Autore David Peace
Titolo Tokyo riconquistata
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2021, La Cultura 1468 , pag. 510, cop.fle., dim. 14,4x21,3x3,5 cm , Isbn 978-88-428-2898-3
OriginaleTokyo Redux [2020]
TraduttoreMarco Pensante
LettoreGiorgio Crepe, 2021
Classe gialli , thriller , paesi: Giappone












 

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Il primo giorno
5 luglio 1949



L'Occupazione aveva il doposbronza, ma l'Occupazione andava lo stesso al lavoro: macchie di barba grigia e chiazze umide di sudore, tacchi e suole su per le scale e giù per i corridoi, sciacquoni tirati e rubinetti aperti, porte che si aprivano e porte che si chiudevano, armadietti e cassetti, finestre spalancate e ventilatori che giravano, penne stilografiche che grattavano e tasti di macchine da scrivere che battevano, telefoni che squillavano e voci che chiamano: È per te, Harry.

Al quarto piano del Palazzo della Nyk, nell'enorme ufficio della Stanza 432, Divisione pubblica sicurezza, Harry Sweeney girò le spalle alla porta, tornò alla sua scrivania, annuì per ringraziare Bill Betz, gli prese di mano il ricevitore, se lo portò alla bocca e all'orecchio e disse, Pronto.

Investigatore di polizia Sweeney?

Sì, sono io.

Troppo tardi, sussurrò una voce d'uomo giapponese, poi la voce svanì, la linea tacque, il collegamento cadde.

Harry Sweeney rimise il ricevitore nella sua forcella, prese una penna dalla scrivania, guardò l'orologio, poi segnò data e ora su un taccuino di carta gialla: 9.45 - 05/07. Prese il telefono e disse alla centralinista: Ho appena perso una chiamata. Mi può trovare il numero?

Attenda un minuto, prego.

Grazie.

Pronto. Gliel'ho trovato, signore. Vuole che provi a chiamarglielo?

Sì, per favore.

Sta suonando in questo istante, signore.

Grazie, disse Harry Sweeney, ascoltando il suono del campanello telefonico, e poi...

Caffetteria Hong Kong, disse una voce di donna giapponese, pronto? Pronto?

Harry Sweeney rimise giù il ricevitore. Riprese la penna. Scrisse il nome della caffetteria sotto la data e l'ora. Poi andò alla scrivania di Betz: Ehi, Bill. Sai quella chiamata di poco fa? Cosa ha detto?

Ha solo chiesto di te. Perché?

Di nome?

Si, perché?

Niente. Ha riattaccato e basta.

Magari l'ho spaventato? Scusa.

No. Grazie di avere risposto.

Hai trovato il numero?

Una caffetteria, la Hong Kong. La conosci?

No, ma forse Toda sì. Chiedi a lui.

Non è ancora arrivato. Non so dov'è.

Scherzi, disse Bill Betz ridendo. Non dirmi che quello stronzetto è a casa col doposbronza.

Harry Sweeney sorrise: Come tutti i bravi patrioti. Non importa, lascia stare. Forse era un matto. Devo andare.

Fortunato. Dove vai?

A incontrare i compagni scesi dall'Espresso Rosso. Ordini del Colonnello. Vuoi venire anche tu a sentire un po' di canti comunisti?

Mi sa proprio che resto qui al fresco, rise Betz. I rossi li lascio a te, Harry. Sono tutti tuoi.

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Troppo tardi, gridò Harry Sweeney, di nuovo completamente sveglio, gli occhi di nuovo aperti, tirandosi su dritto con il cuore che batteva, rivoli di saliva sul mento e di sudore sul petto. Cristo.

Scusi, signore, disse l'autista. Siamo arrivati.

Harry Sweeney si asciugò la bocca e il mento, si staccò la camicia dalla pelle guardando fuori dai finestrini: l'autista aveva accostato sotto il ponte ferroviario tra il mercato e la stazione, la macchina era circondata di gente che camminava in tutte le direzioni, l'autista guardava nervoso nello specchietto, fissando il passeggero.

Harry Sweeney sorrise, gli strizzò l'occhio, poi aprì la portiera e scese dalla macchina. Si chinò a parlare all'autista: Aspetta qui, ragazzo. Per tutto il tempo che sto via.

Si, signore.

Harry Sweeney si asciugò di nuovo la faccia e il collo, mise il cappello e recuperò le sue sigarette. Ne accese una per sé e ne passò due all'autista dal finestrino aperto.

Grazie, signore. Grazie.

