Copertina
Autore Angelo Pellegrino
Titolo Piombo felicissimo
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2005, eretica , pag.176, cop.fle., dim.120x167x13mm , Isbn 978-88-7226-851-3
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa italiana , citta': Palermo
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Pagina 3

Sabato


Un'ora di ritardo, è normale. È qui che l'Europa Centrale mette fine al sud della sua esistenza. Che farsene ormai del tempo giunti a questo punto? Ma così rischio di arrivare troppo tardi. Non ho tempo per fermarmi al bar. Questa volta inseguo una donna. Ho bisogno di un taxi subito:

– A Pallavicino, il più presto possibile!

Ora, dire una cosa del genere alla Stazione di Palermo di prima mattina significa voler entrare di colpo e disarmato nelle reazioni più misteriche della città. Nessun taxista qui è in grado di accettare una volontà così ferma e clamorosa. Che cosa ci può essere di tanto urgente da fare in una borgata all'altro capo della città come Pallavicino, di sabato per giunta, qualcosa che lui stesso, il taxista, non sappia meglio del cliente che trasporta?

Fuga per la città che ha un sonno straziante. Svegliarsi qui è esattamente il suo contrario, è com'esser costretti a una faticosa morte. Gli individui che vanno popolando le strade alla spicciolata sono morti resuscitati per qualche dispetto che s'aggirano dentro sacchi d'esistenza. Fra qualche ora, infiammandosi il sole, si trasformeranno in orde di diavoli sulfurei e occulti pronti a schizzare dappertutto.

Mi fa una certa impressione correre in taxi per questa città, fino a quando ci ho vissuto non facevo che attraversarla a piedi. Il taxi per me comincia da adulto, in altre città lontane da qui: fa troppo Europa, contrasta troppo. Ma qui è tutt'una catastrofe di contrasti che non ho risolto, una convalescenza lentissima che mai finirà semplicemente perché non la voglio far finire. Ora mi domando perché inseguire questa donna? Che ragione c'è? Esistono molte donne ovunque che possono soddisfare il nostro desiderio. Intignarsi così per una sola è follia.

Questa donna ormai l'ho perduta, lo so con una lucidità portentosa. Dovevo piombarle in casa una settimana fa. Stavo già partendo, ero sulla porta della mia casa a Roma. Suona il telefono, lunga conversazione. Felice di sentire la sua voce, commetto l'errore di rivelarle per vanità che sto proprio venendo a Palermo per lei, una sorpresa. Lei, mentre mi minaccia voluttuosamente di non farle mai una cosa del genere, mi prega di aspettare ancora un po'. Contento di questa risposta aperta, accetto. E qui è finita. Mai rispettare la volontà di una donna debole. Se dopo la telefonata fossi partito lo stesso, anche senza più l'effetto sorpresa, se avessi fatto allora ciò che tento di fare ora, una volta entrato in casa sua lei non avrebbe più avuto la forza di mandarmi via. Me l'ha pure detto una volta: – Se vieni, io poi non ho più il coraggio di buttarti fuori.

Mi sarei istallato in casa sua per tutto il tempo che avrei voluto, l'avrei aspettata al ritorno dalle sue ridicole prove teatrali, le avrei cucinato, pulito la casa, ordinato la vita deforme di femmina mutante, anch'io mutante per necessità di sesso e di senso. L'avrei per il resto posseduta a sangue, perché è una storia di sangue ancestrale, nient'altro.

Invece l'ho rispettata.

Viale del Fante, lo Stadio Comunale, Villa Bordonaro, poi la Palazzina Cinese. Ci siamo, ecco Pallavicino, il taxista rallenta.

– Ancora più avanti, per via Castelforte... glielo dico io quando deve fermarsi.

Dove sarà l'entrata della villa? Quando sono venuto qui la prima volta erano circa le quattro del mattino, talmente eccitato da quanto stava accadendo che non potevo fare attenzione al posto. Fra noi era precipitato un silenzio caldo e teso, una tregua momentanea di cui avevamo entrambi un bisogno fisico dopo tre ore di fatica emotiva. Oliva guidava quella vecchia Renault carica di oggetti e di cartacce di una ripetitiva, stereotipata miseria artistica lungo un silenzio notturno liscio e vuoto, mentre sfiorava il quartiere dello ZEN e imbucava da Partanna il lungo budello di via Castelforte. Io avevo smesso di soffrire quel turbamento che mi provocava attraversare insieme a lei luoghi di questa città appartenuti a un'altra mia vita.

