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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione 45 Nota biografica 51 Nota bibliografica 59 Nota storica 69 PARTE PRIMA. La semiotica cognitiva degli anni Sessanta 71 I. Una nuova lista di categorie 83 II. Questioni riguardo a certe pretese capacità umane 107 III. Alcune conseguenze di quattro incapacità 145 IV. Fondamenti di validità delle leggi logiche: ulteriori conseguenze delle quattro incapacità 183 PARTE SECONDA. La fondazione del pragmatismo negli anni Settanta 185 I. Il fissarsi della credenza 205 II. Come rendere chiare le nostre idee 229 PARTE TERZA. Il ragionamento e la logica delle cose nelle Cambridge Conferences del 1898 231 I. La filosofia e la condotta di vita 253 II. Tipi di ragionamento 277 III. La logica delle relazioni 299 IV. La prima regola della logica 319 V. Allenarsi a ragionare 339 VI. Causalità e forza 363 VII. Abito 393 VIII. La logica della continuità 425 PARTE QUARTA. La logica dell'abduzione nelle Harvard Lectures on Pragmatism del 1903 427 I. [La massima pragmatica] 445 II. La fenomenologia 467 III. Difesa delle categorie 495 IV. I sette sistemi della metafisica 521 V. [Le tre scienze normative] 539 VI. La natura del significato 565 VII. [Pragmatismo inteso come logica dell'abduzione] 589 PARTE QUINTA. Gli ultimi scritti 591 I. Pragmatismo 627 II. Un argomento trascurato per la realtà di Dio 653 III. Saggi sul significato 673 IV. Delucidazione dell'arte di ragionare 691 V. Uno schizzo di critica logica 709 VI. Un saggio per migliorare il nostro ragionamento in sicurezza e fecondità 729 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 7A Charles Sanders Peirce si deve la fondazione tanto del pragmatismo quanto della semiotica. Ciò non è però che una piccola parte del contributo che egli diede nei più disparati campi del sapere. Fu chimico e fisico, mise a punto la misurazione dell'oscillazione del pendolo e lavorò alla determinazione esatta della forma della Terra, fu uno dei primi a fare misurazioni spettroscopiche sulla magnitudo delle stelle, migliorò alcune notazioni della logica booleana, scoprì la possibilità di una logica triadica con qualche decennio di anticipo rispetto a Lukasiewicz, formulò principi matematici e geometrici che vengono solo ora riscoperti dall'analisi non-standard. I suoi studi così variegati e complessi lo portarono anche a un ripensamento della metafisica sulla scorta di una conoscenza molto precisa di certe tematiche della filosofia antica e medievale. Nonostante la varietà dei suoi interessi, però, egli si considerò sempre innanzi tutto un logico. Qual è la logica alla quale Peirce fa riferimento? Nel 1905 in una lettera a Calderoni, il filosofo italiano che entrò in corrispondenza con lui, egli disse che il suo «solo contributo alla storia della filosofia» (CP 8.213) era quello contenuto nell'articolo Una nuova lista di categorie del 1867. La chiave di volta di questo articolo era lo studio del segno, inteso come fenomeno di rappresentazione capace di portare dalla molteplicità dei sensi all'unità dell'essere e viceversa. Per tutta la sua vita, il plesso dinamico-strutturale del segno sarà il filo conduttore intorno al quale si dispiegheranno le sue ipotesi in settori diversi, e spesso distanti, del sapere umano. Sulla comprensione del fenomeno «segno» e della dinamica della rappresentazione si fonderanno tutti i tentativi (più o meno riusciti) di sistematizzazione dell'intera conoscenza umana e dei rapporti che intercorrono tra le diverse scienze che la compongono. Nell'accezione peirceiana la logica, la teoria del funzionamento del ragionamento e la ricerca del genere di garanzia permessa dai diversi tipi di ragionamento, coincide con la semiotica e, in questo senso, copre il campo di indagine che va dagli elementi della rappresentazione di un fenomeno fino allo sviluppo proposizionale di un ragionamento.
Grazie alla centralità del segno, la ricostruzione del pensiero di
Peirce deve riconoscere una fondamentale unità all'interno di sviluppi e
concezioni così diverse fra loro da sembrare alle volte contraddittorie. In
un certo senso, quindi, non si tratterà che di un continuo approfondimento del
concetto di segno, che durerà fino agli ultimi giorni della vita
del filosofo americano. Tale approfondimento comporterà una continua
revisione delle strutture semiotiche e, di conseguenza, di tutte le scienze,
poiché esse in qualche modo devono sempre far riferimento alla semiotica per
poter essere conosciute ed espresse.
