Autore Claudio Pavone
Titolo La mia resistenza
SottotitoloMemorie di una giovinezza
EdizioneDonzelli, Roma, 2015, Saggine 256 , pag. 110, cop.fle., dim. 11,4x16,7x0,8 cm , Isbn 978-88-6843-231-7
LettoreDavide Allodi, 2016
Classe paesi: Italia: 1940 , biografie , storia contemporanea d'Italia












 

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Roma



Nella primavera del 1943, avendo ottenuto, a causa della morte di mio padre, una lunga licenza dal servizio militare che stavo svolgendo nella Guardia alla frontiera a Malles in Val Venosta, ero tornato a Roma. Mentre con gli amici continuavamo a discutere la situazione e maturavamo un desiderio di agire contro il fascismo che non trovava sbocco, cercando collegamenti difficili da stabilire, dovevo anche trovare un lavoro. Riuscii a procurarmi un modesto impiego presso la Confederazione degli industriali, in virtù del ricordo lasciato da mio padre, avvocato, che ne era stato un funzionario: ero addetto al servizio di controllo della macinazione per conto di terzi.

Ai primi di luglio fui inviato a fare ispezioni a Firenze e a Forlì, dove i due direttori della Unione fascista degli industriali della provincia, cui era affidato il controllo dei mulini, non solo si mostravano fiduciosi nella immancabile vittoria, ma apparivano tranquilli e sicuri della stabilità del regime in cui erano vissuti e che era l'unico reggimento politico che conoscevano. D'altra parte, era presente in questi funzionari il senso oscuro dell'avvicinarsi di una generale resa dei conti e per loro costituiva quasi un rifugio il proseguire nelle abituali incombenze della vita quotidiana.

Tornato a Roma verso la metà di luglio, poiché mia madre e le mie sorelle erano partite come ogni anno per la nostra casa di famiglia a Torchiara, in provincia di Salerno, ero andato ad abitare da solo in casa di parenti sfollati, a via Properzio in Prati, zona vicina al Vaticano e quindi ritenuta più sicura dai bombardamenti.

La sera del venticinque, sentii il rumore di gente che passava per la strada vociando.

Mi affacciai alla finestra e vidi due uomini di mezza età che allargavano le braccia come chi si è tolto un peso di dosso gridando «finalmente!». Mi precipitai in strada e mi accodai ai molti altri che camminavano gridando. Questo fu il modo in cui appresi la caduta di Mussolini.

Il gruppo cui mi ero unito sboccò in via Cola di Rienzo e si fuse con altri analoghi gruppi. Si formò un corteo che venne sempre ingrossandosi e si diresse verso il centro della città. Tutti urlavano qualcosa, imprecazioni al fascismo e invocazioni alla pace e alla libertà. Io mi misi a gridare «Fuori i tedeschi dall'Italia!», ma ebbi poco seguito: quel grido introduceva una nota di preoccupazione in un'atmosfera che era di giubilo collettivo. Passato il ponte Margherita, qualcuno gridò: «Andiamo a rendere omaggio a Ciceruacchio!».

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Nel giugno 1943 aveva iniziato le pubblicazioni mensili il bollettino «Popolo e Libertà», che poi le continuò con la sigla del Pil. Nel primo numero compariva il manifesto «Ai migliori degli Italiani in cui erano presenti alcuni caratteri del Pil quale io poi lo conobbi: necessità di eliminare l'intera classe dirigente italiana, compresa la porzione che si avviava a passare all'antifascismo, fiducia solo «nei giovani e nel popolo», vittime del fascismo che li aveva ingannati, che stavano ormai aprendo gli occhi. Forte era l'accento moralistico che rischiava di sfociare nell'elitarismo, mostrando qualche affinità con quello riscontrabile in alcuni documenti liberali coevi, temperato tuttavia dalla fiducia nei giovani e nel popolo, dove «giovani» sottolineava la contrapposizione generazionale e «popolo» non significava un atteggiamento populistico ma stava ad indicare che le ferme dichiarazioni di socialismo contenute nel manifesto non si riferivano soltanto al proletariato.