Prego, ragazzo, disse Harry Sweeney, poi si infilò tra la calca, diretto alla stazione, tra la gente che gli faceva spazio appena lo vedeva: un americano alto, bianco...

L'Occupazione.

Entrò nel salone cavernoso della stazione di Ueno, con la sua calca di corpi e valigie, con la sua nebbia di calore e fumo, con il suo tanfo di sudore e sale, andò diritto agli ingressi. Mostrò il distintivo della Dps al controllore e andò ai binari. Vide le bandiere rosso fiammante e gli striscioni dipinti a mano del Partito comunista giapponese e capì qual era il suo binario.

Harry Sweeney si fermò al binario, tenendosi tra le ombre, asciugandosi la faccia e il collo, usando il cappello come ventaglio, fumando sigarette e cacciando le zanzare, spiccando in altezza sulla calca in attesa di donne giapponesi: madri e sorelle, mogli e figlie. Guardò il treno lungo e nero che arrivava. Sentì la calca alzarsi in punta di piedi, poi lanciarsi verso i vagoni del treno. Vedeva le facce degli uomini ai finestrini e alle porte dei vagoni; le facce degli uomini che avevano passato quattro anni da prigionieri di guerra in Siberia meridionale; quattro anni di confessioni e contrizioni, quattro anni di rieducazione e indottrinazione; quattro anni di lavori forzati, brutali e spietati. Quelli erano i privilegiati, i fortunati; quelli che non erano stati massacrati in Manciuria nell'agosto 1945; quelli che non erano stati obbligati a combattere e morire per l'una o l'altra delle fazioni cinesi; quelli che non erano morti di fame nel primo inverno postbellico; quelli che non erano morti nell'epidemia di vaiolo dell'aprile 1946, o di tifo in maggio, o di colera in giugno; quelli erano alcuni del milione e 700 mila privilegiati caduti nelle mani dell'Unione Sovietica; alcuni del milione di estremamente fortunati che i sovietici avevano deciso di rilasciare e rimpatriare.

Harry Sweeney guardò i fortunati scendere dal treno lungo e nero tra le braccia e le lacrime delle loro madri e sorelle, delle mogli e delle figlie. Vide che avevano occhi inespressivi, pieni d'imbarazzo o rivolti indietro a cercare i camerati. Vide i loro occhi allontanarsi dalle famiglie e trovare i camerati. Vide le loro labbra muoversi, iniziare a cantare. Guardò le madri e le sorelle, le mogli e le figlie indietreggiare dai loro figli e fratelli, dai loro mariti e padri, fare un passo indietro e rimanere in silenzio, ora con le mani lungo i fianchi, le lacrime ancora sulle guance, mentre il canto dei loro uomini si faceva sempre più forte.

Harry Sweeney conosceva quella canzone, le parole e la melodia: l' Internazionale.

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Dove cazzo sei stato, Harry, dove cazzo eri finito tutto questo tempo, sussurrò Bill Betz nell'istante in cui Harry Sweeney varcò la soglia della Stanza 432, prendendolo per un braccio e riaccompagnandolo fuori dalla porta e in corridoio. Shimoyama è scomparso e qui sta andando tutto a puttane.

Shimoyama? Quello delle ferrovie?

Sì, quello delle ferrovie, quel cazzo di Presidente delle ferrovie, sussurrò Betz fermandosi davanti alla porta della Stanza 402. Il Capo è lì dentro col Colonnello. Hanno chiesto di te. È un'ora che chiedono di te.

Betz bussò due volte alla porta dell'ufficio del Colonnello. Sentì una voce gridare «Avanti», apri la porta ed entrò precedendo Harry Sweeney.

Il Colonnello Pullman era seduto alla sua scrivania di fronte al Capo Evans e al Tenente colonnello Batty. C'era anche Toda, in piedi dietro il Capo Evans, un bloc-notes giallo acceso nella mano. Si guardò intorno e salutò Harry Sweeney con un cenno del capo.

Scusi il ritardo, signore, disse Harry Sweeney. Ero alla stazione di Ueno. Stavano arrivando gli ultimi rimpatriati.

Be', almeno adesso è qui, disse il Colonnello. Una persona scomparsa in meno. Il signor Betz le ha detto cosa è successo?

Solo che il Presidente Shimoyama è scomparso, signore.

Siamo venuti subito qui, signore, disse Betz. Appena il signor Sweeney è rientrato.

Be', non è che ci sia molto altro da dire, disse il Colonnello. Signor Toda, sarebbe così gentile da riassumere al suo collega investigatore il poco che sappiamo.