I. Le cinque fasi del pensiero di Peirce L'interpretazione dell'opera peirceiana è stata ed è soggetta a continue variazioni, che sono legate allo stato di avanzamento della pubblicazione dei manoscritti. Com'è noto, Peirce lasciò alla sua morte circa 80.000 pagine di manoscritti che la Harvard University acquistò dalla seconda moglie Juliette e che furono notati dal mondo accademico solo a partire dall'immenso tentativo di organizzazione compiuto dai due giovani ricercatori P. Weiss e C. Hartshorne. Gli otto volumi dei Collected Papers uscirono a partire dal 1931 (i primi sei fino al 1935, poi gli altri due a cura di A. W. Burks tra il 1955 e il 1958) e le prime interpretazioni dell'opera peirceiana, a causa dell'inevitabile frammentarietà della raccolta degli scritti, suffragavano l'ipotesi jamesiana che considerava le idee di Peirce come dei «lampi di luce in una notte nera come la pece» (EP2: 133). Solo negli anni '6o compaiono le prime prospettive unitarie di lettura, ma occorre aspettare la riorganizzazione dei manoscritti per opera di Max Fisch e della sua équipe perché dal caos delle tematiche affrontate emerga un disegno compiuto, organizzato secondo una Classificazione delle Scienze tutt'altro che casuale. L' Annotated Catalogue of the Papers of Charles S. Peirce di Richard S. Robin, pubblicato nel 1967, ricapitola i risultati di questo lavoro fornendo allo studioso una mappa di tutti i manoscritti. Da questo momento Peirce smette di essere l'autore della geniale massima pragmatica e di alcuni articoli innovativi sulla semiotica, per essere invece considerato un autore sistematico e consapevole dello sviluppo delle proprie idee. Scompare qui, definitivamente, la convinzione che Peirce, genio e sregolatezza, perdesse spesso e volentieri il filo della propria coerenza intellettuale. | << | < | > | >> |Pagina 163. La massima pragmaticaPer dieci anni gli interessi di Peirce si volsero sempre più decisamente all'aspetto logico-formale del pensiero. Era una conseguenza prevedibile dell'impostazione che emergeva dagli articoli degli anni '60. Una volta stabilita la processualità di ogni evento gnoseologico e individuate le categorie che ne segnano lo sviluppo, le categorie iniziali e finali — l'essere e la sostanza — perdono la loro consistenza già labile. La sostanza, infatti, era stata riconosciuta solo come ciò che è presente, senza ulteriori connotazioni, mentre all'essere era stata impedita una sussistenza autonoma, senza la predicazione di qualche qualità. La loro assunzione all'interno delle altre categorie, in un certo senso, diventava inevitabile. L'essere veniva assunto all'interno della sua prima predicazione, per quanto vaga essa potesse apparire, mentre la sostanza, come avevano già appurato gli ultimi sviluppi degli articoli del «Journal of Speculative Philosophy», finiva per coincidere con la rappresentazione e con i suoi sviluppi ideali ultimi. In questo quadro il problema kantiano della conoscenza, «come può il senso diventare coscienza?», secondo l'espressione degli scritti giovanili di Peirce (WI: 47), era ormai superato. Al suo posto era subentrata la questione della finalità di quel processo, ossia il problema di determinare la funzione del pensiero. Del resto, se non vi è sostanza al di là della rappresentazione (seppure finale e reale, come Peirce la intende) e non vi è essere se non nella proposizione, capire lo sviluppo della logica significa anche comprendere lo sviluppo del reale. Tale conclusione, però, rischierebbe di dare un'immagine della filosofia peirceana molto vicina all'idealismo hegeliano. Peirce ne era consapevole e, con la solita franchezza, spesso si definì un idealista oggettivo o un real-idealista. Tuttavia, le sue precisazioni dirigono l'attenzione verso la base fenomenologica sulla quale egli intendeva costruire l'impianto logico. È questa base fenomenologica che diventa sempre più imponente nel corso degli anni e che permette a Peirce di approfondire continuamente il concetto di segno e di rimanere fedele alla sua accezione di realtà «generale», secondo la quale le idee sono reali, cioè indipendenti da ciò che se ne possa pensare soggettivamente, operanti ed efficaci almeno quanto i singoli oggetti esistenti, la sola realtà riconosciuta dall'impostazione nominalista. Sarà l'impianto fenomenologico a mantenere la possibilità di un rapporto cognitivo tra semiotica e realtà. La realtà non è mai qualcosa totalmente al di là della conoscenza umana, accessibile solo grazie all'intuizione — posizione che, come si è detto, Peirce considera «nominalista» — ma non coincide neanche con la rappresentazione mentale. Tutta la conoscenza è fatta da segni, ma vi sono cose che non sono ancora conosciute e ci sono segni che si arrestano a livello di attribuzione di qualità o a una semplice indicazione (relazione). Lo stato fenomenologico mostra questa natura intermedia del reale, indipendente ma conoscibile. In questo consiste la «generalità» che Peirce ascrive al reale e che è molto simile alla natura communis di cui parlava Duns Scoto. Sulla struttura fenomenologica si basano due delle osservazioni logiche più interessanti per capire la formula pragmatica. La prima osservazione, che Peirce esprime in Il fissarsi della credenza, articolo scritto per il «Popular Science Monthly» nel novembre del 1877, è che il pensiero non ha altro scopo che la formazione di un'opinione che acquieti il dubbio che nasce dalla pratica della vita. Il motore della ricerca non è il dubbio cartesiano, il dubbio teorico, astrazione di filosofi intellettualisti, ma il dubbio vero, che nasce dalla crisi di una credenza precedente nella quale il nostro pensiero si trovava già