Autore Alan Pauls
Titolo Storia del denaro
EdizioneSur, Roma, 2014 , pag. 236, cop.ril., dim. 13x20x2,2 cm , Isbn 978-88-97505-40-2
OriginaleHistoria del dinero [2013]
TraduttoreMaria Nicola
LettoreRenato di Stefano, 2014
Classe narrativa argentina












 

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Pagina 7

Quando vede di persona il suo primo morto, non ha ancora quindici anni. Trova un po' strano che quell'uomo, amico di famiglia del marito di sua madre, rimpicciolito tra le pareti troppo strette della bara, gli stia antipatico adesso come quando era vivo. Lo vede in abito scuro, vede la faccia ringiovanita dall'igiene funeraria, truccata, la pelle un po' giallognola, con una lucentezza come di cera ma impeccabile, e sente la stessa avversione che lo assale ogni volta che gli tocca incontrarlo. È sempre stato così, comunque, dal giorno in cui l'ha conosciuto, otto anni prima, un'estate a Mar del Plata, poco prima dell'ora di pranzo.

Non c'è una bava di vento, le cicale preparano una nuova assordante offensiva. Cercando sollievo dal caldo, dal caldo e dal tedio, vaga alla deriva per la grande villa primo Novecento dove non riesce a trovare un posto che sia suo, a nulla servono i sorrisi con cui lo ricevono i padroni di casa quando ci mette piede la prima volta, la stanza esclusiva che gli assegnano al primo piano o l'insistenza con cui sua madre gli assicura che non importa, anche se è appena arrivato lui ha diritto alla villa e a tutto quel che c'è dentro - compreso il garage con le biciclette, i surf, le tavolette in polistirolo, compreso anche il giardino con i tigli, il gazebo, le altalene in ferro e le aiuole di ortensie che il sole brucia e scolora tanto che i petali sembrano di carta - esattamente come gli altri, intendendo per altri la legione ancora vaga ma inspiegabilmente crescente che, con uno sconcerto che il tempo non è riuscito a dissipare, da anni lui sente chiamare la sua famiglia acquisita, tutta la truppa di cuginastri, ziastre, nonnastre che gli sono spuntati addosso dalla sera alla mattina come verruche, spesso senza dargli nemmeno il tempo per l'essenziale, imparare i loro nomi, per esempio, e poterli associare alle facce a cui corrispondono. Il calvario di chi si vede costretto a farsi da parte perché non c'entra niente, mai, tutti i passi che fa sono passi falsi, ogni decisione è un errore. Vivere equivale a pentirsi.

In uno dei tanti scali del suo vagabondaggio atterra al piano di sotto e lo vede, o meglio, lo sorprende - il morto, vede, e chi se no? - mentre scivola lungo il corridoio come in punta di piedi, in atteggiamento sospetto. Non ha l'agilità inquietante di un ladro. Di sicuro non rappresenta una minaccia, rubicondo com'è, di un'affettazione quasi femminile, con quella pelle sempre picchiettata di macchie rosse. Ha le movenze leggere, la delicatezza di un mimo o di un ballerino, e si muove a saltelli muti, inoffensivi quanto la missione che lo porta in sala da pranzo prima che la campanella annunci l'ora di mettersi a tavola: battere sul tempo il resto della famiglia per saccheggiare a uno a uno, con beccate metodiche delle dita regolarmente sottoposte a manicure, i piattini su cui sono state servite le sottili fette di pane croccante che quel mattino ha deciso di comprare lui stesso, una marca dal nome vagamente straniero le cui virtù, a quanto pare, va decantando da una settimana senza che nessuno gli dia retta.

Come tutti, anche lui crede che la morte possa lavar via la vecchia ripugnanza. Questo, almeno, se proprio non riuscisse a cancellarla. E così si avvicina al feretro, l'unica cosa, a parte la moglie del morto - che a dir la verità non vede da un pezzo -, che lo attiri in quell'appartamento soffocante dove sua madre l'ha portato senza dire una parola appena è tornato da scuola. Cammina col mento sul petto, con l'aria grave e concentrata che incupisce con strana unanimità le facce degli adulti e che in meno di dieci minuti, gli basta dare un'occhiata in giro, sa già imitare alla perfezione, imbaldanzito, oltretutto, dall'eleganza formale della divisa scolastica con cui sua madre l'ha costretto a venire, unico capo del suo guardaroba all'altezza della situazione. Ma quando arriva alla bara, con la speranza che vedere il morto dal vivo - come qualche volta ha detto scherzando con i compagni di classe che con lui condividono una totale inesperienza in fatto di funerali - basti a relegare la vecchia ostilità negli scantinati dove ammuffiscono le sue intolleranze di bambino, le voci intorno a lui si mescolano in un brusio confuso, il suono di sottofondo si spegne e, incredulo, scopre di riuscire a sentire una sola cosa, di tornare a sentirla intatta, preservata allo stato di massima purezza: l'insopportabile crepitio dei crostini nella bocca del morto. Più precisamente, sono due suoni alternati: lo scricchiolio dei crostini mentre vengono triturati dai denti, nitido ma opaco, messo in sordina dal pudore o dal buon gusto di una bocca educata ad aprirsi il meno possibile nel masticare, e lo schiocco vivace, regolare, le sferzate minuscole che risuonano nell'attimo dello sminuzzamento, quando le labbra si compiacciono di prolungare per qualche istante la delizia di assaporarli. Eppure no: quei due suoni non sono nell'aria e nemmeno nella sua testa. Non sono un'allucinazione né un ricordo. Sono lì dentro, risuonano proprio nella bocca del morto.