Il neonato Pil si divise subito in due gruppi. In Romagna rimase la base popolare ereditata dalla Uli, sotto la guida dell'intellettuale ed ex ufficiale di carriera Giusto Tolloy; a Milano il gruppo dei giovani intellettuali sotto la guida del più anziano Rino Spada, di origine popolare, già esule in Francia e già militante nell'Uli. Di fatto a Milano l'impronta la davano gli intellettuali, anche se non mancavano alcuni operai, soprattutto della Breda (con i «ragazzi di Sesto» aveva un rapporto speciale Delfino). Ritrovai nel gruppo i due vecchi amici romani Piero e Lucio D'Angiolini e vi conobbi Giancarlo De Carlo con la sua compagna Giuliana e Carlo Doglio con la sua compagna Diana, con i quali ho poi mantenuto saltuari rapporti. Giancarlo e Giuliana erano considerati i belli del partito.

[...]

Nel Pil essere contro la religione, tutte le religioni, era dato per scontato, era parte integrante della coscienza comune. Delfino era uno dei più accaniti. Nel giornaletto ciclostilato che redigeva quasi da solo per i «ragazzi di Sesto» comparivano suoi disegni con il titolo «la Rivoluzione» raffiguranti un proletario che spazza via con disprezzo corone reali, fasci littori, svastiche, crocifissi, calici, preti, capitalisti con il cilindro in testa.

Nella breve esperienza romana con il Psiup il problema religioso era rimasto un fatto privato fra Lopresti e me. Colorni non era certo un credente, e con lui si parlava di Leibniz, non di Gesù Cristo. La linea del Psiup, come quella del Pci, era di non sollevare questioni religiose per non creare divisioni fra i militanti e, in generale, nella base popolare. Nel Pil trovai invece un clima del tutto diverso: il radicalismo politico trascinava con sé quello religioso e quindi la discussione sui massimi problemi. Io ne rimasi turbato e insieme affascinato: i miei patemi d'animo, i miei dubbi, le mie incertezze venivano allo scoperto e reclamavano una soluzione.

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Col passare del tempo mi renderò conto che non è tanto semplice liberarsi di tutti i sedimenti accumulatisi negli anni della prima giovinezza nella mente, nel cuore e nel costume. Oggi riconosco la vischiosità di tante esperienze adolescenziali nutrite di paure, di speranze e di desiderio di sincerità. Se il Pil occupa ancora tanto spazio nella mia memoria, è anche perché rappresentò per me uno di quei rari momenti felici creati dalla conquista di un pieno accordo con se stessi. La Resistenza fu per molti anche questo, quali che siano stati i percorsi in essa compiuti, ed il mio fu certo contorto e abbastanza atipico.