Oliva guidava con lo sguardo bloccato, come di chi ha preso una decisione che ormai intende portare fino in fondo, e vuole mostrare la sua risolutezza. C'era qualcosa di duro ma anche di ironico in quel suo silenzio, e stranamente in quell'ironia calma e già intima qualcosa di familiare, consanguineo, come fosse adesso mia sorella o almeno una mia cugina. Una luce domestica in quegli occhi neri, quando ogni tanto li potevo scorgere sfiorati dai fiochi e sinistri lampioni di quella strada da cimitero. Come se si fosse già compiuto almeno mentalmente (forse così era) il contatto fisico che ci attendeva ormai sicuro.

Non potevo vedere in quel momento, qui di notte è buio cupo, questo stretto viale un po' curvo, bordato da oleandri bianchi e rosa disperatamente feroci. Eppure c'era una grande luna piena proprio sopra l'edificio di questa villa settecentesca simile alle poche altre sopravvissute nella Piana dei Colli in mezzo a labirinti di cemento.

La macchina di Oliva si fermò proprio in questo spiazzo, qualche cane abbaiò, il resto era silenzio d'agguato. Ora in questa luce cruda – il sole è ancora dietro la mole di Monte Pellegrino – lo spiazzo s'attarda nel livore desolato di tutte le mattine palermitane.

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Attraversiamo una volta per tutte via Maqueda e incamminiamoci verso Ballarò, mandamento Palazzo Reale, dove una sera di solo pochi giorni fa ho accompagnato Oliva a comprarsi il fumo in una buia stamberga, abitata da un giovane paraplegico che rideva sempre. Entrerei volentieri dentro la Biblioteca Comunale dalla parte di piazzetta Brunaccini, lasciando alle spalle l'ineffabile portico dorico che fronteggia beffardamente una devastazione di casupole e di baracche degne del migliore terzo Mondo.

Poi attraverserei la penombra fresca e nitida del cortile. La Guida lo chiama un pomposo cortile a portici del '600. Non è vero. La grande luce lo sbianca, lo ingentilisce. Salirei lo scalone che porta alla sala di lettura. Che cosa sarà sembrato questo posto la prima volta a un ragazzino venuto al mondo in una casa assolutamente priva di libri? Devo aver cancellato immediatamente una tale invasione inattesa, e creduto d'averla subita da sempre. Le grandi impressioni di ciò che si desidera le incorporiamo subito. Le facciamo nostre come fossero patrimonio originario, legittimo, una sorta di privilegio aristocratico tutto inventato. Diventiamo di colpo antichi feudatari. Quando venni qui in una di quelle mattinate di meraviglia solitaria che mi procuravo semplicemente marinando la scuola, l'edificio doveva essere stato restaurato da poco. Un odore misto di vernici, polvere, vecchi libri, legni, armadi tarlati, cuoi disfatti, dava per risultato un profumo dolciastro di confetti rinchiusi, lo stesso che annusavo tutte le volte che osavo un'incursione nella vetrinetta dei biscotti di nonn'Anna alla Vucciria.

Nella Biblioteca Comunale ho gustato la perfetta sospensione dello spaziotempo, un senso di protezione arcana. Mi sono ricollegato e saldato per sempre, almeno per quanto durerò, alla tradizione del pensare, del vivere e del fare artistico dei miei antenati siciliani. Nel fluire delle generazioni rimane solo quel poco di sensato che hanno fatto quei signori un po' rigidi, ma in realtà simpatici, immobili su tele scurite e scrostate, i quali mi fissavano tutti insieme dall'alto in basso.

Il famedio dei siciliani illustri – appresi solo allora che si chiamava così – correva tutto intorno al ballatoio sovrastante il salone di lettura.

