Copertina
Autore Alan Pauls
Titolo Storia dei capelli
EdizioneSur, Roma, 2012 , pag. 186, cop.ril., dim. 13x20x2 cm , Isbn 978-88-97505-12-9
OriginaleHistoria del pelo [2010]
TraduttoreMaria Nicola
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe narrativa argentina
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Pagina 7

Non c'è giorno che lui non pensi ai capelli. A tagliarli molto o poco, a tagliarli subito, a lasciarli crescere, a non tagliarli più, a farsi rapare a zero, a radersi la testa per sempre. La soluzione definitiva non esiste. È condannato a tornare incessantemente sulla questione. Sempre così, schiavo dei capelli, finché crepa, magari. E perfino dopo. Non ha forse letto che... che i capelli crescono anche... o erano le unghie?

Una volta, d'estate, per sfuggire al caldo - sono le quattro del pomeriggio e in strada non c'è quasi nessuno - si infila in un negozio di parrucchiere deserto. Si fa lavare i capelli. Se ne sta a faccia in su, la nuca appoggiata nell'incavo di plastica. La posizione è scomodissima, ha male alla cervicale e un po' lo inquieta la leggerezza con cui la sua carotide sembra offrirsi alla lama del primo tagliagole di passaggio, ma la frizione dei polpastrelli, la dolce nuvola di profumo vegetale che esala dalla schiuma e la pressione dei getti d'acqua tiepida lo stordiscono, trasportandolo gradualmente in una specie di dormiveglia. Non tarda ad addormentarsi. La prima cosa che vede nel riaprire gli occhi, così vicina da apparirgli sfocata, come dipinta su una superficie di sabbie mobili, è il viso della ragazza che gli lava la testa, chino su di lui, capovolto, la fronte sospesa sopra la sua bocca. Che cosa sta facendo? Lo annusa? Vuole baciarlo? Rimane immobile, la sorveglia con occhi ciechi finché, dopo attimi di concentrazione in cui smette addirittura di respirare, la ragazza intercetta con un'unghia affilata il rivolo ribelle di shampoo che stava per finirgli in un occhio. Ora che è sveglio, non riesce più a ricordare, neanche provandoci, come fosse quel viso dieci minuti prima, quando è entrato nel salone, e la ragazza certamente gli è andata incontro per domandargli: «Li vuoi lavare?» Adesso ce l'ha così vicina che non sarebbe capace di descriverla. Potrebbe innamorarsi. In verità non saprebbe dire se non si sia già innamorato, riaprendo gli occhi e scoprendo quel volto quasi incollato al suo, gigantesco, un po' come quando al cinema si addormenta per qualche secondo e svegliandosi si consegna alla magia, sempre infallibile, della prima cosa che vede sullo schermo.

Non importa se quello che appare è un paesaggio, un muro divorato da un rampicante, una strada formicolante di gente, un branco di animali, quel benedetto cancello della fabbrica dei fratelli Lumière - la prima immagine per lui è sempre un volto. Il volto è il fenomeno per eccellenza, il solo oggetto d'adorazione contro il quale non esistono difese né rimedi. È una cosa che impara fin da giovanissimo, traducendo Shakespeare, quando un teatro municipale gli commissiona una versione in spagnolo moderno del Sogno di una notte di mezza estate. Traduce il testo a tempo di record, in stato di trance, com'è solito tradurre in quel periodo tutto quel che gli capita sotto mano: istruzioni per l'uso di elettrodomestici, copioni di film, Kant, saggi di teologia della liberazione, psicoanalisi lacaniana, testi che immediatamente, appena gli vengono affidati, si butta a battere a macchina, come lui chiama allora il tradurre, e poi espelle in una sorta di furibonda vertigine digestiva. Quella volta però, dopo aver consegnato il lavoro gli tocca subire i commenti del regista scritturato per mettere in scena lo spettacolo, un ex acrobata minuscolo che fuma col bocchino e sputa fuori il fumo di lato, dal buco che gli ha lasciato un molare fuggiasco, e tutto il tempo prezioso guadagnato grazie al suo metodo di traduzione-lampo va interamente perduto, perduto senza speranza, perché gli tocca riportarsi a casa le ottantacinque cartelle tradotte col suggerimento, o meglio l'ordine, visto che le prove iniziano tra una settimana, di infondervi un tono un tantino più giovanile - proprio lui, che non ha ancora ventitré anni e si comporta come se ne avesse quaranta - di tagliare pagine intere di versi superbi, di infarcire il testo della desolante frutta candita di sempre, battutine, riferimenti all'attualità locale, canzonette ridicole, unico modo, confessa imbarazzato il regista, per vendere Shakespeare alle orde di studenti delle superiori che presto, per obbligo scolastico, essendo loro il principale pubblico, se non l'unico, di quel genere di allestimenti, faranno risuonare salve di sghignazzate e rutti nel circuito delle sale moribonde che ancora si ostinano a metterli in cartellone.