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Pagina 17

È incredibile quanto ci mettano a passare gli ultimi giorni di gennaio. A volte, da piccolo, non capendo come un quarto d'ora d'orologio possa scorrere al rallentatore o in un soffio a seconda del momento del giorno, delle circostanze, delle persone che sono con lui, del clima, della luce, dello stato d'animo, delle occupazioni che lo attendono o che si è lasciato alle spalle, contempla l'idea che forse il tempo non sia affatto universale, che anzi, sia la cosa più particolare al mondo, una specie di bene privato che ogni famiglia e ogni casa e perfino ogni individuo produce a modo suo, con metodi, criteri e strumenti suoi propri, e nel senso più letterale del termine, investendovi forza fisica, lavoro, materie prime, tutto ciò che la consistenza evanescente del tempo sembrerebbe rendere inutile, come se fosse un prodotto dell'artigianato domestico invece che quello scorrere schivo che tutti dicono sia.

Gli basta entrare nell'ultima settimana di gennaio ed ecco che il mondo prende peso, le ore si trascinano boccheggiando, come se arrancassero lungo una salita senza fine. Invece di condurre al giorno successivo, ogni giorno diventa l'ostacolo che lo rinvia o lo nasconde. Giunge un momento in cui il tempo ristagna - il tempo reale, quello del cui scorrere si accorge dal modo in cui vede avvicinarsi l'unica cosa che desidera, andarsene da Mar del Plata, allontanarsi dal crepitio dei crostini in bocca al morto, dalla villa, dall'obbligo di fare silenzio nell'ora della siesta, dalla noia dei pranzi e delle cene in cui rimane invariabilmente muto, quasi immobile, raggelato dalle regole di un galateo che ignora e dalla stravagante varietà di posate dispiegata ai lati del piatto, che non saprebbe come né quando usare, anche se più di una volta, al colmo della sonnolenza, scosso dal bisogno di fare qualcosa, qualunque cosa, che dissipi quella nube di torpore, si mette a classificarle, a disporle in ordine di dimensione, colore, lucentezza, a usarle per tracciare righe sulla tovaglia di lino bianco, finché qualcuno - mai sua madre, che in materia di diritto familiare prende fin dall'inizio la decisione di far finta di niente, ma un membro della sua cosiddetta famiglia acquisita, una nonnastra, uno ziastro, perfino un cuginastro che ha appena uno o due anni più di lui, gli parla con autorità incontestabile, come un tenente a un soldato semplice - lo riprende dal fondo del tavolo. Perché quell'altro, il tempo segnato dall'orologio, dal susseguirsi dei pasti e degli abiti, dall'avanzare del sole sulla pelle, sui corpi bagnati, dalla stanchezza dei volti, tutto quel tempo che sembra avanzare, trascinato dalla scansione più o meno regolare dei giorni, si è ridotto a una pura formalità, una finzione volta a nascondere la paralisi delle cose.

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Ma che rapporto c'è tra il denaro capace di mangiarsi una tavoletta di cioccolato al latte, una bustina di figurine, una gomma da cancellare, i biglietti del pullman per Villa Gesell che adesso agonizzano in fondo a una tasca dei pantaloni, e il denaro che ci vuole per mangiare una cosa invisibile, così fuori scala come i centotré chilometri di strada per Villa Gesell? Di denaro ne ha visto, certo. A sei anni, addirittura, ne ha già prestato. Ha quella che lui chiama la mia cassa, una vecchia valigetta del pronto soccorso col coperchio che non chiude e la croce rossa scrostata dove tiene il suo capitale, monete, biglietti di piccolo taglio o strappati, i resti che sua madre o il marito di sua madre o perfino suo padre ogni tanto gli lasciano tenere. È a lui e alla sua cassa - dove di notte, mentre lui dorme, il denaro s'impregna di odore di garze, di cerotti, di mercurocromo - che ricorre sua madre quando ha bisogno di spiccioli per dare una mancia o per qualche piccola spesa, cosa che le capita più spesso di quanto vorrebbe ma che ogni volta la coglie di sorpresa - fruga all'ultimo momento nella borsetta, mentre il portiere, il ragazzo dell'edicola o il garzone del fruttivendolo aspettano, e non trova niente, mai, neanche una monetina - e la riempie di vistosa irritazione. La sua cassa: che grande valore dà a quei donativi casuali quando li riceve e quanto poco sembra tenerli presenti dopo, quando, al quarto o quinto prestito che concede a sua madre - sempre a corto di spiccioli, del resto, come non può essere altrimenti in una città e in un paese dove la moneta è e sarà sempre un bene prezioso -, lui si diverte a ricordarle quelli che ancora non ha restituito - tutti quelli che ha chiesto - e le intima di saldare il debito.