Mentre studiavo avevo sempre i loro occhi addosso, da Empedocle a Pirandello, e mi pareva che fossero tutti d'accordo, forti e uniti in un'ininterrotta catena, nell'istigarmi il bisogno di accrescere il loro numero. Purtroppo man mano che mi avvicinavo ai più moderni, i ritratti si facevano davvero orribili. Non sono però mai riuscito a conciliare il fatto di sentirmi discendente da quei grandissimi spiriti e appartenere come loro a una delle razze più criminose del pianeta. Comunque c'era ancora spazio lungo la ringhiera del ballatoio, il loro invito era legittimo, non avrei tolto il posto a nessuno. Solo che a quel tempo ero terribilmente lontano dall'intuire in che modo avrei dovuto continuarli. A quindici anni ero certo che sarei diventato un archeologo, e francamente già sentivo che era un po' poco per ascendere a quel sommo ballatoio. I miei eroi erano Antonio Salinas ed Ettore Gabrici, piccoli eroi locali, ma da parte mia altrettanto degni di emulazione. Fu proprio quando mi imbattei in una memoria di Gabrici sulle metope arcaiche di Selinunte che ebbi il primo sbocco di pura felicità conoscitiva, solo perché scoprii come si chiamavano le divinità della triade delfica da me amate carnalmente nella sala principale del museo archeologico, soprattutto gli epiteti dei due figli di Latona, che letti per la prima volta in greco – kitharodos e toxotes – mi facevano impazzire di gioia, come se finalmente avessi scoperto il modo di parlare la loro lingua, e aumentavano il mio piacere quando carezzavo quelle figure divine di calcare tufaceo.

Eppure proprio allora compresi che qualsiasi cosa avessi fatto, altro non sarebbe stato che una continuazione nelle forme vive del mio tempo di quanto già compiuto da quei signori del ballatoio. Solo questo m'era concesso. Continuare. Certo, un impegno un po' gravoso che può avere nociuto alle mie giornate di ragazzo. È sciocco esserne fieri, avevo imposto alla mia età pesi troppo gravi.

Di questa biblioteca non avrò letto che la cinquemillesima parte dei suoi trecentomila volumi, nessuno dei suoi mille e settanta incunaboli e cinquemila manoscritti – fra cui autografi di Giovanni Meli – né ho mai visto i settantanove codici miniati, né la partitura originale dei Puritani, né la collezione di monete arabosicule. Ma essa deve aver condizionato pesantemente la mia concezione di biblioteca, rigorosamente conservatrice, assai poco pubblica, una sorta di luogo dove si esercita una forza passiva privilegio di pochi, una concezione chierica insomma, tradizionalmente italiana. Non c'era nessuno quando cominciai a frequentarla, solo quattro o cinque vecchi signori e ogni tanto un giovane prete. Nessuna Oliva, neanche l'ombra. Qualche anno fa la ritrovai stracolma di ragazzi che la usavano per fare i compiti di scuola fuori casa. Difficile trovare un posto a sedere. Ci sono rimasto male. Il ballatoio col famedio mi parve si fosse allontanato verso l'alto ancora di più. La democrazia aveva sconfitto gli anziani, non ce n'era più uno.

Certo non poteva pensarmi qui il vicepreside del liceo Garibaldi quella mattina che telefonò deciso a mia madre:

– Lei sa dov'è suo figlio?

L'intonazione era sadica e mia madre si allarmò subito, ingenua al massimo grado come sempre:

– Perché, non è a scuola?

Il vicepreside taceva.

– La prego, mi dica dov'è!

– Che ne sappiamo noi. Abbiamo telefonato per avvertirla che non lo vediamo da una settimana.

Mia madre, sollevata, gli rispose con un disprezzo di cui solo rare volte era capace:

– Quando non viene da voi, va a studiare alla Biblioteca Comunale. Può andarlo a trovare, se vuole.

Si può immaginare che vita amara ebbi in quel liceo, e che lotta immane fu strappare un diploma.

Comunque addio, illustri siciliani del ballatoio, è possibile che non ci rivedremo più. Palermo, per mia sfortuna, non è Lubecca, e sarà difficile che io debba un giorno come Mann pronunciare qui sotto i vostri occhi un discorso dal titolo Palermo come forma di vita spirituale.

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Di nuovo a piazza Politeama.