immerso. La ricerca nasce all'interno delle problematiche concrete che sorgono dentro l'agire, nella pratica, ed è l'arco di pensiero che serve per passare dalla credenza precedente, messa in dubbio, a quella successiva che acquieta il dubbio e permette di agire. È il principio che dà vita al pragmatismo: il pensiero nasce dalla pratica e finisce con la pratica (il volere), «è un filo di melodia che corre attraverso la successione delle nostre sensazioni». James ne darà una versione psicologica e Dewey un'applicazione sociale; Peirce accentuerà molto la vastità del passaggio intellettuale, la forza della rappresentazione semiotica, e amplierà la concezione di pratica, fino a farla coincidere con le diverse modalità del reale, tuttavia non smentirà mai l'importanza della dinamica di questo sviluppo nel quale la base fenomenica ha un'importanza decisiva. La seconda osservazione di carattere fenomenologico è attestata da uno dei concetti fondamentali dell'altro articolo scritto per il «Popular Science Monthly», il celeberrimo Come rendere chiare le nostre idee: qui Peirce parte dalla considerazione che esistono diversi gradi di apprensione di un'idea e che i primi due, la familiarità e la definizione, precedono, anche se ne sono nettamente divisi, il processo logico in base al quale si raggiunge il terzo e decisivo stadio, quello di una chiarezza rappresentativa che fondi il ragionamento, cioè che stia alla base di un abito razionale. La presa di coscienza dell'esistenza di gradi di apprensione che non rientrano nella logica strettamente intesa rafforza l'aspetto fenomenologico indispensabile alla conoscenza e approfondisce il legame con la pratica che ogni ricercatore assume prima dell'avvio di qualsiasi indagine razionale. Peirce nel 1878 non si occupa di accertare se questi livelli di apprensione fenomenologica abbiano una razionalità e come essa sia legata alla fenomenologia da un lato e alla logica dall'altro, ma tali quesiti avranno ampio sviluppo in seguito. | << | < | > | >> |Pagina 653Questi saggi, ovviamente, si riferiscono alla ricerca della verità e, quindi, alla logica. Il titolo forse è un po' enigmatico; proponendo in questa prefazione il punto di vista dell'autore sulla logica e facendo vedere, in breve e per quanto concesso dalle sue limitate capacità, come questa visione differisca dalle altre che, quasi senza eccezioni, sono state adottate negli ultimi cinquant'anni, si spera di rendere subito sufficientemente chiaro lo scopo del libro. Due scienze studiano il ragionamento. Sono nettamente distinte l'una dall'altra come lo sono l'anatomia e la fisiologia. Una descrive il più minuziosamente possibile i vari eventi della coscienza che hanno luogo durante un ragionamento e mostra come questa serie di eventi cambi a seconda dei tipi di ragionamento. Ciò richiede un'indagine davvero acuta e intelligente perché nessuno — almeno nessuna persona normale — può ragionare in modo genuino e in buona fede, in modo da trovare una novità che non conosceva prima, senza prestare una permanente attenzione alla materia del suo ragionamento, sia essa l'abitabilità di Marte, la ragione esatta per cui quattro colori sono sufficienti a distinguere tutte le coppie di regioni adiacenti di una mappa, come conciliare ciò che conosciamo sulla chimica organica con ciò che sappiamo sugli elettroni, o qualsiasi altra materia; e ciò impedisce a colui che ragiona di avere dell'attenzione da riservare a ciò che succede nel frattempo nell'arena della sua coscienza. L'osservare ciò che uno fa e subisce nella sua coscienza interiore — ammesso e non concesso che si possa fare una simile osservazione, cosa della quale qualcuno dubita fortemente — è di certo molto più difficile che, per esempio, l'uso di un microscopio ad alta risoluzione impiegato nei test più difficili; ancor più difficile fare simultaneamente le due cose richieste, cioè mentre ci si concentra sul Ragionamento che bisogna impiegare per scoprire nuove verità, osservare direttamente ciò che fa la coscienza immediata (ossia se stessi o quell'altra parte di sé che si manifesta) e ciò che essa fa e subisce durante il ragionamento. Forse l'imbroglione può solo imbrogliare se stesso e la sola osservazione di se stessi è impossibile ben più dell'osservazione di ciò che sta al di là del naso o del vedere la differenza tra diversi stati della propria retina, quando vede e quando è nelle tenebre più profonde. Tu sei la domanda senza risposta; È strano che debba essere così difficile osservare ciò che passa nella coscienza, considerato che la coscienza non è altro che conoscenza immediata, che, per dirla in breve, è il proprio io per quanto riguarda la sensazione (feeling). Tuttavia, dal momento che c'è sempre stata questa stranezza, è certo che nessuno può osservare con precisione gli eventi della coscienza, specialmente mentre è impegnato a ragionare su qualcos'altro, a meno che non sia in grado di cogliersi impreparato, giocando un brutto scherzo al proprio io. Si può spiegare il fatto che possiamo realmente osservare i nostri io, almeno in un certa misura, grazie a un'osservazione che l'autore (che è un osservatore di sensazioni altamente specializzato) ha fatto molto prima di averne bisogno per un argomento filosofico; e, in ogni caso, l'io non sembra spiegabile altrimenti. Il fatto osservato, che forse spiega i paradossi, — almeno nel caso dell'autore, che, da questo punto di vista, la pensa come tutti gli altri, a dispetto di ciò che Galton ha messo in luce sulle differenze tra individui — è che nel ragionamento c'è un'alternarsi di due quasi-personalità, delle quali l'una propone argomenti e si rivolge all'altra personalità, più fredda, per