Copertina
Autore Marco Pedone
Titolo GRI
SottotitoloGalvanoplastiche Ramature Imola
EdizioneFernandel, Ravenna, 2004, , pag. 124, cop.fle., dim. 140x200x10 mm , Isbn 978-88-87433-50-0
LettoreGiorgia Pezzali, 2005
Classe narrativa italiana
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Pagina 5

Matina



Il giorno che Tore, il postino, le consegnò una busta di banconote più gonfia delle precedenti, Linda non si fece molte domande. Sistemò i soldi nell'armadio tra la biancheria e il fucile di Pippi e alle undici in punto era seduta sulla poltrona di bambù, in giardino, con le stecche di marlboro in grembo.

Linda e Pippi chiamavano giardino quello che in realtà era poco più di un orto col pollaio. Vi si accedeva solo dall'esterno, da una porticina giusto a fianco della soglia di casa. Pippi diceva che era l'ufficio personale di Linda, non tanto per il contrabbando che lei aveva voluto sempre per sé, quanto perché a Linda piaceva scorticare i fumatori maschi del paese, fargli sentire addosso la puzza delle mogli quando venivano nel giardino a rifornirsi di bionde.

Per prima cosa, quella mattina Linda era andata a controllare la nidiata del corvo. Quando aveva sollevato il coperchio dellu scarfaliettu, uno scaldaletto a brace che non serviva più da che Pippi aveva comprato la stufa, i becchi microscopici dei piccoli s'erano messi a strepitare andando su e giù come i pistoni della tromba di Rafele. Linda teneva coperto il nido, la notte, perché una volta aveva sentito il lamento della cuccuacia. Non aveva pensato alle disgrazie, né le erano venute in mente filastrocche di scongiuri. Non ne sapeva neanche una. S'era solo ricordata che le civette sono animali vigliacchi che ammazzano i cuccioli ma anche abbastanza stupidi da fuggire davanti alla propria immagine riflessa. Così aveva lucidato col Sidol il coperchio dellu scarfaliettu e la civetta non era più tornata.

Quella mattina Linda era preoccupata perché Sarino Manimuzzi non si faceva vedere da due mesi e a lei era rimasta solo una stecca di marlboro già iniziata.

Sarino era il fornitore ufficiale di sigarette di contrabbando e portava a Linda almeno dieci stecche al mese. Il cognome vero di Sarino non s'è mai saputo, Manimuzzi nasceva dal fatto che aveva in dotazione in tutto quattro dita: tre alla mano sinistra e uno solo all'altra, l'anulare. Nonostante lo sfoltimento, Sarino guidava meravigliosamente la lambretta, con quell'unico dito della destra arrotolato intorno alla manopola dell'acceleratore che sembrava l'unghia di un pappagallo agganciato al trespolo. Le altre dita di Sarino erano da qualche parte nel mare insieme con lo spirito dei pesci che per anni aveva sventrato con le bombe.

Due settimane prima, Linda aveva ricevuto la visita del fratello di Sarino, Nicola, che essendo il maggiore le mani non le aveva proprio più e per questo doveva elemosinare passaggi dai venditori ambulanti. Nicola le aveva portato un paio di stecche ma aveva anche detto a Linda che per un po' doveva arrangiarsi. Linda gli aveva chiesto dove fosse finito Sarino e Nicola s'era portato i moncherini sul petto alzando le spalle e facendo di no con la testa.

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Passò anche lu Mminu mvrafatu, quella sera, proprio mentre Linda stava per rientrare in casa. Lu Mminu era stato per dieci anni l'allenatore della squadra di calcio locale, che aveva conosciuto i fasti della serie D e che poi si era sciolta in seguito a uno scandalo di partite vendute sottobanco dall'avvocato Scorrano, che ne era il presidente. Lu Mminu faceva Tafuri di cognome, ma solo i vecchi del paese sapevano arrampicarsi sul suo albero genealogico — sport diffuso da sempre tra gli anziani, che ancora oggi indagano le facce nuove con domande tipo: «De cci ssi figghiu?».

Per tutti gli altri lu Mminu era mvrafatu, cioè svociato, per via di una raucedine cronica aggravatasi negli anni passati in panchina a urlare dietro ai suoi calciatori. La squadra, inoltre, usava come terreno casalingo il campo del paese a mare, che si trovava a ridosso delle banchine vecchie, in un punto che anche adesso, d'inverno, è battuto venti giorni al mese dalla tramontana. Per lu Mminu non c'era scampo, quel po' di voce che gli restava dopo le minchiate dei difensori e degli attaccanti gliela stutava il vento.