Voglio andare al cinema per non pensare, ma oscenamente scelgo un film d'amore. Vicino al cinema ABC c'è la rosticceria Giannettino, passaggio obbligato per gli arancinomani palermitani. Penso di portarmi dentro un paio d'arancine e sbocconcellarle al buio, m'è sempre piaciuto. Buttata in un angolo di Giannettino, subito dopo gli scalini, c'è una vecchia a terra, lacera e reietta, ridotta in uno stato come mai avevo visto prima a Palermo. È stravolta come qualsiasi barbona d'una città del nord, ma qui ha qualcosa di ancora più mostruoso perché è forse l'unico caso, o quasi. Una pioniera. È il degrado al suo esordio. La storia del barbone palermitano è appena cominciata, si vede che non ha addosso tradizione, letteratura. Queste apparizioni a Palermo mi danno il senso fisico del passaggio del tempo. Non c'erano quando vivevo qui, come non si vedevano i nuovi nazareni, i cristi fricchettoni col piattino in mano e un cagnone bastardo, che ora si umiliano sui marciapiedi di via Ruggiero Settimo godendosi tutta la loro libertà. Sono per lo più tedeschi, popolo di dominatori per la mia mente infantile. Sono partito per andare al nord, proprio verso questo genere di uomini che nel frattempo ha preferito scendere qua.

Rinuncio per il momento alle arancine, mi è passata la fame. M'imbuco come un sorcio inseguito dentro L'ABC. Mi ricordo di colpo che cosa significava andare al cinema quando vivevo in questa città, era semplicemente la ricerca del mondo di fuori. Sentirmi per un paio d'ore in Europa, in un posto che immaginavo per forza migliore perché era altrove. Ma questa volta il cinema non può funzionare. Il rapporto adesso è capovolto. Non voglio allontanarmi da Palermo, è qui che devo rivedere Oliva.

Dalla gran quantità di uomini nella sala ancora accesa, una collosa massa grigiastra, vedo subito che la vecchia abitudine di non portare la donna al cinema non è granché cambiata. Soltanto i mariti aristocratici portavano la moglie al cinema negli anni Cinquanta, cioè i pochissimi che si potevano permettere questa spregiudicatezza. In fondo mio padre faceva come tutti, ci veniva da solo. Il suo spettacolo preferito era quello delle sei, dopo l'ufficio. Mai sarebbe uscito dopo cena, per nessun motivo al mondo. Appena rientrava, verso le otto e mezza dopo il cinema, metteva il paletto alla porta, mangiava e andava a dormire. Io toglievo quel paletto, uscivo e mi ritiravo ad ore sempre più tarde, spesse volte per il puro gusto di far soffrire mia madre, che mi aspettava in preda all'ansia su e giù per il balcone in vestaglia mentre io, girato appena l'angolo del nostro palazzo, me ne stavo semplicemente seduto sul marciapiede a meditare con qualche amico sugli ancora giovani misteri della vita. Chissà se allora sospettavo già che era proprio quel gusto di farla soffrire a tenermi per strada di notte, e non solo il naturale bisogno di libertà nemico della sua ansia.

Non sono mai riuscito a svelare l'enigma dell'avversione di mio padre verso la notte, il senso arcano che metteva nella voce per manifestare un'astratta riluttanza verso il mondo notturno, incomprensibile per me che invece l'amavo. Vedevo gli altri genitori fare esattamente il contrario di lui, secondo il costume dei siciliani di tirar tardi, specie nelle notti d'estate scarsamente umide e piacevoli da passare all'aperto con gli amici. Ecco già, un altro problema, mio padre non aveva amici, li detestava, diceva che erano tutti traditori. Anche al cinema era sempre solo, ma dovunque era solo. Credo di non averlo mai visto per strada accompagnarsi a qualcuno, in un paese dove gli uomini vanno intimamente a braccetto. Mio padre andava al cinema per dormire. Non c'era volta che lo incontrassi coi miei amici e lo trovassi sveglio. Lo scorgevo subito, seduto immenso in poltrona con la testa a ciondolo fermo. Speravo che passasse inosservato, mi vergognavo, ma niente da fare:

- C'è tuo padre — mi dicevano allegri a mie spese e io rispondevo con stizza:

– Lo so, dorme.