Signorsì, disse Toda, abbassando gli occhi per leggere dal suo blocco giallo: Appena passate le ore 1300, ho ricevuto una chiamata da una fonte affidabile alla Centrale di polizia metropolitana, secondo la quale Sadanori Shimoyama, Presidente delle Ferrovie nazionali giapponesi, sarebbe scomparso stamattina presto. Ho poi avuto conferma che il signor Shimoyama è uscito di casa a Denen Chofu intorno alle ore 0830, diretto al suo ufficio di Tokyo, ma da quel momento non si hanno più notizie. Era su una berlina Buick del 1941, numero di targa 41173. La macchina è di proprietà delle Ferrovie nazionali e alla guida c'era l'autista personale del signor Shimoyama. In seguito la mia fonte mi ha detto che il Dpm è stato informato della sparizione circa verso le ore 1300 e che da un controllo della polizia non risulta che il veicolo sia stato coinvolto in incidenti. La sparizione ci è stata notificata ufficialmente un'ora fa, alle ore 1330, e ci è stato comunicato che tutti gli agenti della polizia giapponese sono stati informati e si stanno adoperando in ogni modo per trovare il Presidente Shimoyama. Per quanto ne sappiamo, né i giornali né le stazioni radio ne sono al corrente, non ancora.

Grazie, signor Toda, disse il Colonnello. Okay, signori. Per cominciare, abbiamo un brutto presentimento. Ieri, come senza dubbio saprete, Shimoyama ha autorizzato personalmente l'invio di più di trentamila avvisi di licenziamento, e altri settantamila e rotti sono previsti per la prossima settimana. Stamattina non si presenta al lavoro. Fate due passi per qualsiasi strada di questa città, guardate qualsiasi muro o lampione, e ci vedrete manifesti che dicono SHIMOYAMA DEVI MORIRE, è esatto, signor Toda?

Signorsì. È esatto, signore. La mia fonte mi ha anche riferito che il Presidente Shimoyama è stato minacciato più volte da vari dipendenti contrari ai licenziamenti di massa e al programma di tagli salariali, signore, e che ha ricevuto numerose minacce di morte.

Ci sono stati arresti?

No, signore, non per quanto io sappia, signore. Mi risulta che le minacce siano tutte anonime.

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Merda, imprecò Harry Sweeney in una cabina telefonica nell'ingresso dell'Hotel Dai-Ichi. Riattaccò la cornetta e uscì dalla cabina. Andò in fondo al salone e diede il cappello alla ragazza del guardaroba. La ragazza giapponese gli diede uno scontrino e si inchinò. Harry Sweeney sorrise, la ringraziò, poi si voltò e scese le scale per il bar nel seminterrato. Luci soffuse e voci rumorose. Voci straniere, voci americane. Americani che giocavano a poker in un angolo, americani che giocavano a ping-pong in un altro, americani che cantavano Roll Me Over in the Clover, americani che battevano le mani e americani che cantavano; americani che bevevano, americani ubriachi. Harry Sweeney prese uno sgabello al banco e salutò il barista giapponese con un cenno del capo. Con la suà camicia bianca e il farfallino nero, il barista si avvicinò: Cosa prendi, Harry?

Il solito, per favore, Joe, disse Harry Sweeney.

Joe il barista mise un bicchiere sul banco davanti a Harry Sweeney. Prese una bottiglia di Johnnie Walker. Riempì il bicchiere: Anche stavolta non dici quando, Harry?

Sono fatto così, Joe. Niente ghiaccio, niente soda, niente quando.

Joe il barista riempì il bicchiere fino all'orlo. Posò la bottiglia. Disse: È arrivata e andata, Harry.

Harry Sweeney annuì. Allungò la mano verso il bicchiere. Lo strinse fra le dita. Si allungò in avanti, chino sul bicchiere. Sorrise e annuì un'altra volta.

Joe il barista scosse la testa: E non la troverai lì dentro, Harry. Lo sai.

Ma cercare non fa male, giusto, Joe?

Joe scosse la testa un'altra volta.

Una donna giovane vestita di rosso attraversò tutta la lunghezza del bar. Aveva occhi grandi, un gran naso e fumava una sigaretta, tenendo in mano un bicchiere. Posò il bicchiere sul banco vicino a Harry Sweeney, mise la mano sullo sgabello vicino a quello di Harry Sweeney e disse: Aspetta compagnia?

Cerco di non aspettarmi niente, disse Harry Sweeney.

Ma le andrebbe?

Mi andrebbe cosa?

Un po' di compagnia?

Dipende dalla compagnia.

La donna sedette sullo sgabello, si girò e allungò la mano verso Harry Sweeney. Aveva la bocca larga, labbra carnose. Sorrise e disse: Gloria Wilson.

