Copertina
Autore Gianfranco Pecchinenda
Titolo L'ombra più lunga
SottotitoloTre racconti sul padre
EdizioneColonnese, Napoli, 2009, Lo specchio di Silvia 52 , pag. 80, cop.fle., dim. 9x14,5x0,9 cm , Isbn 978-88-87501-97-1
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe narrativa italiana
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Indice


Nota dell'autore                     9

La Pampa verticale                  15

L'Ombra ineludibile                 27

Lo Sguardo                          63



 

 

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Pagina 15

LA PAMPA VERTICALE



Se oggi ho deciso di prendere la penna in mano e scrivere finalmente quelle quattro cose che già da molto tempo avevo intenzione di scrivere, non è certo per liberarmi di un peso, né tanto meno per condividere con altri esperienze che comunque risulterebbero incomprensibili ai più, se non a tutti. E, d'altra parte, perché mai scrivere di cose che chiunque potrebbe facilmente comprendere? Il motivo, l'unico motivo che mi spinge a scrivere è la presa di coscienza dell'avvicinarsi della mia prossima, definitiva morte. Ho deciso di suicidarmi, e ciò che sto facendo adesso, in questo preciso istante, è il primo passo intrapreso in questa direzione.

Non è la prima volta, in verità, che assumo una risoluzione di questo genere. Mi era già capitato due volte, finora. Si trattava però di quelli che io chiamo "suicidi del primo tipo", ovvero di suicidi solamente sociali, in cui la persona che agisce elimina quella parte di sé fino ad allora nota a tutti, lasciando in vita l'altra parte, il Sé interiore e il fisico a esso associato. Questa volta invece credo sia proprio arrivato il momento di chiudere anche con questo!

Capirà dunque il lettore più chiaramente le motivazioni profonde che mi spingono – anche se solo per una prima (e ultima) volta – a uscire dalla mia riservatezza per consentire, se non altro ai miei figli, di poter riannodare i fili spezzati delle diverse trame che, cronologicamente, hanno accompagnato la mia esistenza. Questa non intende però essere un'autobiografia. Non ne avrei il tempo e, soprattutto, non ne avrebbero quei pochi curiosi che avranno deciso, dopo queste prime righe, di proseguire nella lettura. Andrò quindi direttamente ai fatti.

Oggi mi chiamo Pietro e ho compiuto da pochi giorni il mio settantacinquesimo compleanno. In quelle che, come accennavo poc'anzi, sono state le mie due "esistenze" precedenti, ho sempre vissuto non oltre i venticinque anni. Motivo per cui, come capirete facendo una semplice addizione, mi trovo ad aver appena superato la fine della mia terza esistenza e ... praticamente sono anche in ritardo. Se avessi tenuto fede a quelli che erano stati i miei progetti, avrei dovuto farla finita non oltre il compimento del venticinquesimo anno della mia terza vita. E invece me la sono presa comoda! In effetti avrei dovuto decidere se aprirmi a una nuova vita, oppure arrestarmi e farla finita qui. Ho preso la decisione che ho preso e di cui siete oramai al corrente, ma in verità non credevo sarebbe stato così difficile.

Una cosa è infatti svegliarsi una mattina e, dopo aver cambiato i documenti, sparire dalla vista di parenti, amici e conoscenti, alla stregua di un Mattia Pascal; ben altra cosa è chiedere alla persona a te più cara – fortunatamente anche un medico – di mettere in atto quell'antica promessa di essere aiutato a procurarti l'occorrente per una dolce morte farmacologica. Ecco, in questo secondo caso, il minimo che puoi fare è provare se non altro a realizzare ciò che sto provando a mettere in atto adesso. Uno scritto. Il tempo che mi sono ancora concesso è della stessa lunghezza di questa mia breve memoria. Volendo – direte voi – la si sarebbe potuta prolungare all'infinito, soffermandosi sugli inesauribili dettagli di cui ogni istante della nostra esistenza è composto, ma la verità è che non ne ho alcun desiderio: quando si spengono le luci intorno, la penna rappresenta un po' l'ultima candela. Una volta consumata anche questa, si resta definitivamente smarriti. A quel punto non rimane altro da fare che smetterla una volta per tutte di continuare a brancolare in un inutile buio.

Come dicevo, attualmente mi chiamo Pietro, Pietro Rinaldi. In questi ultimi venticinque anni ho lavorato come traduttore per una piccola ma assai dignitosa casa editrice, della quale a un certo punto sono diventato anche socio. Il mio ufficio, uno studiolo non più grande di dieci metri quadrati, che però non devo condividere se non con la mia solitudine, è situato in Via San Giovanni in Porta, nel ventre del Centro Antico di Napoli, a ridosso delle strutture portanti dei teatri della Roma imperiale. Proprio lì dove in un tempo assai profondo Nerone esibiva il suo talento oggi io, scrivendo di me queste righe finali, metto in scena quel che resta della mia frammentata interiorità, protetto da quelle stesse possenti mura.