confermare il giudizio sulla loro validità. Se si suppone che queste due coscienze siano connesse in modo tale che l'una possa osservare l'altra, la cui attenzione nel frattempo è tutta occupata con qualcosa d'altro, si ha una spiegazione ipotetica delle circostanze che ci lasciavano perplessi. Le due personalità in questo caso possono essere paragonate a una vecchia coppia di sposi che si conoscono così tanto che ciascuno sa ciò che l'altro sta pensando. È inutile qui esplicitare tutti i dettagli di quest'ipotesi, tuttavia essa getta luce su più di un fenomeno e introduce alcune verità che possono essere confermate in altro modo. La seconda scienza del ragionamento non presta alcuna attenzione a ciò che passa nella coscienza in quanto contraddistinto dai fatti sui quali si ragiona, a meno che la necessità di contrastare una falsa nozione di autocoscienza non lo renda indispensabile, perché il suo scopo principale è di accertare le condizioni secondo le quali un argomento può essere attendibile e fino a che punto. Ora, un argomento è un corpo di eventi accertati o di altri fatti reali dei quali si crede che la loro realtà mostri che un'altra proposizione specifica è vera nella realtà. Benché questa scienza trovi necessario, per una questione di ordine, che si estendano i propri risultati allo studio delle forme naturali di asserzione, tuttavia si interessa soltanto di accertare quale tipo di relazione tra i fatti asseriti nelle premesse per essere reali e il fatto concluso sia allo stesso tempo necessaria e sufficiente affinché l'argomento porti alla verità nel senso e nella misura in cui esso professa di portarvici o sia previsto che vi ci porti. Questa relazione è della stessa «consistenza» dei fatti ai quali si riferisce e non ha niente a che fare con l'evoluzione della mente nell'apprendere questi fatti, se non, come detto sopra, per evitare di essere ingannati dall'autocoscienza. | << | < | > | >> |Pagina 677Il prerequisito di gran lunga più indispensabile per ragionare bene è un vivido amore al vero, che cresce lentamente e non può esistere da solo, dal momento che, mentre lo si acquisisce, si ottiene sempre una considerevole esperienza nel ragionare, si imparano molti dei rischi che vi sono connessi e alcuni modi per affrontarli. Molte persone non sanno che cosa sia l'amore al vero e lo confondono con un amore al dogma, parola con cui si intendono tutte quelle affermazioni con le quali si concorda perché l'assenso nei loro confronti è stato inculcato prima che se ne potesse apprendere realmente il significato — se hanno un qualche significato — o in qualche modo che non permette di accertarsi in modo ragionevole della loro verità. Gente di questo tipo indossa un'armatura quasi impenetrabile per una nozione corretta di amore al vero, o persino per la verità stessa, mentre le formule che sono state loro inculcate, siano esse cattoliche, calviniste, spiritualiste, «scientifico-cristiane», «pseudo-pragmatiste», «positiviste», «omeopatiche», o di qualunque altro tipo, sono quasi sempre di una natura che mina o indebolisce la ragione che è naturale per l'uomo, ma che hanno insegnato alle loro vittime a guardare non solo come fallibile, ma addirittura come maligna. Che cosa intendiamo per «ragione umana»? È il nome di quella capacità che gli uomini hanno di accertare la verità grazie all'esercizio delle loro energie e a partire dalle informazioni che i sensi e le sensazioni possono fornire. Quindi, proprio per il significato di questa espressione, gli uomini non possono scoprire ciò che la ragione umana non può scoprire; quando i dogmatici parlano, come fanno di solito, dell'inevitabile errore della ragione umana, tradiscono solo il loro segreto intento di indurre i loro discepoli a non usare i soli i mezzi a disposizione dell'uomo per distinguere il vero dal falso. Vorrebbero indurre l'uomo ad autocostringersi, in modo irragionevole, a fare ciò che loro gli dicono, esercitando su di lui una specie di potere ipnotico acquisito quando egli era troppo piccolo per resistervi. Più tardi essi negheranno spudoratamente di aver agito in questo modo; così gli omeopatisti continuano a sostenere risolutamente che Hahnemann aveva ragione e dimenticano, guarda caso, che la sua dottrina era: 1) che tutte le malattie sono varietà della scabbia; 2) che è stupido chiedersi se la febbre gialla sia provocata dai morsi delle mosche, o le infezioni da quelli delle pulci, ecc.; 3) che l'unica cosa necessaria è dare una medicina che produca in un soggetto in salute una gran quantità di sintomi «simili» (poiché tutte le cose sono più o meno simili) a quelli del paziente; 4) che la potenza delle medicine è direttamente proporzionale a quanto si diluiscono e si scuotono le loro soluzioni, cosicché l'effetto di una goccia di acqua di mare presa nel porto di New York, dopo aver messo nel porto di Melbourne o di Sydney una goccia di medicina, sarebbe a stento percepibile perché la medicina non sarebbe stata sufficientemente diluita. Bisogna confessare che le dottrine degli omeopatisti non sono più contrarie alla ragione umana di quelle dei «cristiano-scientisti» e di varie altre dottrine inculcate da molte chiese, sulle assurdità delle quali alcuni pensano sia saggio far finta di chiudere gli occhi. Quindi, la pretesa spesso fatta dagli amanti dei sistemi dogmatici di essere ardenti amanti della verità è totalmente infondata. Si deve anche rifiutare una pretesa del genere quando è fondata su un interesse in qualche particolare branca del sapere, dal momento che nessuno, che capisca cosa si intenda con tali espressioni, permetterebbe che un filatelico, un filologo, uno storico del linguaggio o qualsiasi