Lu Mminu mvrafatu era il tuttofare del Conte innominabile.

Il Conte era davvero conte, quattro quarti di nobiltà, mica come quelli che il titolo se lo sono comprato al mercatino delle aristocrazie. Nel capoluogo c'è ancora il palazzo di famiglia con lo stemma di pietra, grifone rampante tra le alabarde e motto nimis fortunae semper. Ma il Conte era pure innominabile. La sua fama iettatoria possedeva uno spessore leggendario, tanto che si evitava persino di pronunciare la sua nobilissima identità, rimpiazzandola con un più inoffensivo pronome antonomastico: iddu.

Vedovo da anni, un unico figlio sparito in Provenza in una comunità neo-catara che praticava la povertà e il libero amore omosessuale, spirito da orso e giocatore inguaribile, il Conte si era ritirato in un vergognoso e sdegnato isolamento da che aveva perduto a zecchinetta con don Vincenzo tutta la proprietà, compreso il palazzo patrizio nel capoluogo. Viveva in una villa sulla collina, residuo di una fortezza appartenuta ai suoi antenati normanni, che non si era giocato per un giuramento alla defunta contessa madre. La villa dominava il paese come un occhio che guarda di sbieco, dal basso si vedevano le corone dei pini che la circondavano e tre bifore a sesto acuto. Il Conte innominabile riceveva rare visite, specie dopo la sciagurata partita a zecchinetta con don Vincenzo. Forestieri di solito, qualche volta il dottore Cosentino e il farmacista, che però faceva accomodare nella dependance. Molto si favoleggiava sull'interno della villa – le solite storie, argenteria come se piovesse, quadri grandi quanto quelli del duomo nel paese a mare, tappeti persiani che manco lo scià – e soprattutto sul giardino.

Pare che proprio lì, accanto a un mozzicone di torretta, ci fossero li caverni, delle grotte tufacee dove si diceva che il Conte si esercitasse nottetempo nelle arti occulte. Li caverni li avevano visti bene i fratelli Scarpa, che per un periodo avevano fatto gli uomini di fatica al giardino della villa e avevano raccontato delle croci all'inversa e degli stozzi de cannìla che mettevano i brividi. Il farmacista aveva smorzato la cosa – tutte fesserie – assicurando che li caverni erano banali fungaie ma girava voce che per paura si fosse consegnato al silenzio. E la malattia di don Vincenzo, appena due mesi dopo la storica partita a zecchinetta, aveva pompato più certezze che sospetti nel paese. Interrogare l'unica persona che aveva libero accesso alla villa, lu Mminu mvrafatu, era tempo perso. Sull'argomento teneva la bocca sigillata più dell'ossario dei caduti della grande guerra. Nessuno si sognò mai di togliersi lo sfizio andando a vedere di persona.

Il Conte usciva poco da quei muri alti con i cocci di bottiglia in cima e quando succedeva che a bordo della Lancia Aprilia attraversasse il paese, l'effetto era quello del sasso sul formicaio. Fughe in tutte le direzioni. E poi scongiuri, segni di croce, sfregamenti intimi. Un incontro accidentale con iddu provocava trapassi improvvisi di persone fino allora sanissime, troncava un orecchio ai nascituri, generava pecore a due teste, bucava pneumatici, ammazzava vacche e motori. Per papa Cosimo la superstizione era peccato ma pure lui, di ritorno dalle sue visite pastorali alle case in collina, puzzava d'aglio che nemmeno una zuppa di vongole.

Linda nei pensieri della gente non era meno sulfurea del Conte.

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Mariciu



Alla fine degli anni cinquanta, in pieno boom missilistico e agli sgoccioli della ricostruzione, durante le prime lavatrici col cestello e l'arrembaggio di Seicento Fiat, Pippi era emigrato in una baracca a ridosso di una fabbrica svedese di frigoriferi.

«Abbiamo tutto quello che ci serve, qui c'è il futuro» lo aveva accolto suo cugino Carmine dischiudendogli orizzonti oceanici nella baracca col materasso sul pavimento. Pippi aveva fatto un passo indietro ma aveva sentito la mano di Carmine rimboccargli la ritirata. Era stato imbarcato all'epoca del servizio militare, pure allora gli avevano detto "abbiamo tutto quello che ci serve" e per quasi due anni il buco con il letto a castello gli era dovuto bastare. Ma almeno durante il giorno riusciva a mettere il cuore tra le nuvole e le onde, sentiva la corrente entrargli nelle vene. Quel prefabbricato, invece, non aveva ormeggi da staccare.