Sono giunto a Napoli a cinquant'anni, ma non era la prima volta! Vi ero già stato tanto tempo prima. In realtà Napoli è la mia città in molti sensi. È la città in cui ero nato e in cui avevo vissuto i miei primi anni. È la città in cui, immerso nel suo particolare linguaggio come nell'acqua battesimale, avevo imparato a parlare e quindi anche a pensare. Poi però l'avevo lasciata per un lungo periodo, quando ero ancora bambino, per emigrare con i miei genitori in Argentina. Ma su questo mi soffermerò poi. Per il momento vorrei tornare sul senso di questo mio spazio esistenziale, di questo luogo in cui fisicamente mi trovo adesso, prima di morire.

Quando ci si riferisce a una città come alla "propria città", non si pensa esattamente ad un luogo fisico, a una piazza o a delle strade. Né tanto meno si pensa al mare o – come nel mio caso – al Vesuvio. Il pensiero si rende immediatamente evanescente, immateriale: è un ricordo, spesso congelato e oramai già inesistente, in cui si racchiude un senso di nostalgia; uno strano artefatto al quale si collegano dei sentimenti altrimenti inesprimibili fatti di malinconia, rimpianto, gioia, dolore, rabbia, appagamento. Ecco, appagamento. Quando uno dice questa è la mia città sta esprimendo un senso di appagamento che predispone a una certa solidarietà verso se stessi. Quando andai via la prima volta da Napoli non avevo però che una flebile percezione di un tale sentimento. Se non fosse stato per una serie di eventi, del tutto casuali, non avrei probabilmente mai più rimesso piede in questo straordinario universo che costituisce la "mia città".

Proseguendo cronologicamente, è necessario rammentare che il bambino che, a seguito della madre e del padre, si sarebbe imbarcato per le Americhe, non si chiamava come colui che oggi sta redigendo queste pagine. È vero, sono sempre "io", se vogliamo, ma il mio nome (e, ovviamente, la mia identità) era un altro. Mi chiamavo Aniello, Aniello Barile. Niente a che vedere, almeno anagraficamente, con Pietro Rinaldi. E tale sarei rimasto, Aniello, fino al mio venticinquesimo anno d'età, quando presi la decisione di lasciare la mia giovane donna e il mio piccolissimo figlio per spostarmi da Buenos Aires, città in cui avevo fino ad allora vissuto, a Santa Rosa, nella Pampa argentina, ai margini più estremi di quella che all'epoca poteva essere considerata una delle ultime frontiere del mondo abitato.

Si tratta di luoghi predominati da un senso del tutto peculiare dell'esistenza. Si tratta di spazi che ho imparato a conoscere e ad apprezzare in quanto partecipi di un mondo del tutto orizzontale. L'occhio non può giungere mai a comprendere con il suo sguardo una fine, un confine, un qualche limite. Gli orizzonti non esistono al di là della vista, essi sono già in colui che osserva. Vivere nella Pampa è un vivere confuso con gli orizzonti. In un certo senso è un vivere sradicati, è vivere un miraggio che da altrove non sarebbe neanche visibile. E quando ci si rende conto che il miraggio è la propria esistenza, che ci sei dentro, non ti resta altro da fare che andare, vivere o morire!

Ero capitato a Santa Rosa per sfuggire a una vita, per morire senza lasciare tracce, ma senza far spegnere ciò che in me avrebbe potuto, seppur dolorosamente, sopravvivere. Venticinque anni potrebbero essere considerati anche sufficienti per pagare un debito verso se stessi, ma sono nulla se la colpa da espiare è così tremenda come quella che mi soffocava dal profondo di me stesso.

Uccidere qualcuno può essere considerata una colpa, una colpa grave. Uccidere la propria madre è però qualcosa di più che una colpa grave. Non credo la si possa dimensionare con il riferimento a nessuna delle misure conosciute. E come trasmettere il senso di ciò che io stesso ho compiuto? Potrei dichiarare che si è trattato di un atto di pura pietas; potrei giustificarmi dicendo che la vita di mia madre non era già più vita.

Quando una persona non è più in grado di dire "io"; quando il suo cervello funziona solo come uno strumento meccanico; quando una persona non è più capace di riconoscere quanto ha di più caro, il proprio figlio, allora – potrei giustificarmi – non si tratta di un vero e proprio omicidio.

Insomma, stanco di vedere soffrire la persona che più amavo, avevo compiuto un matricidio. Dopo di ché, per non legarmi alla persona che avrei potuto amare forse ancor di più – mio figlio, appunto – e per salvarlo da quel destino che, inesorabile, lo avrebbe atteso se fossi rimasto al suo fianco, avevo deciso di scomparire. Di Aniello Barile, a partire da quel giorno, si persero definitivamente le tracce. Nessuno ne seppe più niente. Forse neanche io stesso – che in momenti come questo raccoglievo qua e là dalla mia memoria brandelli di ricordi a volte orribili e a volte dolcemente nostalgici – ne ho saputo, per lunghi tratti della mia "seconda" esistenza, più nulla. E intanto vivevo! Talvolta da solo, talvolta accompagnandomi ai rappresentanti dell'umanità più improbabile che si possa immaginare. Ubriaconi e prostitute, nazisti in fuga ed ex-galeotti più o meno redenti. Per tutti ero Pedro. Pedro e basta.

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