altro specialista pretenda di essere considerato, ipso facto, un amante del vero con più diritti di un altro. Allora, che cosa significa l'espressione «amore al vero»? C'è differenza tra un amante della verità e un amante della conoscenza. Forse la cosa più saggia per l'autore, evitando tutte le assunzioni su come debbano essere usate le parole che non siano implicate nella natura stessa di questi studi, è di limitarsi a stabilire come esse verranno usate in questo saggio. Sembrano esserci tre tipi distinti di amore della conoscenza: quello per la conoscenza vasta, quello per la conoscenza profonda e quello per la conoscenza accurata. La prima è la passione dell'esploratore di ogni campo, che sia un semplice passante, Stanley o Humboldt. Questo tipo d'uomo, giustamente, si rende conto che la limitata conoscenza di cose che appartenevano fino a un attimo prima alla Vastità ignota, genericamente parlando, è più vantaggiosa dell'omologo aggiungere nuovi dettagli riguardo a cose delle quali eravamo già a conoscenza. Gli uomini in generale dimostrano di pensarla in questo modo prestando più interesse alle scoperte di cose del tutto nuove che alla conoscenza più precisa e più significativa di cose già note; e hanno ragione, dal momento che si è appurato che, nel complesso, un aumento di conoscenza in qualsiasi materia richiede tanta più fatica quanto più era sviluppata la conoscenza di partenza, mentre l'utilità di un dato aumento di conoscenza diventa minore man mano che aumentano le conoscenze già possedute. Il lettore non può pretendere che queste due proposizioni siano qui trattate con l'ampiezza che occorrerebbe per provarle, considerato il ruolo minore che hanno in questa introduzione; ma la loro verità può essere illustrata da un esempio, che, quanto più si studierà il tema generale, tanto più si vedrà essere tipico di ogni situazione normale. Si supponga, allora, che il capitano di una barca faccia un viaggio da un porto a un altro lungo una costa uniformemente diritta. Se le acque tra i due porti non sono mai state sondate, il navigatore prudente farà saggiamente un giro ampio così da mantenersi in acque profonde per il maggior tempo possibile e ciò costerà, come minimo, un certo tempo. Supponiamo che un marinaio solitario e più avventuroso faccia lo stesso tragitto con un percorso più dritto, scandagliandone tutto il tempo la profondità; se scopre che la profondità è decisamente più uniforme di quella che ci si era aspettati, avrà ottenuto un'informazione di molto valore senza aver aggiunto a sé e al proprio equipaggio alcuna fatica. Ciò incoraggerà il primo navigatore ad accorciare il viaggio successivo, a un costo ridotto, dal momento che il tragitto sarebbe più diretto e più corto; e, dopo un certo numero di viaggi, otterrà condizioni migliori dai propri assicuratori. In seguito il governo si sentirà in obbligo di ordinare un'indagine regolare e molto costosa su quelle acque. Il risultato potrebbe mettere in luce pericoli fino ad allora ignoti e si dovrebbe ridurre sensibilmente l'assicurazione, ma non si potrà accorciare, se non di pochissimo, il tragitto. Così entrambi i principi sono stati illustrati. La ricerca governativa non ha fatto che raddoppiare la conoscenza ottenuta dal primo viaggio più corto, benché sia costata enormemente di più; e, quanto a guadagno, il primo viaggio corto è stato decisamente più efficace della ricerca governativa. Dalla lunga attenzione all'argomento l'autore è spinto a credere che, nonostante i singoli esempi possano essere molto diversi dalle generalizzazioni, essi esprimano la media comune dei fatti. La passione del ricercatore, allora, è giustificata dal fatto che, sulle prime, una vasta conoscenza ripaga di più. Ciò diventa vero in modo sorprendente nel caso di uno che svolga questo compito con le virtù proprie di un grande esploratore. Poche menti, però, e tra queste solo quelle più stravaganti che eminenti, possono essere interessate al solo entrare in contatto con centinaia di oggetti diversi, siano essi individui, classi o proprietà. È più conveniente conoscere molto di una selezione di essi. Fino a che sono stati conosciuti solo quattro asteroidi o pianeti minori, di solito, la gente colta ne conosceva i nomi; ora che se ne conoscono più o meno settecento, in genere neanche gli astronomi se ne interessano, a meno che non ci siano caratteristiche particolarmente interessanti. Lo stesso cambiamento di interesse è avvenuto nella storia naturale e in chimica e deve avvenire in ogni scienza. La conoscenza profonda diventa più conveniente della conoscenza vasta e ogni scienza col tempo deve dividersi in molte scienze diverse. La passione per la collezione di fatti che concernono i singoli oggetti, senza nessuno scopo definito in modo più preciso, sarà qui denominata «amore dell'imparare», sia che l'oggetto o gli oggetti ai quali i fatti si riferiscono siano individuali (e i fatti siano le storie o le descrizioni dei loro oggetti) sia che gli oggetti siano tipi o classi di cose (e i fatti si riferiscano al modo e al luogo secondo il quale essi o le loro proprietà anatomiche ecc. sono stati ottenuti) sia che siano caratteri o proprietà (e i fatti raccolti su di essi siano i diversi gradi in cui essi sono posseduti da diversi tipi di sostanze o cose) o qualunque altra possa essere la natura degli oggetti o dei fatti che la persona colpita da questa passione voglia collezionare. Coloro che parlano della passione che qui abbiamo chiamato «amore della conoscenza», e, in certa misura, anche coloro che parlano di «amore dell'imparare», hanno in mente la conoscenza di una data proposizione come se si trattasse di uno stato definito come