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Come faccia suo padre, lui non lo sa, non lo saprà mai. Certo, cura molto le mani. Se le lava spesso, ovunque si trovi, in ufficio, soprattutto, e sempre col suo sapone, che tiene nel secondo cassetto della scrivania e porta con sé nel bagno, strofinandole con furia e soddisfazione, e la dedizione con cui si lima le unghie - compresa l'unghia cubista, quella che da giovane gli rimase schiacciata nel cassetto di un classificatore metallico e da allora ha una forma di tetto a due spioventi, uno nero, l'altro di un bianco lievemente rosato, spartito nel mezzo da un'affilata linea chiara - non ha niente a che vedere col trattamento che ricevono le unghie dei piedi, abbandonate a una crescita senza freni che presto o tardi finisce per distruggergli i calzini. Ma questo non può bastare. Si spiegherebbe se maneggiasse assegni, cambiali, carte di credito, tutti gli igienici simulacri della cartamoneta che cominciano a circolare proprio allora, teste di ponte di un'arrogante economia d'avanguardia, che lui stesso vede già come qualcosa di abituale in mano ai membri della sua famiglia acquisita, il marito di sua madre primo fra tutti, i cui portassegni mostrano stampigliata in bella vista la stessa elegante iniziale maiuscola che contrassegna la groppa dei capi di bestiame al pascolo sulle sue terre nel sud della provincia di Buenos Aires. Suo padre crede nel cash, al cento per cento. Grazie al suo lavoro, naturalmente, e perché non vive sotto una campana di vetro, ha familiarità con tutte le forme moderne di pagamento, ma si guarda bene dal servirsene e le tratta con lo stesso disprezzo aristocratico con cui condanna le calcolatrici e, un paio di decenni dopo, quando non sarebbero di troppo, gli occhiali, l'apparecchio acustico o il bastone.

Il fascio di biglietti, sempre. Non importa dove, se in strada o mentre gioca a tennis, o durante uno scalo all'aeroporto di Dakar, o quando si alza dalla poltrona della televisione - negli ultimi anni, il suo vero posto nel mondo - per ricevere il pollo al forno con patate che ha ordinato alla rosticceria sotto casa, suo sempiterno menù da separato, sembra avere sempre il denaro a portata di mano. Tutto il suo denaro, comprese naturalmente le sterline, i franchi svizzeri, i dollari e le lire con i quali è solito sbalordire il ragazzo della rosticceria quando, praticamente sotto il suo naso, si mette a scegliere dal mazzo le banconote per pagarlo. La domanda è come fare a sapere, data la legge del cash, assioma unico, ferreo, che regge da cima a fondo la sua economia, se suo padre sia ricco o povero. È una cosa che non smette mai di disorientarlo. Le dimensioni del fascio di biglietti, così gonfio e arrogante, la varietà di valori e colori che contiene, perfino il principio che determina l'ordine delle banconote: tutto sembra farne un segno di ricchezza e della ricchezza più ricca, la ricchezza diretta, immediata, che non richiede traduzione né conversioni né intermediari per farsi effettiva. Ma ogni volta che vede suo padre tirar fuori di tasca il fascio di banconote per pagare qualcosa, qualunque cosa, due biglietti per il cinema, un paio di scarpe da tennis, mezzo chilo di gelato, le ventotto notti all'albergo dei croati di Villa Gesell, così sublimi d'altra parte che per lui, come si suol dire, non hanno prezzo, e si lascia meravigliare dall'idea che lì, nel fascio di biglietti che suo padre maneggia con destrezza da baro, come se lo avesse in mano da quand'è nato, stia effettivamente tutto il suo denaro, c'è sempre un momento in cui l'incantesimo si spezza, come sferzato da un raggio malefico, e quel che rimane quando svanisce è il suo rovescio di dubbio e di sospetto: il terrore - giustificato proprio dall'evidenza che quel che si vede lì è tutto, che non c'è nient'altro - che possa finire, finire senza possibilità di rinnovarsi, totalmente, una volta per tutte e per sempre.