Harry Sweeney.

Lo so, disse Gloria Wilson. Siamo vicini di casa.

Ma non mi dire.

Lo dico sì, rise Gloria Wilson. Lei sta al quarto piano, io al terzo. Al palazzo della Nyk.

Ma pensa un po'.

No, disse Gloria Wilson. Il mondo è piccolo, non le pare, signor Sweeney? Questo mondo. Ed è tutto il mondo di Sir Charles. Siamo tutti figli suoi. Lei, io e tutti quanti. Siamo tutti figli suoi, signor Sweeney.

Dovrebbe stare più attenta, signorina Wilson. I muri hanno le orecchie. Al Generale non piacerebbe sentirla parlare così. Potrebbe offendersi.

Non ho alcun dubbio, signor Sweeney. Ma se è per quello non gli piacerebbe neanche il colore del mio vestito, vero o no? Si offenderebbe anche per quello. Si offende per niente. Pover'uomo.

Harry Sweeney annuì verso Joe il barista: Joe, per favore, porta alla signora un altro di quello che sta bevendo.

Spero non voglia intendere che sono un'ubriacona, signor Sweeney, disse Gloria Wilson. Perché non è così.

Harry Sweeney scosse la testa: Per niente, signorina Wilson. È solo quello che dalle mie parti si chiama essere cordiali.

E dove sarebbero le sue parti, signor Sweeney?

Nel Montana.

Billings? Missoula? Helena?

No.

Great Falls? Butte?

No.

Be', sono proprio confusa, signor Sweeney. Ha vinto.

Non proprio, disse Harry Sweeney. Anaconda.

Dev'essere bellissimo. Il Grande Cielo.

Non è mai stata nel Montana.

No, ma mi piacerebbe.

Cosa glielo fa pensare?

Oh, non c'è motivo, sospirò Gloria Wilson. Penso nessun motivo se non che almeno non è Muncie, Indiana.

È così brutto Muncie nell'Indiana?

Sì, rise Gloria Wilson. È così brutto.

Be', allora da quanto è scappata da Muncie, Indiana?

Forse anche troppo.

Troppo? Allora vuole tornare a casa?

No, signor Sweeney, disse Gloria Wilson. Non voglio tornare a casa. Certe volte sogno di essere a casa, a Muncie. Ma poi, quando mi risveglio, quando apro gli occhi e vedo la mia camera, sono tanto felice di non essere affatto tornata a Muncie. Sono tanto sollevata di essere ancora qui, qui a Tokyo.

Nel Regno di Sir Charles?

Be', mica si può avere tutto, le pare, signor Sweeney? Non sarebbe giusto.

Ma si sente in colpa perché non vuole tornare a casa.

Sì, signor Sweeney, è vero! Mi sento tanto in colpa.

Harry Sweeney alzò lentamente il bicchiere, facendo attenzione a non versare il whiskey: Piacere di conoscerla, signorina Wilson.

Gloria Wilson alzò il bicchiere, toccò quello che Harry Sweeney teneva in mano, sorrise e disse: Piacere di conoscerla anche per me, signor Sweeney.

Brindiamo al non essere a Muncie o ad Anaconda, disse Harry Sweeney, toccando piano il bicchiere un'altra volta, poi posando di nuovo con attenzione il suo sul banco.

Sicuro! Ma lei non beve?

Di questi tempi guardo e basta.

Si vedono succedere tante cose, rise Gloria Wilson.

Più di quante immagina.

Ma non le spiace se bevo io?

Se non lo facesse mi spezzerebbe il cuore, signorina Wilson.

Allora lo farò senz'altro, disse Gloria Wilson. Bevve un sorso dal bicchiere, e poi un altro: Anche solo per non spezzarle il cuore, signor Sweeney.

Molto gentile, signorina Wilson. Grazie.

Non è tanto vero, disse Gloria Wilson. Ma grazie di averlo detto. E la prego, mi chiami Gloria, signor Sweeney.

Allora lei mi chiami Harry, se non le spiace.

Per niente, Harry. Lei è famoso.

Per cosa, signorina Wilson? Scusi, Gloria.

Adesso mi sta prendendo in giro, Harry Sweeney. Lo sa benissimo per cosa. Era sui giornali. Lei è l'uomo che sta spazzando via le loro gang. Lo sanno tutti.

Non dovrebbe proprio credere a tutto quello che legge, disse Harry Sweeney. E invece lei, Gloria? Lei cosa fa, Gloria? Giù al terzo piano?