quello di una data cifra depositata in banca, che si presume che si trovi al sicuro, nonostante si sappia che le cose non stanno esattamente così. Per esempio ogni chimico che «conosceva» i pesi atomici diceva nel 1904 che quello del tantalio era 183, ma nel 1909 diceva che era 181, e verso la fine del 1910 riteneva che esso fosse circa 182½, benché non ci fossero stati cambiamenti nel frattempo. Nelle scienze fisiche più esatte si è ora soliti aggiungere a ogni determinazione di valore il segno + – seguito da una stima (normalmente riconosciuta come troppo bassa) della «probabilità di errore» della determinazione. Si può dubitare del fatto che ci sia una sola frase della cui verità si possa essere assolutamente certi. Se c'è, è probabilmente qualcosa di questo genere: «Non possiamo essere sicuri che un'affermazione esatta su un fatto attuale sia del tutto esente da errori». Così, non siamo del tutto sicuri che un corpo che si muove non influenzato da nessuna forza continuerebbe a descrivere o a percorrere le stesse distanze negli stessi tempi, a meno che non misuriamo il tempo attraverso la distanza che il corpo descrive, e in questo caso l'affermazione non è di fatto, ma è solo una definizione inversa di ciò che intendiamo con «stesso tempo». L'intera questione emergerà a tempo debito. Ciò che è pertinente a quanto stiamo dicendo ora è il richiamo a prestare attenzione al fatto che ci stiamo già avvicinando al tempo in cui gran parte della nostra conoscenza, in fisica almeno, potrà essere espressa nella forma «una data quantità (definita accuratamente), probabilmente, sembra non essere più grande di un certo valore né più piccola di un certo altro»; e possiamo pensare che le altre scienze naturali, anche quelle che si riferiscono al linguaggio, alla storia, ecc., debbano alla fine arrivare a condizioni simili, cosicché non dobbiamo più cercare aumenti improvvisi della nostra conoscenza, ma piuttosto dobbiamo cercare di restringere i limiti tra i quali sembra probabile che, alla fine, si trovi la verità. Una volta raggiunto questo punto possiamo calcolare il costo probabile (in termini di sforzi umani) del restringere quei limiti in un certo spettro e anche il guadagno pratico che consegue a tali limitazioni; calcolando queste due quantità per ogni nostro problema, i quozienti dei probabili risultati divisi per i loro costi probabili rappresentano l'importanza delle diverse ricerche in quel preciso momento, importanza della quale ovviamente cerchiamo il valore medio mettendo in pratica una saggia economia scientifica. La sola prospettiva di un tale futuro già riempie i più saggi uomini di scienza di un desiderio ardente di poter misurare in questo modo i diversi problemi: questa passione sarà qui indicata con il nome di «amore dell'economia scientifica». Questa sembra essere la più alta forma che l'amore per la conoscenza è stato capace di assumere fino ad ora. | << | < | > | >> |Pagina 701Espongo adesso per sommi capi la miglior spiegazione che posso dare del posto della Critica Logica fra le scienze. Un minimo di conoscenza di questo tipo è indispensabile per capire la dottrina stessa della Critica Logica. Essa implica uno schema o organizzazione generale delle scienze e ho trovato sufficientemente soddisfacente quella che sto per proporre. Osservata da un punto di vista più alto — cioè in modo più generale — confesso che non sono del tutto soddisfatto di essa, ma non sono sicuro che si potrebbe migliorarla molto. La sottopongo al lettore perché, senza occupare molto spazio, serve a dirigere la sua attenzione verso qualche utile verità e aiuta la mia spiegazione.Si divida l'intera scienza in: primo, Scienza Euretica; secondo, Scienza di Revisione, o Scienza della Scienza; e, terzo, Scienza Pratica, che abbraccia ogni ricerca scientifica che è condotta per qualche fine ulteriore. Si includano nella scienza di revisione tutti i manuali e i compendi, tutte le opere come quelle di Comte, Whewell e Spencer, tutte le classificazioni e le storie della scienza, ecc. Si divida la Scienza Euretica in: primo, Matematica, che non si assume nessuna responsabilità della verità delle sue premesse; secondo, Filosofia o, come la chiama Bentham, Cenoscopia, che non fa nessuna osservazione nuova, ma tira semplicemente le conclusioni che può da verità universalmente indubitabili e da fenomeni universalmente ammessi; e, terzo, la Scienza Speciale, l'Idioscopia di Bentham, che si preoccupa principalmente di far luce su fenomeni finora sconosciuti. Dell'Idioscopia vanno riconosciute due parti: una Psichica o Umanistica e l'altra Fisica. In ogni parte troviamo allo stesso modo tre ordini di scienze: primo, la Scienza Nomologica, o Scienza delle Leggi; secondo, la Scienza Classificatoria, o Scienza dei Tipi; terzo, la Scienza Descrittiva ed Esplicativa, o Scienza degli Oggetti Individuali. C'è più o meno un parallelismo nelle suddivisioni di questi Ordini nelle due parti. Sotto la Fisica Nomologica troviamo la scienza generale della Dinamica e le branche speciali della Fisica, Molare, Molecolare ed Eterica, e queste a loro volta suddivise secondo i diversi tipi di abilità e di condizioni che richiedono, così sotto la Scienza Psichica Nomologica troviamo la Psicologia Generale nettamente distinta dalla Politica Generale, dall'Economia, dalla scienza generale della Legge, ecc., e queste suddivise per cause simili a quelle della suddivisione della Fisica. Osserviamo inoltre, allo stesso modo in entrambe le parti, che, siccome gli oggetti di studio si moltiplicano, le Scienze Descrittive, come la Biografia dal lato Psichico e l'Astronomia da quello Fisico, tendono a diventare, o piuttosto a generare, la