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Perché c'è una questione che viene prima, ed è questa: come mai proprio lui, che è un caso patologico, come mai lui, con il problema che ha, continua ad andare da parrucchieri dove non è mai entrato prima? Come mai persevera nello sfidare la morte in questo modo? Eppure è così: persevera. Non può farne a meno. È la legge dei capelli. Ogni negozio di parrucchiere che non conosce e nel quale si avventura rappresenta un pericolo e una speranza, una promessa e una trappola. Potrebbe sbagliare e precipitare nel disastro, però, e se fosse il contrario? E se finalmente trovasse il genio che cerca? E se per paura non entrasse e mancasse quell'unica occasione? È un passo temerario, che in genere non compie senza garanzie o senza avere esaurito dentro di sé una lunga serie di dibattiti sterili. Questa volta, a differenza di altre, non conosce quel parrucchiere neppure di nome, nessuno glielo ha consigliato, non ha letto niente su giornali o riviste, il salone non l'ha neppure attirato per l'aspetto, del quale difficilmente saprebbe dire qualcosa, tanto è obnubilato dall'incandescenza del pomeriggio estivo. Ha visto dal marciapiede opposto gli specchi, le poltrone, la luce dei tubi al neon, un'aria generale di pulizia che associa automaticamente all'idea di fresco, ha attraversato la strada, è entrato. E il negozio è deserto. Il colmo. Cos'altro aspetta per capire che è perduto, che prima ancora che qualcuno lo faccia accomodare davanti allo specchio, lo copra con quello stupido sudario di plastica, lo metta di fronte al dilemma più inutile e insolubile, deve infilarci le braccia oppure no?, e gli domandi come vuole tagliarli la sua sorte è segnata, non ha più alcuna chance? Fin da piccolo gli hanno spiegato che non si entra in un locale vuoto. Mai in un ristorante, meno che mai da un parrucchiere. Più tardi, quando tutto sarà finito e si ritroverà nel caldo di fuori con almeno un mese, un mese e mezzo di obbrobrio inenarrabile scolpito sulla testa, chi gli crederà quando si giustificherà dicendo che è entrato per colpa del caldo, che solo un grave stato di emergenza spiega un atto così irragionevole da parte di uno come lui, irragionevole sotto molti aspetti ma certo non per quanto concerne i capelli, che gli tolgono il sonno da... da quando esattamente? Da quand'è che i capelli lo ossessionano, lo tormentano, lo rodono?

Non saprebbe dirlo. C'è un momento nella sua vita in cui comincia a pensare ai capelli come altri pensano alla morte. Non è che, di punto in bianco, ah, già, i capelli! Non scopre all'improvviso una cosa di cui ignorava l'esistenza. Ha sempre saputo che i capelli sono lì, da qualche parte, in agguato, ma è sempre riuscito a vivere senza pensarci, come se non esistessero. Non è un'esperienza, quella che scopre, ma una dimensione; non una cosa che fino ad allora non avesse fatto parte della sua vita, ma qualcosa che da sempre era dentro di lui a roderlo in silenzio, con la pazienza di un ruminante, in attesa del momento giusto per destarsi e dare i primi segni di vita visibile. La morte è l'esempio classico. Si sa che «c'è la morte» come si sa che il destino di ogni corpo è cadere o che l'acqua si trasforma in vapore a una data temperatura. È una cosa che si dà per scontata: una certezza invisibile, assunta giornalmente a dosi così infinitesime che perde consistenza, si confonde nel continuum della vita e finisce per non dare pensieri. Per anni. Finché all'improvviso compare e reclama quel che le spetta. Un conoscente ha un infarto mentre guida e il posto che lo attendeva alla sua cena di compleanno rimane vuoto per sempre. Un familiare lamenta un lieve fastidio nel deglutire e pochi giorni dopo il medico che annota il sintomo su una scheda smette di scrivere, alza la testa e lo guarda aggrottando la fronte. Di colpo qualcosa precipita e si solidifica: quel che era invisibile e silenzioso diventa materiale, di pietra, ineludibile, un ostacolo oscuro che non giunge a sbarrare del tutto la strada ma contro il quale non c'è modo di non incespicare, e che, inopportuno come un guardaspalle, comincia a comparire in tutte le fotografie di noi stessi che ci formiamo nella mente quando giochiamo a immaginare il nostro futuro.