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È come scoprire di colpo un significato dell'espressione costo della vita che fino ad allora non aveva mai considerato. Dove ha già visto degli esseri umani valutati in quel modo? Al cinema, forse... Gli schiavi nei film sugli antichi romani, venduti e comprati sulle pubbliche piazze per un pugno di denari rozzi e malamente incisi, o in cambio di certi dischetti dorati che si fanno passare per monete e che una mano agita con cupidigia dentro una borsa per farli suonare con un'oscenità di tamburello. E le prostitute, certo, arcaiche ma sempre tanto auratiche, il cui prezzo, d'altra parte, non si sa mai se si applichi alla persona in sé o all'insieme delle prestazioni che è in grado di fornire. Ma quello è cinema, e nessuno come lui sa quanto poco ci sia da fidarsi di tutto quello che lo rende felice. E poi nei due casi - gli schiavi sotto la sferza, le donne che si offrono sul marciapiede - c'è sempre tutto quel pathos, quel disordine emotivo, vera piaga estorsiva che impedisce di capire alcunché. La polizza invece è implacabile. Non attenua l'emozione: la abolisce. Una vita vale centomila dollari. Punto. Dove ha visto il piano della carne e quello del denaro sovrapporsi in questo modo, con questa evidenza impassibile? Da un lontano pranzo domenicale gli giunge la voce del morto che parla con un fremito di terrore. Ci mette un po' a vederlo, come molte volte gli capita con certi ricordi che gli arrivano privi di una delle tracce che li compongono, senza immagine, o senza sonoro, o senza l'odore o la vibrazione dell'esperienza, come se una mano li avesse intercettati lungo il tragitto dall'archivio fino a lui. Dal quadro momentaneamente nero viene una voce in falsetto che ripete e ripete una cifra, quattro milioni, la somma richiesta come riscatto dall'organizzazione armata che sequestra l'amministratore delegato dell'acciaieria, finché l'immagine prende forma e appare il morto che, fuori di sé, con la faccia paonazza, gesticola in maniche di camicia seduto a tavola mentre il pranzo si raffredda, e approfitta dello stato di sbalordimento generale in cui sono caduti i commensali per allungare una mano e rubare un crostino. Sì, quelle cifre gli dicono qualcosa. Molto di più, in ogni caso, dell'espressione costo della vita nel suo senso corrente, di cui parlano tutti, perché non c'è cosa o bene il cui prezzo non cambi da un giorno all'altro, senza che mai venga spiegato l'essenziale: come mai si applichi al prezzo del latte o delle scarpe e non a quello di un imprenditore del settore carni o al dirigente di una multinazionale.

È come una febbre. Non c'è settimana in cui i giornali non riportino in prima pagina un nuovo record. Quattro milioni per l'amministratore delegato dell'acciaieria, caso che il morto conosce bene perché riguarda la holding per cui lavora, e soprattutto perché, ci tiene a specificarlo, il colpo è arrivato molto vicino e fa capire fino a che punto lui, come poi confermerà definitivamente il ritrovamento del suo corpo in fondo al fiume San Antonio, possa essere il prossimo. Ma anche i venti milioni che le Forze Armate Rivoluzionarie chiedono per il figlio di Roggio a Córdoba, i cinque milioni per il magnate metallurgico Barella, i due milioni e trecentomila che l'Esercito Rivoluzionario del Popolo estorce a Lockwood, il milione pagato per John Thompson di Firestone, i dodici milioni che paga la Esso per Victor Samuelson dopo cinque mesi di prigionia. Fino al record assoluto, il vero colpo grosso, il top del tariffario carne-denaro, che racchiude in sé stesso un ciclo inflazionistico completo: i cinque milioni che l'organizzazione Montoneros esige per la liberazione dei fratelli Born, nel settembre del 1975, e i quaranta o sessanta milioni - le versioni divergono - che l'azienda cerealicola Bunge & Born finisce per sborsare nell'aprile 1976 quando i due dirigenti vengono liberati. Lui, che segue con grande entusiasmo l'andamento di queste operazioni, lo stesso entusiasmo che molti suoi amici - gli stessi, in generale, che lo prendono in giro o lo ignorano quando propone di andare al cineforum comunista a vedere un ciclo di film dell'Est europeo - dedicano al Campionato Metropolitano di calcio, non è mai tanto felice come quando i sequestrati tornano in libertà e appaiono sulle prime pagine dei quotidiani e nei servizi dei telegiornali, esausti ma felici, circondati da un cordone di poliziotti e fotografi. Non è esattamente la liberazione a esaltarlo. Non è esattamente il fatto, sbandierato a destra e a manca dalla stampa borghese, che insieme alla libertà i sequestrati recuperano l'aspetto più vitale della vita e pertanto la vita stessa, che durante la cattività nelle cosiddette prigioni del popolo si era ridotta a dormire, pisciare, cacare, ruminare un rancio disgustoso, camminare in tondo in ambienti minuscoli, ascoltare di straforo le radio dei vicini ed essere sottoposti a interrogatori. Le miserie umilianti della sopravvivenza non gli interessano. In fin dei conti quella vita quasi subumana, sempre a rischio di cadere al di sotto del minimo vitale, non è forse la stessa vita che le grandi aziende di cui i sequestrati sono i cervelli, i simboli, i portavoce orgogliosi, impongono a migliaia e migliaia di operai che lavorano per loro, e non per due settimane o tre mesi, come tocca del tutto eccezionalmente di viverla a loro, ma per anni, decenni, un'esistenza intera, al punto che per loro non è più un succedaneo perverso della vita, ma la vita stessa, l'unica che hanno e, in quanto tale, la vita che, penosa finché si vuole, immonda e senza uscita, merita di essere celebrata? No. Quel che lo esalta, evidente sulle prime pagine dei giornali come i chili di cerone che abbelliscono gli attori nelle foto esposte agli ingressi dei teatri, è la trasformazione avvenuta nei sequestrati. Viaggiano su auto ultimo modello, portano abiti su misura e scarpe italiane e firmano assegni con stilografiche d'oro, e all'improvviso un commando armato perfettamente sincronizzato li strappa alla vita sontuosa che conducono. Dopo giorni, settimane, mesi, quando vengono rimessi in libertà e si trovano ad affrontare, abbacinati, il fulgore dei flash, hanno i capelli bianchi, il cuoio capelluto roso dai pidocchi, la barba di settimane, escoriazioni sulla pelle. Sono sporchi, smagriti, con la faccia incavata. Hanno l'aria spenta dei condannati, lo sguardo vitreo e schivo degli alcolisti, dei pazienti psichiatrici, degli umiliati. Indossano tute da ginnastica scadenti, completi improvvisati con roba fornita dai rapitori, in cui niente combina con niente: la camicia fuori dai pantaloni, le scarpe senza lacci, le dita macchiate di nicotina - quelli che già fumavano al momento del sequestro si aggrappano alla sigaretta come turchi, e quelli che non fumavano adottano il vizio con brama fatale -, le unghie sporche e spezzate di chi scava ogni giorno alla vana ricerca di una fuga. Sono disorientati, hanno vuoti di memoria, balbettano. Sembrano bestie, ritardati mentali.