Scienza Classificatoria. Le scienze classificatorie si sforzano di diventare nomologiche, mentre le scienze nomologiche hanno mostrato solo occasionali aspirazioni verso un carattere metafisico. Sotto la Filosofia ci troviamo ancora una volta costretti — a meno di non eliminare degli elementi — a fare una tricotomia riconoscendo prima la Fenomenologia, poi le Scienze Critiche o Normative e, infine, la Metafisica, la scienza della realtà. Tra le Scienze Normative, se ne riconoscono generalmente tre, legate rispettivamente a come dovrebbero essere governate le nostre Sensazioni, le nostre Energie e i nostri Pensieri. Ma di queste tre idee di scienza, di una sola si può dire che sia già venuta alla luce, se intendiamo per «scienza» ciò che gli stessi uomini di scienza intendono quando parlano tra loro, cioè se intendiamo per scienza l'attività totale di un gruppo sociale i cui membri dedicano il loro intero essere a trovare — e ad aiutarsi l'un l'altro a trovare — la verità in un certo settore nel quale sono specificamente attrezzati per la ricerca; che stanno facendo questo per nessun altra ragione che per rendere nota la sacrosanta verità; che sono sostanzialmente d'accordo quanto al metodo generale per perseguire tali ricerche e quanto a ciò che è stato di fatto già scoperto nel loro campo. Dico che se dovessimo prendere la parola «scienza» in questo senso professionale, un senso chiaramente troppo ristretto per l'uso ordinario (e che mi preoccupa particolarmente), allora l'Etica è la sola delle Scienze Critiche o Normative che per ora può dirsi davvero venuta al mondo e, persino quest'ultima, per quanto la sua storia sia stimabile, non è ancora abbastanza matura per comprendere i propri scopi. Essa è ancora ferma all'obsoleta pretesa di insegnare agli uomini ciò che essi sono «obbligati» a fare. Da uno scaffale alto cinque piedi, pieno esclusivamente di trattati su questo argomento, la maggior parte dei quali erano opere importanti del diciannovesimo secolo, ho preso il terzo in ordine di intelligenza, per essere sicuro che questa concezione prevalga ancora; chiaramente, a pagina 5, ho trovato proprio questa affermazione senza alcuna qualificazione. Non ci si meravigli poi se i giovani sono selvaggi! Dovrebbero vergognarsi se non si irritassero per una simile pretesa. Dio ha creato ogni uomo libero e non «obbligato» ad alcun tipo di condotta, se non a quella che egli liberamente sceglie. È vero che egli capisce che non può essere soddisfatto senza un governo serio e inflessibile sui suoi impulsi, ma in questo caso è un autogoverno, istituito da se stesso per adattarsi a se stesso; in gran parte copiato, questo è vero, dal governo che i suoi genitori gli imposero quando era bambino, ma proseguito solo perché egli trova che esso risponda AI PROPRI scopi e non perché sia «obbligato» in un qualsiasi senso, a meno che egli non sia in realtà uno di quegli individui dalla mente debole, che rimangono attoniti all'idea di avventurarsi a sostenere apertamente opinioni sulla condotta personale diverse da quelle della stimabile compagna del buon diacono Grundy. In alcune comunità questo tipo di giovani è abbastanza diffuso, ma quelli che formano la maggioranza, e anche la parte migliore, rispettano la convenzione sociale nei limiti del necessario, senza essere obbligati o far finta di essere obbligati in nessun modo, almeno finché vivono in un paese dove possono essere liberi. Le madri della borghesia, ovviamente, prevengono le loro figlie dal vedere molti di questi giovanotti di cattiva condotta e questo influenza fortemente qualsiasi giovane la cui mente non sia traviata. Ciò, però, non lo obbliga ancora e, direttamente, non ha per niente la natura di un'influenza morale. Qualsiasi pretesa di «obbligare moralmente» gli uomini, invece, è un'influenza morale ed è una spinta in direzione della cattiva condotta. Tuttavia non è così forte come si pensa. Ciò che più spinge gli uomini all'autogoverno è un intenso disgusto per un tipo di vita e la cordiale ammirazione per un altro. Un'attenta osservazione degli uomini lo mostra e coloro che desiderano portare avanti l'esercizio dell'autogoverno devono modellare i loro insegnamenti di conseguenza. Nel frattempo, invece di una stupida scienza dell'Estetica, che cerca di portarci il piacere della bellezza dei sensi — con cui intendo ogni bellezza che si rivolge ai nostri cinque sensi - ciò che deve essere favorito è la meditazione, il ponderare, il sognare a occhi aperti (sotto il dovuto controllo) riguardo agli ideali — oh no, no, no! «ideali» è una parola di gran lunga troppo fredda! Direi piuttosto aspirazioni appassionatamente ammirate per uno stato interiore che ciascuno può sperare di raggiungere o di avvicinare, ma la cui complessità più specifica possa incantare il sognatore. Il nostro dubbio religioso contemporaneo prova che l'indebolimento del tipo di meditazioni alle quali mi riferisco, lasciate come sono al fondo della più bassa stiva della nave che porta le speranze dell'umanità, è davvero una terribile calamità. Si dovrebbe stare attenti a non reprimere troppo il sognare ad occhi aperti. Governalo — à la bonne heure! - voglio dire: controlla che l'autogoverno sia esercitato, ma sta attento a non far violenza a nessuna parte dell'anatomia dell'anima. Mi son permesso questa sfacciata esternazione dei miei sentimenti (in contrasto da questo punto di vista, ma non da altri, con il confronto fra ragioni fatta sul «Popular Science Monthly» del gennaio 1901) perché lo spazio per una discussione sarebbe stato più del dovuto, invece i sentimenti sono troppo intimamente legati alle mie opinioni logiche per permetterne una qualche dissimulazione.