Dei due rami in cui si divide la sua famiglia, paterno e materno, ramo calvo e ramo capelluto rispettivamente, lui appartiene senza dubbio al secondo. Lo sa ancora prima di arrivare ai vent'anni. Suo padre non ne ha compiuti ventiquattro che già due feroci triangoli di pelle liscia si insinuano ai lati della sua fronte come lingue di mare in un continente. Il suo fratello maggiore passa dalla quarta alla quinta liceo senza essere rimandato in una sola materia, e quando crede che il solo cambiamento nella vita soleggiata che gli si stende davanti sia quello che subisce la libreria della sua stanza, che dalla sera alla mattina vede sparire i libretti d'opera e fiorire al loro posto una collezione di libretti delle corse, gli uni e gli altri, manco a farlo apposta, identici per formato, spessore e sforzi mnemonici che richiedono, nel primo caso per cantare un'aria all'unisono col baritono, nell'altro per presentarsi al banco del totalizzatore e scommettere senza la minima esitazione, con la genealogia del cavallo stampata in mente, si scopre chino nella doccia a togliere dallo scarico qualcosa che lì per lì gli sembra una foglia di platano entrata dalla finestra ma poi si rivela essere un viluppo di capelli, dei suoi capelli, che prima dell'ingresso nella doccia erano parte della sua testa e adesso non può far altro che buttare, malgrado la repulsione che prova per i rifiuti organici mescolati a quelli industriali, nel cestino del bagno, dove già agonizzano pezzi di carta igienica, una lametta da barba usata, cerotti, un paio di batuffoli di cotone intrisi della lozione astringente che usa per combattere i brufoli. Così vanno le cose. Un altro fratello, il minore, si sveglia a mezzogiorno al termine di una notte animata da una piacevole serie di scaramucce solitarie e, dopo aver verificato le tracce lasciate sulle lenzuola dai suoi ormoni di adolescente tardivo, constata la presenza di due piccoli resti di capelli rimasti appiccicati al cuscino, a virgolettargli la testa mentre la perdeva nel groviglio di gambe e braccia di un'allegra orgia notturna della quale non ricorda più nulla.

Calvi, tutti quanti. Irrimediabilmente calvi prima ancora di varcare la soglia che li renderà uomini. Lui, invece, ha avuto in sorte i capelli. O meglio: ne ha fin troppi. È vero che per un certo periodo lo assilla il timore di rimanere glabro, e che la profusione di capelli biondi e lisci di cui gode a ben poco gli serve quando ciò che è oggetto di valutazione - in quell'olimpiade di prodezze fisiche che è l'adolescenza - non è la testa, ma il corpo, e in particolare il torace, le ascelle, le gambe, la zona pubica. Soprattutto la zona pubica. Mille volte si domanda quale vantaggio possa dargli quella che suo nonno chiama spregiativamente zazzera quando entra nella sala docce del circolo sportivo, teatro piastrellato di tormenti, senza poter esibire altro che una pelle liscia, nuda, priva di peli come quella di un delfino. Forse il pelame che ha sulla testa è in proporzione inversa a quello che ha sotto, gli viene da pensare. E lo pensa non tanto per tranquillizzarsi - perché è un'ipotesi troppo astratta per liberarlo dal peso che lo opprime ogni volta che partecipa ai confronti all'americana che si svolgono regolarmente nelle docce - quanto per assegnare alla sua stranezza un senso, anche solo una frase, qualcosa da poter ripetere in silenzio, come un mantra, per calmarsi. Del resto, è solo questione di tempo, e tutto quel che è questione di tempo, come non tarda a scoprire, si risolve facendo qualcosa nel frattempo.