Ma secondo lui, per il quale la cosa che mai sia stata più vicina al settore sequestri estorsivi e a tutto quanto si muove in quell'ambito - dirigenti di holding gigantesche, commando, armi, prigioni del popolo, comunicati, riscatti, passamontagna, uniformi contraffatte - è la cifra, quattro milioni! proclamata in preda a un attacco di terrore dal morto dei crostini, e naturalmente il morto dei crostini stesso, lui in persona, che vede per l'ultima volta a uno di quei pranzi estivi a Mar del Plata, sbraitare per l'arancione sgargiante di cui qualcuno ha pensato di dipingere le sedie di midollino della spiaggia mentre si riempie la bocca di crostini, e poi, senza soluzione di continuità, come si suol dire, compresso dalle strette pareti di una bara, in abito scuro, truccato - secondo lui quel deterioramento fisico e mentale, quella perdita di energia, quell'invecchiamento precoce che subiscono i sequestrati durante il sequestro e che i giornali riproducono esultanti su tutte le prime pagine, non dipende dalle condizioni in cui sono tenuti prigionieri, per dure che siano, quanto dal riscatto che è stato versato. La differenza tra il dirigente appena rapito, in splendida forma e nel pieno possesso delle sue facoltà, e lo stesso dirigente liberato a distanza di giorni, settimane o mesi, è una differenza economica. Sono i soldi che gli mancano, quelli che gli sono stati sottratti, il flusso di contante - perché le organizzazioni armate appartengono alla stessa religione di suo padre: credono solo nel cash - a risucchiare e a portarsi via le proteine, gli elementi nutritivi, il plasma, i globuli rossi, tutti gli elementi fondamentali di cui, allarmati, attestano il grave stato di carenza i medici della polizia che visitano i sequestrati appena vengono rimessi in libertà. Gli sembra addirittura di vederlo, tutto il procedimento, in una specie di vignetta mentale chiarissima, disegnata con uno stile antiquato già allora - sigari king size accesi con banconote da cento dollari, ventri ingrassati da cocktail di scampi in salsa rosa, orologi che brillano come lingotti d'oro - di cui si serve la stampa rivoluzionaria per schernire i capitalisti e i loro lacchè: il sequestrato - con il suo sigaro Avana tra le dita - deperisce a vista d'occhio su un tavolaccio mentre con un ago nella vena gli vengono estratti, in uno stesso movimento, denaro e sangue.