Ora, che cos'è la Logica? Notai molto presto che è del tutto
indifferente che essa sia vista in connessione con il pensiero o con
il linguaggio, che è l'involucro del pensiero; il pensiero, infatti, è
come una cipolla: non è composto che da involucri. Questo mi
portò a pensare che la logica ha a che fare con qualche tipo di
segno. Ma avevo osservato che la divisione dei segni che risulta
utile nella maggior parte dei casi è quella tricotomica in: primo,
Similarità, o, come preferisco dire,
Icone,
che servono a rappresentare i loro oggetti solo in quanto in se stesse
assomigliano a loro; secondo,
Indici,
che rappresentano i loro oggetti indipendentemente da ogni rassomiglianza, solo
in virtù di una connessione reale con essi; e terzo,
Simboli,
che rappresentano i loro oggetti indipendentemente sia da ogni rassomiglianza
sia da ogni connessione reale, perché disposizioni o abiti artificiali dei loro
interpreti assicurano loro di essere compresi in questo modo. Le Icone sono
i soli possibili segni
ultimi
delle qualità sensibili e, a dire il vero, delle Sensazioni in generale.
Ma un metro ordinario, che non è altro che un rappresentante del metro che
dovrebbe essere conservato a Westminster Palace, non è solo Simile in se stesso
a quel prototipo, dal momento che tutte le lunghezze, per quanto ne sappiamo,
sono precisamente identiche in se stesse; questo spiega perché preferisco
chiamare «Icone» i segni di questa classe. In ultimo, il metro rappresenta il
metro standard nonperché è come quello standard, ma perché se lo si dovesse
mettere in una certa relazione fisica attuale, chiamata
paragone,
con lo standard - come di fatto deve essere stato messo, almeno mediamente, se
non immediatamente — non darebbe nessuno dei due soli risultati concreti
positivi,
cioè non lo si troverebbe praticamente né troppo lungo né troppo corto.
Possiamo facilmente notare che questa verità è generale, e che la presenza o
l'assenza di falsità può essere assicurata definitivamente e direttamente solo
da un Indice e può essere portata alla mente definitivamente e direttamente solo
da un'Icona di un Indice. Ma è ancor più chiaro che
se il desiderio che uno ha non è né quello di provocare un'idea né
di registrare un fatto, ma di lanciare un appello razionale, il solo tipo di
segno che forse può rispondere allo scopo è quello che
rappresenta il suo oggetto in virtù della disposizione dell'interprete, cioè un
Simbolo. Visto poi che la condotta del ragionamento è il fine ultimo del logico
in quanto tale, pensai che egli
avrebbe dovuto riconoscere il Simbolo come l'oggetto del suo studio,
considerando quest'ultimo solo riguardo alla sua relazione
con l'oggetto che rappresenta. Ma mentre è possibile che fra qualche centinaio
di anni gli uomini conoscano così tanto di più di ciò
che conosciamo oggi e che i problemi si siano moltiplicati con tale
incremento di conoscenza — in modo simile al numero che aumenta in conseguenza
dell'aumento del suo logaritmo — che lo
studio delle relazioni necessarie dei simboli in generale con i loro
oggetti possa fornire un'occupazione sufficiente per un gruppo
scientifico, sono arrivato a pensare che per ora l'intera investigazione sui
segni in generale non è troppo vasta. Inoltre, questo studio generale deve
essere fatto da qualcuno e non vedo quale altro
gruppo possa farlo. Ovviamente gli psicologi devono fare, come
stanno già facendo, i loro inestimabili studi sulle funzioni della
creazione e dell'uso dei segni — li chiamo inestimabili a dispetto del fatto che
essi non possono assolutamente arrivare alle loro
conclusioni finali, finché altri studi più basilari non sono arrivati al
loro primo raccolto — studi che sono naturalmente guardati dallo
psicologo (il che non significa che ogni psicologo li guardi) con lo
stesso tipo di disprezzo che per natura rivolge agli ancor più vacui
studi del matematico, o meglio che vi rivolgerebbe, se la matematica non fosse
una scienza così antica da incutere rispetto con la ricchezza dei suoi granai.
Si dice che anche la Logica sia una scienza antica. Sì, ma si provi a rivolgerea
un diligente studente della sua immensa letteratura una domanda che riveli il
grado di rispetto per il modo nel quale i devoti di Logica hanno speso il
loro tempo, sempre che, prima ancora che la questione sia posta,
qualche impegno urgente non l'abbia obbligato ad andarsene con vero rammarico
per il suo contegno.
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