E dato che di capelli ne ha da buttar via, come si suol dire, a un certo punto si concede il lusso per eccellenza: rinuncia al liscio. Lui non lo sa, ma è il suo modo di proletarizzarsi. Cominciano gli anni Settanta e decine di migliaia di ragazzi della piccola, media e perfino alta borghesia abdicano dalla sera alla mattina al trono che spetta loro per nascita, ripudiano volontariamente i privilegi di cui godono, abbandonano le case confortevoli, i quartieri signorili, le domestiche, il rugby, le corse in taxi, i viaggi, gli abiti di gran marca, la padronanza delle lingue straniere, tutte le frivolezze di cui è composta l'atmosfera in cui hanno vissuto e respirato, fino a ieri parte indissolubile di ciò che erano, simbolo di status e fonte di soddisfazione e piaceri, oggi emblema di violenza, indegnità, sfruttamento disumano, e scelgono di andare a vivere in borgate di baracche, quartieri fatiscenti, casermoni di periferie sordide, senza illuminazione pubblica né acqua potabile, con vie non asfaltate, dove si mimetizzano e apprendono, secondo il metodo che decenni più tardi si sarebbe chiamato full immersion, le regole di vita delle classi sfruttate il cui destino si propongono di cambiare. Lui, a undici, dodici anni, a che cosa può rinunciare se non alla corona dei suoi capelli? Alla sua collezione di fumetti? Alla sua copia malridotta di Tintin nel paese dell'oro nero? Ai due rapidograph 0.2, uno dei quali mortalmente disidratato, con i quali disegna vignette umoristiche che non hanno mai fatto ridere nessuno? Nulla di ciò di cui gode gli appartiene. Neppure il diritto di godere. I capelli, invece... Nel suo caso non si tratta solo di sovrabbondanza. Intuisce, incoraggiato senza dubbio dal clima dei tempi, che capelli biondi e lisci come i suoi, da lui sempre accettati come una cosa normale, senza farsi domande, così come altri accettano il colore degli occhi con cui sono venuti al mondo o il loro numero di scarpe, sul mercato globale dei capelli non sono solo un tipo fra i tanti, al pari di molti altri, ma sono considerati capelli di qualità superiore, desiderabile, ambita, come certe monete che circolano senza che nessuno ci badi finché sono di uso comune, ma venendosi a trovare in un sistema dove scarseggiano raggiungono di colpo quotazioni astronomiche. I capelli sono la sua ricchezza, il suo oro, il suo tesoretto. Il resto è pura sensibilità dell'epoca, forse, o semplice opportunismo. Il paese scricchiola. Se ancora sono ammessi i capelli lisci, non lo sono certo se sono anche biondi, colore borghese, colore esterofilo per eccellenza. Semmai se sono castani, se sono corvini, sul modello creolo o suburbano, talvolta accompagnato da baffi spioventi, che torna in auge insieme alla schitarrata intorno al fuoco, al raduno, all'assemblea sindacale, alla militanza radicalizzata.

Ma non vi è dubbio che la moneta forte sia il capello riccio, l'acconciatura numero uno che da Angela Davis in poi va sotto il nome di afro. Lui non saprebbe formularlo in termini così chiari, in parte perché il valore iconico dei capelli non necessariamente trova un equivalente nel linguaggio verbale, in parte perché basta la minaccia di un'imputazione infamante come quella di frivolezza per regolare l'agenda dei temi di un'intera generazione, ma lo avverte con estrema chiarezza: la vera moneta è il taglio afro. Trent'anni dopo vede Black Panthers, il documentario di Agnès Varda sul movimento delle Pantere Nere, e lo assalgono due sentimenti contrastanti: da un lato un'euforia istantanea, quasi suicida, nel constatare quanta ragione avesse avuto allora, quando, come altri decidono di privarsi, di rinunciare, di dare un calcio a beni e prebende per diventare poveri, lui, sbattendo la porta, abbandona il mondo del capello liscio, e dall'altro un avvilimento inconsolabile, dato che mai la desolazione è profonda come quando il caso, con imperdonabile negligenza, ci concede troppo tardi gli argomenti che potevano salvarci da un naufragio. Certo non è per frivolezza, né per eccesso di tempo libero o per sensibilità patologica alle tendenze della moda, se personaggi evidentemente poco propensi a perdere tempo con le ultime novità dell'estetica, come Huey Newton, ministro della difesa delle Pantere Nere, allora recluso nel carcere della contea di Alameda con una pena dai due ai quindici anni, o Bobby Seale, cofondatore del movimento, o Eldridge Cleaver, tutti neri irriducibili, sfilano davanti alla macchina da presa della Varda e impiegano tre dei quindici minuti che dura il film a spiegare come il taglio afro, segno di riconoscimento sovrano, che ignora i generi e uniforma uomini e donne, sia una dichiarazione di autoaffermazione politica né più né meno esplicita del manifesto con i punti programmatici del gruppo, delle bandiere inalberate dalle truppe d'assalto che circondano il carcere della contea di Alameda, degli occhiali da sole, dei giubbotti di pelle o dell'invito dello stesso Cleaver allo stupro delle donne bianche come parte del programma di addestramento per l'insurrezione.

Eppure, quel mutamento politico, che si manifesta nel declino del liscio e nell'ascesa inarrestabile dell'afro, lui lo coglie solo in maniera obliqua, in seconda battuta. Se lo coglie. In lui è piuttosto un passaggio all'atto: gli giungono alcuni segni del fenomeno, una specie di stillicidio, e azzarda quel che si chiama un salto nel vuoto. Da un giorno all'altro si converte all'afro, a un afro povero, rachitico, tutto sommato poco convincente, assai più vicino alla torpida sciatteria dei capelli non del tutto puliti di chi si sveglia dopo una lunga notte di letto che alla prestanza orgogliosa, all'immagine di potenza, alla dignità pugnace che irradiano cinque anni prima, quando reclamano la libertà di Huey Newton, e trent'anni dopo, quando gli capita di vedere il film di Agnès Varda che ne documenta la lotta, le chiome delle Pantere Nere.