Be', niente di emozionante o fascinoso come lei, Harry, rise Gloria Wilson. Sono una Miss Bibliotecaria qualunque. Nel reparto di Storia. Sono una piccola noiosetta.

Ne dubito molto, disse Harry Sweeney. Di sicuro non ho mai visto una bibliotecaria vestita come lei. Non nel Montana.

Gloria Wilson rise: E neanche a Muncie, Indiana. Poi indicò con un cenno del capo i giocatori di poker nell'angolo: Ma stiamo passando una serata memorabile in giro per la città.

Harry Sweeney guardò nell'angolo, le facce intorno al tavolo. Tre americani, un giapponese. Nessuno che batteva le mani, nessuno che rideva. Nessuno che si univa ai cori, giocavano a carte e basta: Sembra una bella compagnia.

Mi prende in giro? È peggio che stare in biblioteca. Ma i miei amici Don e Mary hanno detto che passeranno. Sono fantastici, le piacerebbero...

Harry Sweeney sorrise. Harry Sweeney guardò l'orologio. Poi Harry Sweeney si alzò rivolgendo un altro cenno a Joe il barista: Per favore riempi il bicchiere alla signora, Joe, e mettilo sul mio conto, grazie.

Non mi dica che se ne va, disse Gloria Wilson.

Harry Sweeney si inchinò: Purtroppo mi tocca tornare al lavoro. Ma è stato davvero un piacere conoscerla, Gloria.

La mia solita fortuna, disse ridendo Gloria Wilson. Finalmente incrocio qualcuno in questa città ancora disposto a offrire da bere a una occidentale e fare amicizia ed è un maniaco del lavoro. Ma grazie davvero, Harry Sweeney. Grazie. È stato un piacere...

Harry Sweeney sorrise: Ci vediamo presto, Gloria.

Può giurarci. Vengo a cercarla...

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Si incamminarono allontanandosi dalla stazione. Accanto ai binari, seguendo i binari. Attraversarono un ponte pedonale sopra un piccolo fiume. Accanto ai binari, seguendo i binari. Le mura alte e scure della prigione di Kosuge che si alzavano alla loro sinistra, il vuoto ampio e buio dei campi aperti alla loro destra. Accanto ai binari, seguendo i binari. Nella pioggia dura, sotto i fiumi pesanti d'acqua. Avevano i vestiti fradici, erano inzuppati fino alla pelle. Nel sangue, fino alle ossa. La pioggia che cadeva, la pioggia che feriva. Betz disse: Quanto accidenti manca ancora?

Eccolo, disse Toda. Dev'essere quello.

Videro i lampioni più avanti, videro gli uomini più avanti. Prima di un ponte, oltre il lungofiume. Con le loro cerate e i loro impermeabili. Con i loro stivali di gomma, su e giù per i binari, con i loro stivali di gomma, avanti e indietro per i binari. Sotto i fiumi di pioggia, alla luce delle lanterne. Raccoglievano pezzi di indumenti, buttavano a terra pezzi di carne. Su e giù, avanti e indietro, di qui e di là, dappertutto, indumenti e carne, sparsi in giro e ridotti a brandelli...

Cristo, disse Betz. Guarda là...

Un braccio amputato fra i binari della linea in uscita.

Cristo, ripeté Betz. Povero bastardo.

Nella notte e sotto la pioggia, Harry Sweeney non disse niente. Harry Sweeney rimase dov'era, a sperare che la notte finisse e la pioggia si fermasse, a guardare su e giù per i binari nel tentativo di vedere il più possibile, nella disperazione di ricordare il più possibile. Nella notte e sotto la pioggia, Harry Sweeney tirò fuori il suo taccuino e la matita, e nella notte e sotto la pioggia Harry Sweeney cominciò a camminare avanti e indietro lungo i binari, misurando le distanze a passi, tracciando uno schizzo della scena e annotando i dettagli: i binari passavano sotto un ponte di un'altra ferrovia; a tre metri dal ponte c'era una grande quantità di olio sulle traversine e sul pietrisco; a sei metri dal ponte, sul pietrisco c'era la caviglia di un piede destro in un calzino strappato; a undici metri dal ponte, in mezzo ai binari, c'era la giarrettiera di un calzino; a circa tredici metri dal ponte, nell'erba che fiancheggiava i binari in uscita, c'era una scarpa destra schiacciata; a diciassette metri dal ponte, la scarpa sinistra era fra i binari in uscita; a ventiquattro metri dal ponte, fra i binari in uscita, Toda trovò una striscia di tessuto che identificò come un fundoshi o perizoma, biancheria tradizionale giapponese; a ventotto metri dal ponte c'era una camicia bianca, strappata sulla schiena; a quarantatré metri dal ponte, la caviglia sinistra, anche quella nel suo calzino, sul pietrisco in mezzo ai binari; a quarantasei metri dal ponte, fra i binari, c'era una giacca di un completo, strappata sulla schiena in modo simile alla camicia bianca; a cinquantaquattro metri dal ponte, sul pietrisco fra i binari in partenza e quelli in arrivo, c'era la faccia di un uomo, amputata dalla cima del capo fino al mento, con un occhio ancora attaccato e rivolto in su, in su verso la notte e sotto la pioggia...