La domanda, ancora una volta - come nel caso della polizza vita che sua madre gli fa firmare una settimana prima di partire per l'Europa con il suo secondo marito -, è perché quattro milioni e non due, sette o centoventicinquemila. Come fanno i capi dell'organizzazione guerrigliera, una volta catturato l'obiettivo, così lo si definisce nel gergo militare allora in voga, a calcolare la somma del riscatto? Su quali criteri si basano, a quali stime si attengono, come si regolano in quella singolare vicenda contabile? Se i rapiti sono tutti ricchi, perché per uno chiedono settecentomila e per altri due milioni e mezzo? Chiedono una somma che il nemico, a loro giudizio, può pagare o chiedono la somma che serve loro per procurarsi armi, mezzi di comunicazione, veicoli, covi, o per distribuire viveri e indumenti nelle baraccopoli e nei villaggi rurali, o per pianificare azioni future? Una sola cosa è più incalcolabile del prezzo di una vita umana: l'arte. Ogni volta che sui giornali gli capita di imbattersi in quelle cifre esorbitanti lo prende un primo impulso di gioia, una febbre euforica. Pensa alla povertà, alla miseria senza nome, alla penuria atroce che i sequestrati, e le holding che rappresentano, direttamente o indirettamente impongono a porzioni sempre più vaste della popolazione, e ogni cifra gli sembra poco, ogni somma, ridicola. Non c'è denaro che possa ripagarle! Il secondo impulso è leggermente diverso: un'incertezza sottile, tinta di un vago malessere. Rilegge la cifra e pensa: se almeno ci fosse una logica. Se almeno seguissero l'esempio di quel senza patria di Godard - come lo ribattezza il pomeriggio in cui, sprofondato nella poltrona scricchiolante della cineteca, allungando il collo a più non posso per eludere le teste afro della coppia seduta davanti a lui, vede per la prima volta la scena delle esecuzioni nella piscina coperta di Alphaville, dove i tristi condannati in giacca e cravatta cadono in acqua e il corteo di pin-up in bikini si tuffa per riportarli a bordo vasca, e quando esce dal cinema, con la solennità solitaria delle decisioni prese a quindici anni, decide di non ripetere anche lui l'errore che fanno tutti, il francese Godard, lo svizzero Godard, addirittura il franco-elvetico Godard, perché lui attribuisce alla linea di confine che separa la Francia dalla Svizzera tutto ciò che ammira nel regista, che poi è tutto, dalla montatura degli occhiali fino al fondo strettissimo dei pantaloni, sempre un po' corti, passando per le donne, specialmente le sue donne, e quelle raffiche di musica che irrompono come scariche di pioggia tagliando in due le immagini dei suoi film e poi tornano al silenzio -, il senza patria Godard, che quando finisce di girare Tout va bien, il pamphlet anticapitalista che dirige con Jean-Pierre Gorin, e si siede a pensare, come ogni volta che finisce un film e adesso ancora di più, perché quelli che gira adesso non sono film ma pamphlet anticapitalisti, a chi diavolo vorrà pagare il biglietto per andarlo a vedere, quale pubblico può esserci per un capolavoro di kino-pravda slapstick con Jane Fonda e Yves Montand fatti ostaggi del fuoco incrociato di una lotta sindacale: l'obiettivo che si prefigge è di centomila spettatori, gli stessi centomila, immagina, che vanno al cimitero Père-Lachaise per il funerale del militante maoista Pierre Overney, assassinato ai cancelli degli stabilimenti Renault di Billancourt - senza un fratello Lumière a riprendere la scena - dal vigilante Jean-Antoine Tramoni. Sette chilometri di corteo funebre, centomila persone (fra cui il filosofo più brutto del mondo, quello che giura e spergiura di avere nelle tasche della giacca tutto ciò che gli serve per vivere), centomila poltrone occupate nei cinema di Parigi.

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Come si fa a saperlo nel caso di sua madre, per la cui vita, nel caso la perdesse, la compagnia di assicurazioni offre centomila dollari - centomila verdi, come li chiama già il gergo della strada, inaugurando l'ecologismo finanziario che tingerà di sé le conversazioni pubbliche e private nei due decenni successivi - «pagabili», a quanto riesce a leggere sulla polizza prima di firmarla, «dietro presentazione del relativo certificato di decesso»? E poi, pagabili in quale forma? Nel loro equivalente in pesos? Direttamente in dollari? E se in dollari, a quale cambio? Al cambio ufficiale, che nell'aprile del millenovecentosettantacinque chiede quindici pesos e zero cinque centesimi per ogni dollaro? Al cambio parallelo, che ne pretende più del doppio, trentasei pesos e quarantacinque? E se al cambio parallelo, parallelo di quando? Del luglio settantacinque, quando nelle cosiddette caverne dove si decide la vita segreta del denaro il dollaro viene pagato sessantasei pesos e cinque centesimi? O di quello di settembre, quando lo pagano già centodieci? E se invece fosse in pesos, quali pesos? Quelli di prima di giugno, o quelli di dopo, quando il biglietto dell'autobus è già aumentato del centocinquanta per cento e il litro di benzina del centosettantacinque? Come tutti, non riesce a capire com'è possibile che di punto in bianco le cifre salgano alle stelle e gli zeri, dai fruttivendoli, sui cartoncini violetti leggermente concavi su cui sono segnati col gessetto i prezzi delle merci, si moltiplichino in modo folle, come se dovessero rappresentare grandezze extraterrestri - anni luce, per esempio - o tempi geologici, non il prezzo di un cespo di lattuga, finché da un giorno all'altro una legge interviene a mettere un freno tagliandoli di netto, e quel che prima costava diecimila adesso costa uno. Eppure riesce a capire ancora meno come possano moltiplicarsi gli zeri nella valutazione delle vite di sua madre e del marito di sua madre - mentre sono in vacanza, per di più, tranquilli e beati a bordo della Giulia decapottabile noleggiata a Portofino - senza che questo incremento esponenziale significhi necessariamente che valgono di più, che costano di più, che ci sia da pagare di più nel caso che un incidente le tolga di mezzo.