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Può benissimo far fronte a tutto questo. In fin dei conti, non è per loro che rinuncia ai capelli lisci. Non sono loro il motivo di tanto accanimento. È l'epoca in cui vive.

Dirlo è facile, ma farlo? Che cos'è un'epoca, in fondo? A cosa si riduce, quanto può durare un'epoca senza contraddirsi o dissolversi, se non si cristallizza in un nome proprio, in uno stile personale, in un corpo reso unico da segni particolari e tracce? Ai suoi occhi, come a quelli di tanti, l'epidemia del Capello Nuovo che percorre quella particolare epoca si manifesta tramite un insieme di segnali superficiali, un concorso di sintomi che vengono alla luce, come di consueto, nel periodo paradossale delle vacanze estive, che per gli adulti è deserto, terra desolata, vuota di fatti, a giudicare dalla penuria informativa che si stende sulle prime pagine dei giornali, mentre per lui che ha dodici o tredici anni - disciplinati, da quando ha l'uso della ragione, dal regime carcerario del tempo pieno, inesorabilmente, da marzo a dicembre, dalle otto e un quarto alle quattro e mezzo, tutti i giorni, per tutto l'anno - è un intervallo carico di assolute novità, vertiginoso, nel quale perfino dormire, mangiare, lavarsi sono perdite di tempo inammissibili, il solo periodo davvero degno per lui di chiamarsi storico, a tal punto gli avvenimenti che lo popolano, infimi o radicali, sono unici, imprevedibili e apportatori delle riserve di vita che lo terranno in piedi per l'intero anno scolastico, quando tutto intorno a lui tende a soffocarlo nell'inerzia, nel tedio, nel supplizio di dover eseguire ordini dettati da altri.

Le prime avvisaglie del nuovo stato di cose si mostrano a fine anno, un paio di settimane prima delle feste natalizie, quando vede la pubblicità di uno spumante nazionale a poco prezzo, un sedicente champagne che a prima vista promette felicità e all'atto pratico garantisce un'ulcera istantanea, nella quale non può fare a meno di notare il giovanotto che leva il calice fissando con occhi rapaci la ragazza all'altro capo della festa, resa inaccessibile non solo dalla distanza ma anche dal cordone di ammiratori che la attornia, un Casanova da strapazzo forse quattro, cinque anni più giovane di quello che compariva nel manifesto dell'anno precedente, e che invece di essere pettinato con la brillantina, come impone il canone della bellezza ufficiale secondo le due scuole di pensiero cui si ispira, il tango e la fisiognomica criminale, ora inalbera una testa afro esuberante, talmente voluminosa che il margine superiore del manifesto non può fare a meno di tagliarla.

È solo il principio. A quell'indizio ben presto se ne aggiungono altri: l'allenatore di calcio che si scatena in un uragano di riccioli, il cantante di tango la cui testa fiorisce come un giardino, l'attore scelto per il cast di Hair, i bagnini delle piscine pubbliche, che da un'estate all'altra dimenticano decenni di capelli corti prescritti dalle norme dell'igiene. All'orizzonte irrompe anche un nipote del marito di sua madre, condannato fino allora a reprimere, tagliandoli quasi a zero, i capelli crespi con cui è venuto al mondo, mai come nel suo caso attributo della pecora nera, dal momento che la sua classe sociale, come a quel tempo si comincia a dire, si concepisce unicamente con i capelli lisci e condanna ogni altra variante all'ostracismo cui sono destinate le caratteristiche proprie di etnie inferiori. Cosicché febbraio volge al termine e lui non ha più bisogno di tirare le somme. Si tirano da sole, come succede nell'imminenza di una rivoluzione. E a metà marzo, primo giorno di lezione, quando arriva a scuola con enorme ritardo, a discorsi inaugurali già conclusi, mentre suonano le ultime note dell'inno, e cerca avidamente con gli occhi qualche faccia nota tra le file di allievi che si rompono, i bidelli che tentano di mantenere l'ordine, gli insegnanti che fanno rotta verso le aule, in una di quelle strane oasi di quiete che si aprono talvolta in mezzo a un tumulto, vede davanti a sé una coppia intenta a baciarsi lungamente contro una delle colonne di cemento del cortile, il ragazzo di spalle, la ragazza di fronte, anche se quasi coperta dalla testa del ragazzo nella cui foresta di ricci affonda le dita di entrambe le mani muovendole come serpenti voluttuosi.