Cazzo, disse Betz.

Toda annuì: Sono cose che un treno può fare a un uomo.

Harry Sweeney non disse niente, continuando a camminare, continuando a scrivere: C'era anche materia cerebrale, vicino alla faccia; intestini sparsi fra i binari per una decina di metri circa; a settanta metri dal ponte, il braccio destro e parte della spalla erano stesi sul pietrisco fra i binari in partenza; finalmente, a ottantacinque metri dal ponte, sul pietrisco fra i binari in partenza, c'era il torso, amputato e contorto, la schiena e le ginocchia girate sul pietrisco, quasi diviso in due ai fianchi, la carne aperta e le ossa frantumate...

Cazzo, ripeté Betz. Che modo di andarsene. Cristo.

Harry Sweeney non disse nulla, fissò una luce flebile che si allargava venendo da est, la guardò illuminare i brandelli bianchi di pelle bagnata e i pezzi grigi di carne umida sparpagliati e dispersi lungo i binari. Nella luce ancora più grigia e sotto la pioggia ancora più silenziosa, Harry Sweeney si allontanò da quella pelle e quella carne, da quei binari e quel pietrisco. Altri uomini che arrivavano, alcuni che andavano, venivano e andavano, su e giù, avanti e indietro, per i binari e per il luogo del delitto. Guardò gli investigatori della polizia metropolitana che controllavano la scena, i periti legali e i medici che stavano arrivando, chiese a Toda di scoprire i loro nomi e gradi, le loro posizioni e le funzioni, cosa avevano sentito e cosa avevano visto. E poi Harry Sweeney rimase immobile nella luce dell'alba e sotto la pioggia leggera, bagnato fradicio nella pelle e fino alle ossa, e guardò verso est, e poi si girò verso sud, verso ovest e verso nord, guardando un incrocio e la ferrovia in fondo ai binari, un palazzo e la prigione vicino ai binari, il ponte e il lungofiume lungo la linea, e i campi, i campi bassi e pianeggianti che si stendevano verso nord, Harry Sweeney guardò e si girò ancora e ancora, si girò e guardò quel panorama di morte silenzioso, deserto e dimenticato da Dio...

Che stai pensando, Harry, chiese Betz.

Perché qui, Bill. Perché qui?

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Pagina 99

Nel parco, nel buio, fra gli insetti, fra le ombre, appoggiato a un albero, scivolando giù lungo la corteccia, cadendo a terra, seduto per terra, Harry Sweeney chiuse la mano a forma di pistola, Harry Sweeney si mise la pistola alla testa, premette il grilletto ma non era morto, non era morto. Nel parco e nel buio, fra gli insetti e le ombre, a terra seduto nella terra, Harry Sweeney prese la canna della sua pistola, le due dita della mano, e Harry Sweeney se le infilò in bocca, spingendole giù nella gola, giù in fondo alla gola finché non fu scosso dai singulti e dai conati, dai conati e dal vomito, vomitò per terra, fra gli insetti e le ombre, nel buio e nel parco, vomitò e vomitò, whisky e bile, si vomitò sulle dita e sulle mani, sui polsi e sulle cicatrici. E quando non rimase più whisky e non rimase più bile, quando non riuscì più a vomitare e non ci furono più conati, Harry Sweeney si girò sul fianco, poi sulla schiena, e Harry Sweeney alzò gli occhi ai rami, guardò le foglie, fissò il cielo, fissò le stelle, e Harry Sweeney singhiozzò e Harry Sweeney urlò...

Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.