Sua madre. Quand'è che la sua conturbante bellezza comincia a guastarsi? Con la svalutazione del giugno settantacinque? Con quella di metà luglio, ancora più inaspettata, colpo di grazia che abbatte gli ultimi sopravvissuti della tempesta di giugno? Non se lo ricorda più, se mai l'ha saputo. Ricorda bene, invece, che quando torna dal famoso viaggio in Europa in alta stagione durante il quale, ben lungi dal morire in un disastro aereo, in un incidente stradale o in un attentato di una delle numerose organizzazioni armate che flagellano il continente - in particolare l'Italia, dove trascorrono dodici giorni di sole assolutamente indimenticabili, e la Germania, territorio in cui si guardano bene dal mettere piede, non per timore della banda Baader-Meinhof quanto per un rifiuto viscerale di tutto quel che è tedesco, a cominciare da quegli osceni salsicciotti con la pelle bianchiccia -, che sembrano essere i principali sinistri contemplati dalle compagnie assicurative quando si tratta di stipulare una polizza vita, spendono buona parte dei soldi che toccherebbero a lui se non avessero la fortuna che hanno, si accorge di certe strane parentesi violacee che le sono comparse nella zona delle tempie e sotto gli occhi, come se minuscoli capillari le fossero esplosi sotto la pelle, spargendo fili di un inchiostro nerorossastro. La vede e pensa a una botta, a una frenata brusca in macchina, come se avesse sbattuto contro qualcosa e la montatura degli occhiali le si fosse piantata nella faccia. Si astiene dal fare domande, in parte perché non riesce a riaversi dallo stupore di rivederli sani e salvi, e nel giorno stabilito, dopo averli immaginati vittime di ogni genere di disastri mortali, e in parte perché sa molto bene che se c'è una cosa che sua madre non tollera sono le domande o i commenti sul suo aspetto fisico che lei stessa non abbia esplicitamente sollecitato o non abbia formulato lei stessa per prima. Lo sa da sempre, dal pomeriggio in cui, steso vicino a lei sulla spiaggia a Mar del Plata - lei su un fianco, unta di un olio abbronzante che sembra verniciarla da cima a fondo, la testa appoggiata su un braccio disteso e la bretellina del costume abbassata fino a metà dell'altro braccio, lui irrequieto, incapace di trovare una posizione che gli permetta di sottoporsi con relativa comodità alla condanna atroce della siesta, con annesso divieto del bagno in mare e di ogni attività fisica -, scopre l'estremità lucente, come d'argento, di una cicatrice che le spunta in diagonale dal pezzo di sotto del costume e gli viene spontaneo chiederle come se la sia fatta, e sua madre, senza una parola, si mette a pancia in giù e volta la testa dall'altra parte, il gesto di chi, dormendo, elude il debole atto di sabotaggio tentato dal mondo sveglio e continua sdegnosamente per la sua strada. È così: scopre la bellezza di sua madre nel momento stesso in cui la vede in pericolo, così come si scopre la perfezione del giorno solo quando una nube nerastra, strisciando verso il sole con lentezza da rettile, tinge di timore l'azzurro elettrico del cielo. Ma non è solo questione di quei grappoli violacei che le si addensano intorno agli occhi. C'è qualcosa, nel volto di sua madre, legato a quelle macchie, probabilmente, ma più generale, e più indefinibile, che pare averla esclusa dal mondo pieno, sovrano, arrogante in cui la sua bellezza le dava diritto di cittadinanza: una specie di timore glaciale, molto più glaciale della bellezza, che ha preso dimora in lei e la fa fremere.

È allora, infatti, che la vede tremare per la prima volta. Fruga nella borsetta alla ricerca delle chiavi e come le trova le lascia cadere, e per una frazione di secondo se ne sta immobile, perplessa, la mano colpevole a mezz'aria, come scossa da uno sciame di piccole scariche elettriche. Ogni viaggio verso un bicchiere di vino diventa instabile e impervio, compilare un assegno non è più il gioco da bambini che era. Raramente alza il telefono senza prima far ballare la cornetta sulla forcella, quindi si gira e nasconde il tremito della mano col corpo, come per proteggerlo da sguardi di scherno.

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Dovrà aspettare anni (l'ingresso di suo padre nell'ultima fase della vita, l'ultima in senso stretto, nel senso di «fase ospedaliera», perché come entra in clinica e vede la corte di medici e infermieri mulinargli intorno - lui che è già tanto se è entrato in uno studio medico due volte in settantadue anni, e in entrambi i casi per ragioni che con la salute hanno poco a che vedere, farsi pagare due voli per Cancún nel primo caso e riscuotere un debito di poker nel secondo - sa che non c'è ritorno possibile, che da quella fase uscirà solo con i piedi in avanti) per scoprire le vere ragioni di quel comportamento. È vero che gli vengono da lui, dalla sua bocca, una notte in cui gli tocca montare la guardia al suo capezzale, ma non è esattamente suo padre a rivelargliele. In ogni caso, non è lo stesso uomo che una settimana prima arriva in clinica di propria iniziativa. È molto stanco, madido di sudore. Ha le cosce attanagliate da un dolore che non conosce e la pressione alle stelle, ma anche l'energia per scendere dal taxi senza interrompere il sermone calcistico-politico - un ibrido che gli riesce benissimo, ma al quale la sua pressione arteriosa è particolarmente sensibile - con cui ha martirizzato il tassista per tutta la corsa. Prova del fatto che è ancora perfettamente in sé è il modo in cui reagisce al malessere che lo coglie in strada, ultimo di una serie di episodi che ha tenuto segreti: andare immediatamente in clinica, decisione nel suo caso assai insolita, tanto è proverbiale il suo disprezzo per l'ambiente sanitario e la salute - o la superbia - che gli hanno permesso fino ad allora di farne a meno e, una volta in clinica, confinato su una sedia a rotelle che prima respinge e prestissimo lo appassiona, come uno stupido gioiello adulto appassiona il bambino bilioso che scopre quale uso può farne a danno dei suoi legittimi proprietari, osteggiare le misure proposte dai medici per stabilizzarlo, dar loro degli incapaci e scappare a bordo della sedia a rotelle lanciandosi a tutta velocità sulle rampe del pronto soccorso. Tra l'uno e l'altro, tra l'uomo collerico e irrefrenabile che si addentra motu proprio nella cittadella medica per farne ammattire gli abitanti e lo spettro dagli occhi vitrei che improvvisamente, nel reparto di terapia intensiva dove rimarrà per quasi due settimane, comincia a ricordare tutto ad alta voce - che non era mai stato sicuro di riuscire a recuperare il suo denaro, quante volte, in quei dieci giorni, era stato sul punto di chiamarlo e confessargli di aver perso tutto, e quante, non sentendosela di affrontarlo, aveva pensato di sparire definitivamente -, ci sono un intervento di angioplastica al quale si consegna con un'allegria contagiosa e aggressiva, la disastrosa crisi coronarica acuta che ne risulta e le quasi cinque ore di intervento a cuore aperto, cinque ore di macelleria brutale dalle quali nessuno è in grado di dire come verrà fuori, se avrà la fortuna di venirne fuori, e dalle quali finisce per venir fuori con le funzioni vitali al minimo, intubato, il torace segato dalla gola al diaframma stretto in un busto di bende che non tarda a inzupparsi di sangue.