Il quarto di viso che riesce a vedere gli basta per capire chi è la ragazza: conosce quel biancore, conosce quel sopracciglio folto i cui peletti si separano inarcandosi progressivamente di lato, come le ballerine acquatiche quando si tuffano tutte una dopo l'altra dal trampolino. Conosce il modo in cui i minuscoli capillari della sua pelle, sollecitati dall'emozione dei baci, esplodono in mille piccole macchie di rossore che la riempiono d'imbarazzo e che nasconde rialzando il bavero di un cappotto di due taglie troppo grande. Lei lo vede, gli sorride, lasciandosi sfuggire un'esclamazione di sorpresa o di pudore, e il mocassino rosso la cui suola poggiava contro la base della colonna - indolenza tipica dell'adolescente che bacia per provare una posa, per mostrarsi, magari per vendicarsi - torna rapidamente a riunirsi con quello rimasto saldo a terra. Senza smettere di abbracciarla, o più precisamente di schiacciarla contro la colonna, il ragazzo si volta. Potrebbe essere chiunque, e in tal caso lui avrebbe occhi, come si suol dire, solo per la massa riccioluta dei suoi capelli, allo scopo di constatare fino a che punto l'epidemia dell'afro sia ormai giunta dappertutto. Ma non è chiunque: è Monti, il suo migliore amico.

Il punto non è la ragazza. È stata la sua fidanzata cinque anni prima, arco di tempo che nella cronologia dell'adolescenza equivale a quello impiegato dall'umanità per inventare la ruota, decapitare Luigi XVI, prendere il Palazzo d'Inverno e posare il piede sul suolo lunare. Ha già dimenticato quanto l'ha amata, quanto l'ha fatta soffrire sussurrandole ogni giorno, due minuti prima della fine dell'ultima ora - quando l'unica cosa che lei attende, seduta in punta alla sedia con la sua cartella di pelle sulle ginocchia, è il suono della campana - che ormai non l'amava più, quanto l'ha fatta piangere di gioia dicendole il giorno dopo che era pentito e di nuovo la adorava. Ha dimenticato quanto gli piacevano quei suoi mocassini da zitella straniera, rossi, di cuoio raggrinzito, senza fibbia. A dire la verità non ricordava neppure che fosse ancora viva, dato che a quell'età ciò che si chiama vita, vita in senso lato, non si estende molto al di là dei limiti tracciati dalla nostra persona, quando non dal nostro campo visivo. Il punto è Monti, quella cosa che gli è cresciuta sulla testa, quella... novità. Ne è indignato. Non aveva forse i capelli corti l'ultima volta che si sono visti, pochi giorni prima delle vacanze, quando hanno giocato a ping-pong alle quattro e mezzo del mattino nel soggiorno di due gemelli abbandonati da un padre milionario in un condominio del quartiere Belgrano? Allora, quand'è stato che...? Come può essergli venuto in mente di...? E com'è che lui non...? Ma certo, le vacanze! Quel tempo che per lui è una distesa di vita magica, piena di avventure, di pericolo, di imprevisti, quel tempo che lui darebbe la vita per difendere se mai le forze sinistre del sistema scolastico tentassero di strapparglielo, quel tempo è clandestino anche per gli altri, anche per gli altri è oscuro e fresco ed eccitante e illecito sebbene calcinato dal sole di un mezzogiorno d'estate, anche per gli altri è teatro di vite possibili destinate a mostrare tutto il loro fulgore, il loro prestigio, l'invidiabile eccezionalità dei loro frutti sul mercato dell'anno di scuola... Lentamente, pazientemente, quasi godendo del dolore che si infligge, estrae il corto pugnale che gli è stato conficcato nella schiena e quella sera stessa, sotto la doccia, mentre si toglie di dosso la pellicola di sudore che vi hanno lasciato due ore di ginnastica, bada a tenere la testa lontano, molto lontano dall'acqua.

Che cosa ottiene rinunciando al capello liscio? Passeranno anni prima che possa capirlo. In quel momento neppure se lo domanda. Ci rinuncia, semplicemente.

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[...] Arriva finalmente il verde, lui parte sgommando ma l'altro lo supera e mette il muso del Toyota di traverso, chiudendolo, obbligandolo a frenare di colpo. Perfetto: è la sua occasione. Infila una mano sotto il sedile, tira fuori il bloccasterzo e scende impugnandolo come un machete. L'altro, sceso dall'auto anche lui, lo aspetta in piedi a braccia aperte, ad accoglierlo, come se volesse inghiottirlo, con un sorriso gigantesco. Solo in quel momento il rumore del mondo esterno lo riscuote, liberandolo dal torpore e dai postumi della reclusione. Sì, è il suo nome quello che l'altro pronuncia a voce alta. Come a scuola: prima il cognome, poi, come uno sparo alla nuca, rapido, indolore, efficace, il nome, con una nota altissima in cui si mescolano felicità, ironia e una certa sorpresa. Guarda di nuovo quella massa di capelli, rigogliosa, vitale, sulla quale la canizie sembra essersi abbattuta come un castigo arbitrario. «Ma cosa fai? Mi vuoi menare?», gli dice quello, più con sarcasmo che con paura, quasi sfottendolo, e solo allora lui si accorge del bloccasterzo che ha in mano. «Vuoi menare Monti, il tuo amico più caro?», aggiunge quello avvicinandosi senza timore, come se l'entusiasmo lo immunizzasse da ogni pericolo, e quando è lì, a un passo da lui, lo guarda bene, con attenzione, in ogni particolare, e scuote la testa in segno d'incredulità, poi, abbracciandolo con forza disperata, come se avesse incontrato un morto, gli sussurra all'orecchio: «Figlio di puttana: sei sempre uguale, uguale, uguale».