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Pagina 135

Erano arrivati in bianco e in nero, a centinaia e a migliaia, per disporsi in coda e in fila, code e file che arrivavano fino in fondo agli alberi del parco. In bianco e nero, a centinaia e a migliaia, le code e le file, procedevano lentamente, lentamente, passo dopo passo, ora dopo ora, sotto il sole, il sole del pomeriggio, verso il portale, verso il tempio. In bianco e nero, a centinaia e a migliaia, lentamente, lentamente, passo dopo passo, ora dopo ora, sotto il sole, il sole del pomeriggio, a porgere i loro omaggi e a piangere l'uomo, a piangere Sadanori Shimoyama; a piangerlo come personaggio pubblico, un uomo che non avevano mai conosciuto, di cui avevano solo letto, forse addirittura solo al momento della morte; o a piangere l'uomo privato, il compagno di classe o lo studente, il collega o il superiore, l'ingegnere o il burocrate, l'amico o il parente, il cugino o lo zio, il fratello o il figlio; personaggio pubblico o uomo privato, tutti erano venuti a piangere Sadanori Shimoyama...

Attraverso il bianco e il nero, attraverso le centinaia e le migliaia, le code e le file che procedevano lentamente, lentamente, passo dopo passo, strascicando i piedi, cercando di non spingere, di non spintonare, con calma e in silenzio, Harry Sweeney si fece strada fra i partecipanti, su per i gradini e fino al primo portale, fatto di pietra e fatto di legno, lentamente, lentamente, con calma e in silenzio, Harry Sweeney camminò sulla ghiaia e salì altri gradini, poi sotto un altro portale, uscendo nel terreno principale del tempio, il viale centrale fiancheggiato di canestri pieni di fiori e ghirlande sui cavalletti, l'odore di incenso e il suono dei sutra, sull'aria, nell'aria, i profumi e le cantilene, per tutto il tempio, sopra le migliaia di partecipanti, che arrivavano dalla sala principale, la sala delle cerimonie...

Dentro la grande sala, nelle sue lunghe ombre, l'aria annebbiata dalle nuvole d'incenso, appesantita dalla nenia dei sutra, Harry Sweeney si fermò in fondo a guardare sopra le file di teste chine, osservando i principali partecipanti, i parenti del defunto, con i loro abiti neri e i kimono, le divise lavate e stirate, tutti seduti in file a sinistra e a destra di un altare coperto di tessuti bianchi e fiori, con ghirlande gigantesche issate su cavalletti che incombevano sopra l'altare, sopra i partecipanti, i parenti del defunto, Harry Sweeney contò le ghirlande e i cestini di fiori: centosessantadue ghirlande e cestini di fiori, mandati dall'Imperatore e dal Primo ministro, dai membri del gabinetto e della Dieta, dal Ministero dei trasporti e dalla Direzione generale, dai dirigenti delle Ferrovie e dai dipendenti delle Ferrovie, dal sindacato e dai suoi iscritti; ma dal fondo dalla sala, dalle lunghe ombre in cui si trovava, Harry Sweeney continuava a tornare con gli occhi sui principali partecipanti, i parenti in lutto e la famiglia, la signora Shimoyama nel suo kimono nero, i suoi quattro figli, tre dei quali ancora in divisa scolastica pulita e stirata; quella famiglia afflitta e resa piccola, fra le alte ghirlande, perduta tra i fiori, l'incenso e i canti, a fianco dell'altare, di fronte all'altare avvolto di stoffa bianca, coperto di altri fiori, con le sue candele e la sua fotografia; l'unica fotografia solitaria incorniciata di nero, contornata di nero, un ritratto formale di uomo, marito e padre, nel suo miglior vestito e cravatta, un ritratto di Sadanori Shimoyama, gli occhi di Sadanori Shimoyama che guardavano tristi, tristi, la folla in lutto, rivolti sopra di loro verso le ombre, verso gli occhi di Harry Sweeney...

Harry Sweeney batté le palpebre, si strofinò e si massaggiò gli occhi, chinò la testa verso l'altare, verso il ritratto dell'uomo, poi si voltò e con calma, in silenzio, uscì piano dalle ombre e dalla sala, si incamminò fino alle sale del tempio, scese i gradini e passò sotto i portali, infilandosi in mezzo alle centinaia, alle migliaia di persone, alle file e alle code, finché non si ritrovò in strada, a tirare fuori il suo pacchetto di sigarette e...

Be', ma è proprio eccezionale, disse il Tenente colonnello Donald E. Channon, avvicinandosi a Harry Sweeney dal suo angolo cieco. Non solo hanno fatto venire qui mezza polizia dei musi gialli a mantenere l'ordine, c'è qui anche l'investigatore della nostra polizia.

Harry Sweeney mise via il pacchetto di sigarette, fece un passo indietro e chiese: Qualcosa non va, signore?

Può scommetterci la pelle, cazzo, disse il Colonnello Channon, rosso in faccia, l'alito che sapeva di whiskey. Cosa cazzo crede, di prendere gli assassini al suo funerale, Sweeney?