«Non ti impressionare, qui ci si abitua in fretta, imparare la lingua non ti serve, siamo quasi tutti italiani. E comunque ti pagano lo stesso» aveva ammiccato Carmine estraendo da una crepa nel materasso un cubo di banconote legate con lo spago. Poi aveva portato Pippi nel cesso della baracca.

«Guarda qua, cugino. Tutto gratis, schiuma, lamette e dopobarba ogni mese, questi svedesi ci vogliono puliti». Gillette e Mennen c'era scritto sul pacco col nome della fabbrica. Pippi si faceva la barba col pennello di cinghiale e il rasoio a compasso. Mai usato il dopobarba. Gli bastava il bacio di Linda prima di uscire di casa, la mattina.

Per tre anni Pippi costruì frigoriferi giganti.

Mentre imbullonava gli sportelli pensava chi avrebbe potuto volere, al paese, uno di quei mostri con dentro il ghiaccio. Nel negozio della comare Concepita non ci sarebbe entrato nemmeno di sbieco. A Vinicio bastava il congelatore dei gelati. In paese l'unico posto buono era la chiesa.

Ma che se ne faceva papa Cosimo di un frigorifero?

Forse poteva servire di più al cimitero, Pippi aveva visto al cinema che in America i morti ammazzati li mettevano nei cassetti, al freddo, così i poliziotti potevano studiarseli senza morire di puzza. No, che minchia, in paese quasi nessuno muore ammazzato e quando succede Settimio la guardia si fa i cazzi suoi.

Qualche volta capitava che dalla fiamma ossidrica gli zampillasse malinconia, allora Pippi si ritrovava a camminare per le strade di casa sua e la piazza gli appariva una distesa polare dove i compaesani brancolavano tipo pinguini rintronati, il municipio era un iceberg e la bandiera uno stoccafisso tricolore.

Vedeva il bar di Vinicio, un igloo con gli Stock 84 belli freschi e il biliardo tutto bianco e verde come una vaschetta Alemagna alla menta.

Animo animo animo! Urlava il caposquadra e Pippi si scuoteva.

Il caposquadra era pure lui italiano e aveva una moto. La parcheggiava sempre vicino alla macchina del direttore, una Volvo lunga quanto due seicentofiat più una lambretta. Non si capiva se quel posteggio fosse una concessione dei capi o una gradassata da kapò. Il cugino Carmine, quando non lo vedeva nessuno, scatarrava sulla sella. Ma a Pippi la moto del caposquadra accanto alla Volvo sembrava una gazzella nell'ombra della tigre. Gli ricordava Robì, il randagio che gli trottava a fianco nelle mattinate di caccia.


Una notte Pippi uscì dalla baracca per godersi una nazionale senza filtro, che in terra straniera gli dava un sovrappiù di gusto esotico. Dal buio vide sbucare a fari spenti un furgone mentre il sorvegliante della fabbrica si sbracciava dietro al cancello. Poi sentì un gorgoglìo di pistoni a basso regime e indovinò la sagoma del caposquadra a cavallo della moto.

Il sorvegliante, nel frattempo, aveva socchiuso un battente come un'adultera che aspetta un amante ed era fuggito nelle tenebre del viale che portava ai capannoni. Dal furgone schizzò un'ombra che lo inseguì. Anche il caposquadra, dopo aver sollevato la moto sul cavalletto, imboccò la medesima strada con impazienza, giusto il tempo di una rapida perlustrazione a destra e a sinistra. Pippi si avvicinò al cancello con le mani in tasca, masticando il residuo della nazionale. Si accomodò sulla moto del caposquadra e aspettò.

Poco dopo, dall'oscurità emersero tre uomini con le gambe ad arco. Ognuno si era incollato una cosa che da lontano sembrava un grosso confetto.

Il primo, accortosi di Pippi, bestemmiò e fece crollare il carico con un tonfo metallico.

Il secondo accennò un passo di fuga ma poi si rattrappì nel fumo di un fanale come un ragazzino a cui stanno rimproverando di essersi pisciato addosso.

Il terzo coricò delicatamente a terra il suo peso e ringhiò agli altri due statevi fermi, è roba mia.

Pippi scoprì che il terzo era il caposquadra. Non aveva paura, solo voglia di fumare ma forse non era il caso. Il caposquadra sibilò un ordine senza parole ai compari e quelli, più svelti che poterono, infilarono i confetti nel furgone. Poi allargò le braccia dirigendosi verso Pippi. Parlava, parlava, ancor prima dalla stretta amicale appestata di sudore e di dopobarba Mennen.

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Vespera



Mio fratello non ha mai avuto la classe di papà.