Tocca a lui fargli compagnia quella notte, tre o quattro giorni dopo l'operazione, quando l'infermiera gli annuncia con un sorriso da un orecchio all'altro che gli hanno tolto il respiratore per vedere se può farcela da solo. È andato in clinica un po' per fare qualcosa, un po' perché non riesce a fare nient'altro, non perché serva realmente. Lo lasciano stare nella stanza solo a intervalli, mezz'ora ogni due ore. Il resto del tempo lo passa in sala d'attesa, a leggere sotto una luce insufficiente e a dormicchiare sulla sedia, sorpreso e invidioso dell'attrezzatura da campeggio - termos, coperte, minifrigo di plastica, giochi da tavolo, una lampada portatile - di cui dispongono i suoi vicini, più previdenti o esperti di lui in materia di ricoveri. Non c'è nulla che desideri di più che stare in quella stanza. Appena ne esce, incalzato da un'infermiera che gli ricorda lo scadere del tempo di visita, alla luce fioca della sala d'attesa l'oscurità stellata e palpitante nella quale suo padre dorme supino gli pare una specie di strano paradiso, un regno fresco, moderno, pieno di emozioni meccaniche e intrattenimenti elettronici. Un'ora e mezza dopo, quando lo lasciano entrare di nuovo, non prova altro che un senso di desolazione: tristezza, impotenza, una noia pesantissima che lo dissangua. Non c'è niente che possa fare. Vorrebbe toccare suo padre ma non sa dove, tanto i tubi, le cannule e i cavi gli sbarrano ogni accesso al suo corpo. E se sapesse dove, non è nemmeno sicuro che lo toccherebbe. Lo atterrisce l'idea che un gesto, e ancor più un gesto d'amore, possa alterare irreversibilmente l'equilibrio delicatissimo che lo tiene in vita. Neppure sedie, ci sono, in terapia intensiva - tutto è stato pensato per scoraggiare il visitatore -, e allora si assopisce in piedi, col libro che non leggerà, perché la luce non basta, stretto tra le mani.

A un certo punto gli pare di udire qualcosa che proviene da suo padre, la scia di una frase umana, e apre gli occhi. Quando gli viene in mente che può averla sentita in sogno, da uno degli addetti alle pompe funebri sorridenti e azzimati con i quali gli tocca conversare ultimamente quando sogna, vede suo padre aprire appena la bocca e muovere la testa sul cuscino, un movimento lento, tipico di un corpo dimentico di sé, ma percettibile. Si avvicina e si china su di lui. Alito cattivo, farmaci, sudore, disinfettante: gli è difficile sopportare l'odore che emana dal suo corpo. Lo vede deglutire con difficoltà e imbeve nel bicchiere d'acqua accanto al letto un quadrato di garza con cui gli inumidisce le labbra. Un respiro profondo, quasi un moto di fastidio e suo padre riaffonda nel buio. Non lo ha mai visto così pallido. La pelle del viso sembra talmente sottile da potersi lacerare solo a sfiorarla con un'unghia. Come un bacio clandestino, un ematoma gli macchia di viola un lato del collo. Si scosta un po', solo per tornare a percepire la forma generale del suo volto, e quando lo mette a fuoco fa un salto indietro, schiaffeggiato dalla sorpresa. Suo padre ha aperto gli occhi e lo guarda. Per un attimo non sa cosa pensare. È tornato in sé? Sta morendo? Poi, come se riprendesse la frase perduta, e la lingua oscura e rugginosa in cui l'ha pronunciata, suo padre emette un suono lungo, strascicato, una specie di sospiro sonoro zigzagante nell'aria che di colpo, a metà strada, come punto da un'urgenza improvvisa, si articola bruscamente in una parola, in due parole che si attraggono, nitide, e parla.

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