Il Pil aveva un complesso corpo di dottrine e di norme che non so quanti di noi conoscessero bene. Io fui attratto soprattutto dal radicalismo che sconfinava nell'utopia. L'utopia come aspirazione al massimo era scarsamente presente nei programmi dei partiti resistenziali, con una parziale eccezione per l'ala consiliaristica e giacobina del Partito d'Azione che io allora non conoscevo, ma quell'aspirazione albergava nel petto di molti resistenti e ne costituiva l'ispirazione di fondo. Solo così, del resto, era possibile affrontare rischi, sofferenze e sacrifici e mettere in gioco la propria vita. Il dover essere quale era prospettato dal Pil era molto alto e attingeva a fonti disparate. Marx, Lenin, Mazzini, Croce venivano spesso citati, quasi a significare la necessaria fusione di radicalismo sociale, coerenza rivoluzionaria, ideali risorgimentali e repubblicani, culto della libertà. Eravamo tutti giovani che pensavano insieme all'Italia — chi la ridusse a tale? — e al mondo oppresso dal capitalismo che aveva generato imperialismo, fascismo, nazismo, guerra e corruzione. Dicevamo che la proprietà privata è ostacolo alla libertà e fonte di disuguaglianze. Eravamo convinti che andava eliminata la subordinazione della donna all'uomo che fa di lei «uno strumento di piacere o un animale da lavoro». Il divorzio doveva andare di pari passo con la repressione dell'adulterio. Quest'ultima proposizione, presente nella Dichiarazione fondamentale del partito, era una probabile eco del passo del Manifesto del Partito Comunista in cui si ironizza sui borghesi che «usano [...] di tenere per loro principalissimo spasso quello della mutua seduzione delle consorti loro», ma esprimeva anche l'ideale di un rapporto fra i sessi privo di ipocrisie. Inoltre i medici dovevano curare non per guadagno ma per dovere; il sistema carcerario andava trasformato in una scuola di rieducazione per mezzo del lavoro; dovevano identificarsi economia ed etica, «livellamento marxista e carità cristiana, uguaglianza democratica e umanità liberale». Insomma ce n'era abbastanza per attrarre le aspirazioni radicali di giovani che volevano cambiare il mondo ed erano poco inclini alla coerenza teorica.

Tuttavia due elementi mettevano a dura prova questo quadro: la progettazione di norme ad esso congrue, la linea politica da seguire nella situazione in cui ci si muoveva.

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Andai a piazzale Loreto. Oggi non è facile separare l'impressione avuta allora da quelle indotte poi dal molto che si è scritto e discusso, anche da parte mia, su quel macabro spettacolo. La piazza era colma di gente di ogni ceto, ed era difficile comprendere cosa davvero albergasse in tutti quei petti. C'era nel fondo la soddisfazione della palese fine della guerra e del fascismo, ma su di essa si innestavano sentimenti che andavano dal ricordo dei cadaveri dei partigiani fucilati dai fascisti e lasciati sul selciato proprio in quel piazzale alla soddisfazione di vedere puniti i colpevoli, dall'odio e dal disprezzo contro di essi fino a una sorta di festosità, di mera curiosità o addirittura di fatuità. Mi trovai accanto a una signora borghese, al braccio del marito, che diceva: «Però, che belle gambette aveva la Petacci!». Il mio moralismo e il mio estremismo rivoluzionario o presunto tale mi condussero a pensare che quella folla che non aveva saputo fare la rivoluzione non era degna della tragicità di quello spettacolo e che proprio questo gli dava un senso, oltre che macabro, riprovevole.

Non ho di quei giorni molti ricordi precisi, ma mi è rimasta nettissima nella memoria l'atmosfera generale ed esaltante di una città che ritrovava la gioia di vivere e la manifestava in mille modi, dall'andare in bicicletta al fare il bagno all'Idroscalo e al piacere di passare la notte camminando, discutendo e cantando in giro per la città, dove l'efficienza del Comune di Milano aveva subito provveduto a riattivare l'illuminazione pubblica. Si ballava nelle piazze e nelle strade con un'allegria che rivelava la soddisfazione di potersi finalmente divertire.

Appariva naturale prendere una bicicletta incustodita e lasciarla incustodita una volta arrivati a destinazione: sembrava una forma di elementare comunismo. Colpiva l'aspetto assai poco marziale con cui i soldati americani giravano per la città. «Non sembrano soldati», diceva la gente, e qualcuno aggiungeva: «Che soddisfazione che abbiano battuto i tedeschi signori della guerra!». Risorgeva l'attività politica alla luce del sole e per quelli della mia generazione era una entusiasmante novità. Andai al comizio di Pertini per il primo maggio presso l'Arena e, a parte il tono del discorso che mi parve un po' arcaico, era bello vedere tanta gente venuta di propria volontà. Germogliavano le iniziative culturali, e la sede del «Politecnico» di Vittorini in viale Tunisia stava diventando un centro di richiamo e di scambio.

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