Accostano le auto, con le quattro frecce accese, scendono a chiacchierare sul marciapiede. Se dipendesse da lui, ovviamente, si darebbe alla fuga, come fa per principio ogni volta che si trova in una situazione le cui irregolarità non ha previsto e non riuscirà ad assimilare immediatamente, le rimpatriate scolastiche, tanto per dirne una, alle quali è periodicamente convocato da dieci o quindici anni, per telefono o per lettera, inizialmente da emissari scelti tra i compagni con cui ha avuto rapporti più stretti, poi per posta elettronica, e infine tramite Fotolog, uno di quegli album fotografici collettivi dove una volta, vagabondando con un certo distacco, gli pare di riconoscere la ragazza dai mocassini rossi trentacinque anni dopo l'ultima volta che l'ha vista di persona, che ha avuto la sua faccia davanti, a portata di mano, la sua bocca, le sue labbra leggermente screpolate dal freddo, e per poco non gli si ferma il cuore. Ma si è già dato alla fuga per telefono, non molto tempo prima, mentre guardava il suo cane annusare le gocce di sangue che gli aveva fatto sgorgare dalla mano, e pensa che forse accettando la situazione, fermandosi a chiacchierare per qualche minuto in piedi, al freddo, lungo un viale pieno di automobili che passano veloci e li ignorano, forse così, a prezzo di un modico sacrificio, potrà sdebitarsi delle decine di cene con i vecchi compagni di scuola cui non ha partecipato, degli inviti cui non ha risposto, degli imprevisti che ha usato come scusa per sottrarsi. Quindi rimane, ed è colto perfino da un certo improvviso piacere quando un raggio di sole si fa strada tra le fronde degli eucalipti e gli intiepidisce un lato della faccia, ma prende tempo per qualche secondo prima di entrare nel gioco della conversazione, sentendosi ancora disorientato, in effetti, dal carattere inatteso dell'incontro, ma anche per riallineare il meccanismo della memoria. Contro ogni logica, perché la storia dei contatti postumi che ha con il suo migliore amico è governata dai contrasti più radicali, tanto che nessuno dei loro incontri gli ha mai permesso di prevedere come sarebbe stato il successivo, è convinto che se riuscisse a mettere a fuoco l'ultima volta che l'ha visto, l'aspetto che aveva allora, il lavoro che faceva, il suo stato civile o sentimentale, potrà capire qualcosa di più della persona che ha davanti agli occhi, e che gesticola sparando raffiche di risate entusiastiche - ma si rende conto di esserne del tutto incapace, cosa che trasforma l'altro in un perfetto sconosciuto. Aveva una palestra? Era andato a stare in un albergo o era tornato da sua madre? Gestiva una rete di mense popolari in periferia? Allenava la squadra di rugby che lo aveva respinto come giocatore? Tutto gli si confonde. Di sicuro, comunque, non aveva i capelli così bianchi, non era così magro, né così abbronzato, e non inghiottiva avide boccate d'aria come sembra voler fare ora aprendo così tanto la bocca mentre parla. Quindi non gli resta che abbandonarsi alla spuma della conversazione, accettare la strana ospitalità che gli viene offerta da quella voce familiare, protettiva e insieme distante, e poi di colpo, per fermare la valanga di complimenti con cui l'altro continua a congratularsi per la sua gioventù, il suo magnifico stato di conservazione, la sua abilità nel rimanere indenne dai segni del tempo - ossia tutto quel che lui più detesta di sé, un processo che non è mai riuscito a invertire, perché quando avrà cinquant'anni gli diranno che ne dimostra quaranta e quando sarà agonizzante gli diranno che è pronto per correre la maratona della terza età, e nessuno vedrà mai lo spettacolo cui lui invece assiste tutti i giorni, l'erosione sorda ma implacabile che quella gioventù che non cede esercita sulle fondamenta che la sorreggono - approfitta di un attimo di pausa che Monti si prende per respirare, accenna col mento al Toyota e, spalancando gli occhi in segno di ammirazione, gli dice: «Ma a te va da Dio, no?» «Perché non l'hai vista dentro!», dice Monti, ridendo. «Ho quattro figli, e se raschiassi dai sedili tutte le caramelle e la cioccolata che mi ci hanno appiccicato sopra potrei mettere su una pasticceria». Ridono insieme. È vero, sì, non si lamenta: ha un'aziendina, vende piscine, è solo, senza soci, da due o tre anni se la sfanga grazie al boom dei quartieri esclusivi fuori città e dei complessi residenziali sorvegliati... «Sai com'è. Dove non c'è piscina non c'è casa», dice, come fosse un proverbio. Però lui non lo segue, si è arenato su quelle parole, quattro figli. «Hai quattro figli?» «Quattro femmine. Ana e Carmen, le gemelle, e poi Mara e Lucia. Quattro diavolette divine. Non è facile, comunque...» «Me lo immagino». «No, non te lo immagini. Nessuno se lo immagina. Vuoi rovinarti la vita? Fai come me, fai quattro figli. Sono adorabili, poverine. Mica è colpa loro. E guarda che ne ho viste, eh. Mi sono tirato fuori dalle truffe, dalla coca... Mi sono tirato fuori da tutto. Ma da quattro figli non ti tiri fuori. Adesso la madre si vuole separare. Si è resa conto che non funziona più. Ci credi? Proprio adesso che le bambine stanno per andare a scuola e che a me hanno trovato un cancro. Bingo! Ma raccontami di te, cosa combini di bello?»

