

Nino l'ho disegnato per primo ed è venuto identico a come lo avevo immaginato. Ma quando gli ho dato la parola, ragionava da adulto: utilizzava le categorie concettuali della sua maturità, e nell'esposizione seguiva il ritmo frammentario dello stile delle note dei Quaderni. Vita e politica, amore e pensiero risultavano inscindibili. I suoi scritti si imponevano definitivamente alla memoria. Anche gli ambienti della sua fanciullezza diventavano una metafora perfetta di altri, topici, della sua storia di adulto.

E intanto il mio Nino non cresceva, rimaneva bambino. E non voleva lasciare la sua casa.


Teresina, Antonio l'ha conosciuto e visto crescere. Me l'ha certamente raccontato diverso e l'avrebbe sicuramente descritto meglio. Teresina era brava a raccontare. Io, forse, Nino lo ricordo e lo racconto peggio, ma io sono buono a leggere e a disegnare.

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Pagina 25

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Pagina 95

La crisi

Si può dire che della crisi come tale non vi è data d'inizio, ma solo di alcune "manifestazioni" più clamorose che vengono identificate con la crisi, erroneamente e tendenziosamente. L'autunno del 1929 col crack della borsa di New York è per alcuni l'inizio della crisi e si capisce per quelli che nell'americanismo" vogliono trovar l'origine e la causa della crisi. Ma gli eventi dell'autunno 1929 in America sono appunto una delle clamorose manifestazioni dello svolgimento critico, niente altro. Tutto il dopoguerra è crisi, con tentativi di ovviarla, che volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, niente altro. Per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione; appunto la guerra fu la risposta politica ed organizzativa dei responsabili. (Ciò mostrerebbe che è difficile nei fatti separare la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche ecc., sebbene ciò sia possibile scientificamente, cioè con un lavoro di astrazione). (...] Altro punto è quello che si dimenticano i fatti semplici, cioè le contraddizioni fondamentali della società attuale, per fatti apparentemente complessi (ma meglio sarebbe dire "lambiccati"). Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l'internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del "nazionalismo", "del bastare a se stessi" ecc. Uno dei caratteri più appariscenti della "attuale crisi" è niente altro che l'esasperazione dell'elemento nazionalistico (statale nazionalistico) nell'economia L...]. Onde illusioni varie dipendenti dal fatto che non si comprende che il mondo è una unità, si voglia o non si voglia, e che tutti i paesi, rimanendo in certe condizioni di struttura, passeranno per certe "crisi".

A. Gramsci, Quaderni, cit., p. 1755.

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Pagina 101

"Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano." (Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XXV.)

Alla febbrile attività giornalistica Antonio accompagna un'intensa militanza politica. È un giovane audace, e batte e percuote la fortuna.

È anche uno dei protagonisti del "biennio rosso" torinese, con l'occupazione delle fabbriche e la creazione dei primi consigli di fabbrica.

Antonio è presente al Teatro San Marco di Livorno il 21 gennaio del 1921, durante la scissione del Partito socialista, ed è fautore della nascita del "Partito comunista d'Italia, sezione italiana dell'Internazionale", di cui ricoprirà la carica di segretario generale dal 1924.

Dopo la Marcia su Roma delle milizie fasciste nel 1922 e la nomina a presidente del Consiglio dei ministri di Benito Mussolini, per la situazione di semi-legalità in cui il Partito comunista era costretto ad agire, Antonio verrà inviato a Vienna come osservatore della realtà italiana e come responsabile del collegamento tra i partiti comunisti esteri. Eletto deputato alla Camera nella circoscrizione del Veneto durante le elezioni politiche del 6 aprile 1924, potrà tornare in Italia protetto dall'immunità parlamentare.