Harry Sweeney sorrise: Forse è meglio se troviamo la sua macchina, signore. Per farla riportare a casa, signore...

Lei deve trovare quei figli di puttana di assassini, non la mia macchina, Sweeney, disse il Colonnello Channon spingendo due dita nel torace di Harry Sweeney, dando un colpo alla sua cravatta. Invece di stare qui al suo funerale come una merdosa ruota di scorta.

Harry Sweeney fece un altro passo indietro, fissò il Tenente colonnello Donald E. Channon e disse: Magari pensavo di venire a vedere da vicino quel maledetto nido di vipere di cui lei mi parlava, signore.

Ehi ehi, fermo lì, Sweeney, disse il Colonnello Channon, scuotendo la testa, agitando un dito. Qualche bustarella, un po' di olio alle ruote, intendevo quello. Non parlavo certo di ammazzare la gente, cazzo.

L'onore dei ladri, è così che lo chiamano, mi sembra. È quello che intende, signore?

Il Tenente colonnello Donald E. Channon si sforzò di fissare Harry Sweeney negli occhi, cercò di pungolare col dito Harry Sweeney, dicendo: Da irlandese a irlandese, vada affanculo, Sweeney, è questo che intendo.

Da irlandese a irlandese, credo che farebbe meglio a tornare a casa, signore, disse Harry Sweeney voltandosi, facendo per allontanarsi...

Non mi volti le spalle, porca troia, Sweeney, disse il Colonnello Channon afferrando Harry Sweeney per la manica della giacca, girando di nuovo Harry Sweeney verso di lui. Non si permetta di andarsene mentre le parlo, cazzo. Non quando non ho ancora finito di parlarle.

Harry Sweeney mise la mano sulla mano del Colonnello Channon, costringendolo con calma e fermezza ad allentare la presa sul suo braccio, spostando con calma e fermezza le dita del Colonnello Channon dalla manica della sua giacca, poi facendo lentamente, lentamente un passo indietro e dicendo: Allora vada avanti, prego, signore, assolutamente. Ha qualcos'altro da dire, signore?

Ci può scommettere che ho qualcos'altro da dire, disse il Colonnello Channon annuendo fra sé, agitando un braccio in direzione del tempio, del portale, del funerale: Dico che dovrebbe tornare là dentro e arrestare quel porco bastardo rosso, ecco cosa ho da dire.

Quale porco bastardo rosso intende, signore?

Quel figlio di puttana di Honda, ecco chi.

Honda, signore? Mi spiace, non...

Cristo, Sweeney, disse ridendo il Colonnello Channon. Quando hanno distribuito l'intelligenza lei era l'ultimo della fila? Ichizo Honda, il vicepresidente di quel sindacato di merda, ecco chi.

E dice che oggi è qui, signore?

Una faccia di bronzo, quel pezzo di merda, disse il Colonnello Channon scuotendo la testa, ondeggiando sui piedi. Da non crederci. Quella faccia da teschio in cima a un manico di scopa, con quei capelli pieni di brillantina merdosa, che vuole porgere le condoglianze, a dire quanto cazzo gli dispiace, quanto apprezzava e rispettava il vecchio Shimoyama. Adesso che è morto stecchito, fatto a pezzi su quei binari di merda, come se non lo sapesse benissimo chi cazzo è stato, maledetto bugiardo figlio di puttana che viene a fare le condoglianze con il sangue ancora sulle mani, maledetto pezzo di merda assassino comunista figlio di puttana. Dovrebbe trascinare in galera quel secco culo giallo, Sweeney, ecco cosa dovrebbe fare, fargli il terzo grado. Lei gli faccia il vecchio terzo grado e quello stronzo ci metterà poco a dirle quello che le serve sapere, le dirà chi cazzo è stato, può scommetterci le palle, Sweeney.

Harry Sweeney aveva tirato fuori il suo taccuino, tirato fuori la matita, aveva scritto il nome Ichizo Honda. Harry Sweeney richiuse il taccuino sulla matita, rimise tutto in tasca. Poi si batté la mano sul lato sinistro della giacca e disse: Grazie, signore. Sono certo che saranno informazioni molto utili, signore.

Può scommetterci le palle, Sweeney, cazzo, disse il Colonnello Channon. Risolvono praticamente il caso al posto suo, ecco cosa.

Harry Sweeney annuì, poi sorrise al Tenente colonnello Donald E. Channon e disse: Grazie, signore, sono certo che ha ragione, signore. Vado solo a rimettere insieme gli ultimi pezzi...

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