Lo dicono tutti che sbaglia le cravatte e che sceglie male il colore delle scarpe. E poi tratta i suoi assistiti senza il dovuto distacco. Quando legge un testamento sembra un presentatore di telequiz. Non arriverà mai a eguagliare papà.

Io gliel'ho ripetuto pure ieri che abbiamo litigato e lui s'è incazzato. Che ne sai tu della gente di classe, cassamortaro?

Cassamortaro. Mi chiama così mio fratello, quando vuole mettermi all'angolo. Pensa di offendermi e non capisce che un cadavere prima bisogna seppellirlo. Dopo, semmai, è il turno del testamento. Io starò sempre davanti a lui.

«Volevo ritrovare il sapore delle cose genuine e autentiche». È la risposta di mio fratello alla gente che gli chiedeva perché si fosse trasferito qui in paese, nella casa della nonna, rinunciando alla metropoli. È vero che dopo il divorzio andava avanti a cheeseburger, ma non era un cambio di dieta il motivo del suo trasloco.

L'attività notarile procedeva a singhiozzo da che mio padre aveva lasciato.

Mio fratello gli era subentrato ma non era la stessa cosa. E quel suo nuovo studio in pelle e laminato non era piaciuto nemmeno alla sua segretaria, che nei venerdì notte dei consuntivi settimanali — fantasiosa trovata di mio fratello per tirare tardi in ufficio — si vestiva come Bat-girl e lo prendeva a frustate sul culo. Fatto sta che la segretaria aveva traslocato dal dentista al piano di sotto, capelli d'argento e abbronzatura da velista tutto l'anno, e a mio fratello non era rimasto che lacrimare di nostalgia sugli atti di compravendita quando la notte sentiva lo schiocco della frusta, il sibilo del trapano e il casino che faceva la poltrona odontoiatrica stantuffando freneticamente su e giù. Per lui non c'era più partita.

Il colpo peggiore dal giorno in cui quell'angelo della mamma era scappata per sempre con un vedovo, uno degli assistiti di nostro padre. Mio fratello se ne era addossata la colpa. Era convinto che se lui e papà non avessero fatto il notaio, mamma sarebbe stata un po' meno puttana.

Il divorzio invece non aveva lasciato strascichi. Anzi, mio fratello conservava con affetto la lettera anonima arrivata a sua moglie, quella con la foto polaroid dove c'era lui con il naso e le orecchie da porcellino e le chiappe rosso fragola all'aria.

All'epoca io avevo già portato i vecchi mobili dello studio di papà nella casa della nonna al paese. Era stata una mossa azzeccata. Papà era ormai fuso e faceva cose strane.

Succedeva in media una volta ogni tre mesi. Spariva all'improvviso poi ci avvertivano che stava al paese o lì vicino. Siccome andarlo a recuperare significava un viaggio di settecento chilometri, era logico fermarsi nella casa della nonna. Anche lo psicologo diceva che ci volevano un po' di giorni per riavviargli il cervello al minimo dei giri. Così avevo pensato che una scenografia adatta potesse aiutarlo. Mio padre aveva fatto il notaio per trent'anni e da cinquanta si sentiva in colpa per aver lasciato la casa della nonna. La sua vecchia scrivania di noce, la libreria con la vetrina e la savonarola gli facevano effetto meglio del prozac.


La telefonata arrivava alle sei o alle sette del mattino, sempre al mio telefono perché quando papà se la squagliava mio fratello staccava la spina.

È qui, se lo venga a riprendere. E io partivo. Sull'autostrada mi sentivo come una prolunga elettrica che andava a ricongiungersi con una presa svitata, senza più nemmeno quel grumo di fili inservibili che danno l'illusione della corrente.


L'ultima volta ho ritrovato mio padre nella caserma della guardia di finanza del paese a mare. Davanti a lui un piattino di carta con un toast freddo e un bicchiere di vino. Mio padre aveva gli occhi infilati tra le stecche di una veneziana e puntava la motovedetta col cannoncino ancorata al molo.

Neanche mi ha salutato ma io vedevo tutti i suoi pensieri. Stavano sospesi a mezz'aria, fermi come le mosche d'estate, nei pomeriggi al paese. Li teneva a ronzare sul tavolo del comandante senza farli atterrare, come la bava della sottiletta nel toast, che s'era raggrumata senza toccare il piatto.

Mi sembrava talmente ridotto male, mio padre, che se solo gli avessi rivolto la parola di sicuro ci sarebbe stata una disgrazia di mare, da qualche parte.

Eccolo là, poaréto, non s'è voluto movere, no ga voluto manco una coperta o un caffè. Non lo tratti male, me racomando, l'è bon come un puteo.

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