I1 10 giugno di quell'anno viene rapito e ucciso dai fascisti il deputato socialista Giacomo Matteotti. Per protesta, l'opposizione parlamentare, di cui fa parte anche il Pcd'I, abbandona le aule e dà luogo alla cosiddetta "Secessione dell'Aventino", nella speranza, risultata vana, che il re Vittorio Emanuele III sciolga il parlamento. Antonio, esasperato per l'immobilità dell'Aventino, avanza la proposta di proclamare lo sciopero generale a oltranza; la proposta viene respinta.

Nino continua a perorare l'unità di tutte le forze politiche antifasciste contro il regime fino al giorno del suo arresto, avvenuto l'8 novembre 1926. Le accuse mosse contro di lui saranno: attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe.

Durante il cosiddetto "processone" contro Gramsci e gli altri esponenti del Pcd'I, il pubblico ministero così concludeva la sua requisitoria: "Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare".

Il 4 giugno 1928 il Tribunale Speciale condanna Antonio a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione.


L'interesse per gli scritti di Machiavelli accompagna Antonio per tutto l'arco della sua biografia, fino a rappresentare un campo di interesse specifico delle sue riflessioni durante il periodo carcerario, quando il fallimento del processo rivoluzionario nell'Europa occidentale dimostra in modo drammatico che tra crisi economica e soluzioni politiche rivoluzionarie non c'è alcuna coincidenza o connessione necessaria.

La "virtù" machiavellica, ovvero la saggezza di chi è capace di interpretare il proprio tempo per adattare alle circostanze la sua azione, la "virtù" che si oppone alla fortuna, al caso, per arginarne gli effetti negativi e comandarli, viene attualizzata da Antonio in quella del "'grande politico' che 'deve essere coltissimo', cioè deve 'conoscere' il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non [solo] 'librescamente', come 'erudizione', ma in modo 'vivente', come sostanza concreta di 'intuizione' politica".

La virtù guerresca del Principe machiavellico, attorno a cui le plebi del Cinquecento avrebbero dovuto concentrarsi per liberarsi dall'anarchia feudale e signorile e dar luogo alla vita civile della monarchia assoluta, vengono da Gramsci tradotte in termini contemporanei. Non un condottiero individuale può, nella società moderna, riunire intorno a sé le forze progressive della società, bensì un organismo collettivo, il partito politico.

Antonio elabora la metafora del "moderno Principe": "in questo senso 'principe' potrebbe tradursi in lingua moderna 'partito politico', 'un elemento di realtà complessa nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermata parzialmente nell'azione [...] la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a diventare universali e totali".


La parte fondamentale dell'azione politica del "moderno Principe" sarà una riforma intellettuale e morale, per "spezzare l'unità basata sull'ideologia tradizionale senza la cui rottura la forza nuova non potrebbe acquistare coscienza della propria personalità indipendente" e farsi fondatrice di un altro tipo di stato in cui la distinzione tra economia e politica, tra società civile e stato scompaia gradualmente.

Ciò che implica anche una riforma economica volta "all'elevamento civile degli strati depressi della società", e a un "mutamento della loro posizione sociale nel mondo economico".


Antonio scrive dal carcere: "Io sono un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta politica".

Ad altri intellettuali, dopo di lui, spetterà il compito di guidare, con la propria virtù, il partito e le masse per le alterne e capricciose correnti della fortuna.

Alla machiavellica e ferina doppia natura di golpe et lione, di volpe e di leone, alcuni dirigenti di partito che si succederanno nel tempo finiranno per preferire quella più domestica dell'asinello, se non addirittura quella vegetale di ulivi e margherite.

E non sarà mica che qualcuno, del partito, invece di combattere il caso, o meglio ancora, invece di battere e urtare la fortuna, intesa nella sua metafora femminile, se la sia presa in sposa come compagna di vita? Che questo rappresenti una progredita forma di virtù e di iniziativa politica? Niente di male, Antonio la riassumerebbe ironicamente così: "Un uomo che si rallegra di essere bastonato dalla moglie è certo una forma originale di femminismo contemporaneo".

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