Sente la parola cancro ed è come se un sasso spaccasse una finestra, cadesse giù e rotolasse e si fermasse a due centimetri dai suoi piedi. O come se una strana epidemia, sviluppatasi in condizioni climatiche eccezionali che un solo luogo del pianeta, uno solo, e remotissimo, può garantire, si abbattesse improvvisamente su regioni dove la sua sola esistenza era inimmaginabile, uccidendo gente che non aveva alcun motivo di temerla. Cancro, migliore amico: fra i due concetti c'è un anello mancante, destinato a mancare per sempre, a tal punto gli riesce inaccettabile l'idea che uno come lui, della sua stessa età, vale a dire ancora giovane, e per di più conservato in quella sorta di gioventù artificiale, tenuta su con gli spilli ma persuasiva, che sono i miti dell'adolescenza, possa cadere vittima di una malattia letale, talmente letale, in fondo, che più che una malattia è un'astrazione, una categoria, qualcosa che è chiamato a esistere - come ora scopre di aver pensato fino a dieci secondi fa, fino al momento in cui Monti pronuncia la parola cancro - in un non ben definito aldilà dell'esistenza che trova la sua ragion d'essere solo a fini di studio, come oggetto dei congressi medici e della ricerca farmacologica, o nella dimensione delle minacce astratte, che se promettono esiti fatali è solo affinché non debbano mai verificarsi. Ma ci sono altre possibilità: che lui abbia sentito male, per esempio, e che il cancro non sia il risultato di una moltiplicazione sfrenata di cellule maligne nell'organismo del suo migliore amico, bensì del combinarsi fortuito di un omofono banale pronunciato distrattamente, tanto, per esempio, o campo, o canto, o candy - marca di elettrodomestici che non sente nominare da secoli e della quale adesso, ne è sicuro, potrebbe giurarlo, Monti, chissà perché, gli sta parlando - con il fracasso del motore smarmittato di un'auto, o il fruscio dei rami degli alberi, o addirittura un difetto del suo udito, di cui ignorava l'esistenza e che farebbe bene a farsi controllare. E se invece fosse uno scherzo? È un'altra possibilità: una battuta crudele, da psicopatico - non così distante, dopotutto, dal repertorio condiviso da ragazzini, pieno di storpi che scivolano su bucce di banana, di mongoloidi onanisti e di paracadute che non si aprono - che lui butta lì tanto per fare, pregustando il momento in cui, con una risata esplosiva, gli rivelerà che ha scherzato, che l'ha fatto solo per dimostrargli come non bastino quattro chiacchiere su un marciapiede per saldare il debito contratto rifuggendo per tanti anni il suo passato scolastico. «Magari», dice. «Ti giuro sulle mie bambine che è vero. Guarda qui, vedi?», e gli mostra un piccolo punto nero, al centro di un circolino rosato, sulla pelle alla base della trachea, nel triangolo formato dalla camicia aperta. «Mi sono fatto fare una biopsia la settimana scorsa. Ho dovuto convincerli io, i medici. Fosse stato un dolore, magari me la cavavo, però mi sentivo come un peso qui, una pressione strana. Stress, dicevano. Troppa agitazione. Mi davano dei miorilassanti, Rivotril, tisane di valeriana. A me non tornava. Sapevo che c'era dell'altro. E infatti c'era. Cancro al polmone. Comincio la chemio fra dieci giorni. Ma raccontami di te, brutto bastardo. Single? Sposato? Castrato? Come te la passi?»

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