Il sonno di mio padre, quanto dormiva!, un altro mistero irrisolto che s'è portato nella tomba. Quando mi prende come adesso, durante questo film eroticoterroristico americano, mi allarmo al pensiero di essere figlio suo e mi riscuoto gridandomi dentro con furia che lacera i polmoni: non essere come lui.

Ma è cosa buona per un figlio?

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Ma questi Quattro Canti sono sempre stati un tutt'uno con via Ruggiero Settimo. Molti negozi di questa via sempre nera di fumo, il cuore commerciale della città meno mercantile d'Italia, sono stati l'acquisizione di un'idea e di una forma. Alcuni esistono ancora come Hugony, mitico per l'eleganza palermitana. Solo a sentirlo nominare, pronunciato alla francese, le bocche s'incantavano in un atteggiamento d'estatico rispetto. 'U accattò nni Hugony, lo ha comprato da Hugony, bastava a conferire all'oggetto e alla persona che aveva consuetudine con quell'esercizio un titolo d'aristocrazia insuperabile. Era sempre il non plus ultra, espressione assai usata a Palermo soltanto per indicare quanto c'è di meglio. In fondo fra i vantaggi di nascere in una città aristocratica c'è quello dimparare fin dalla tenera età a sapere qual è e dove questo meglio. Quando poi da grande il palermitano viaggerà, in ogni altra città del mondo cercherà ossessivamente il non plus ultra e saprà sempre dove trovarlo facendo trionfare la sua epica provinciale, ma guai a usare quest'attributo a Palermo, si rischia il linciaggio.

Un po' più avanti, in un edificio poi bombardato, c'era la sede della Massoneria. Da qui una notte mio padre dovette scappare per i tetti, inseguito insieme agli altri "fratelli" dai fascisti che sfasciarono tutto e misero fine alla Massoneria palermitana. Risorse nel dopoguerra dentro un palazzo del Cassaro vicino alla chiesa di S. Matteo, che aveva ospitato un prestigioso casino durante il regime: — Ogni volta che ci riunivamo in quelle stanze affrescate del Settecento, il nostro pensiero correva a tutte le ragazze che ci erano passate. Difficile concentrarsi, l'anima delle bbuttane era ancora lì intatta.

Quasi di fronte c'era un tempo Il Pinguino, l'archetipo dell'idea di bibita. Ogni volta che in un bar qualsiasi del pianeta chiedo qualcosa che somigli a una bibita, è sempre quella del Pinguino che m'aspetto. Una specie di condanna. Non ricordo più tutte le bibite di questo leggendario bar notturno, ho negli occhi una successione di colori versati rapidamente dentro bicchieri alti, stricati a limone, da una serie di bottiglie che il barman afferra al volo come un giocoliere i birilli. E poi il gesto che fa per me bibita: la grattata del ghiaccio. Il barman passa due, tre volte una scatoletta metallica dentata sopra un enorme blocco di ghiaccio. Poi la apre, e con un lungo cucchiaino fa cadere nel bicchiere quanto basta di ghiaccio triturato che mescola vorticosamente con lo sciroppo sprigionando il colore come una magia. Non resta che bere in certe giornate di caldo visionario l'illusione di quel colore rinfrescante. Luogo intensamente ricercato dai palermitani il Pinguino, un bar che oltretutto poteva assicurare la salvezza dall'intossico, la drammatica impossibilità di digerire che spesso prende i palermitani per la loro complessa gastronomia. Per questo scopo salvifico nulla valeva di più dell' Autista, la bibita fatta di arance e limoni a sciroppo, più mezzo limone, acqua di seltz molto gasata. E un pizzico di bicarbonato un attimo prima di portarla alla bocca.

Via Ruggiero Settimo poi è la libreria-editrice Flaccovio, dove per ore intere leggevo libri in piedi, non potendoli sempre comprare, appoggiandomi inavvertitamente, rapito com'ero dalla lettura, solo sulla gamba sinistra, procurandomi col tempo un'inclinazione della colonna vertebrale. Fu in questa libreria che ebbi una mattina, all'età di circa quattordici anni, la prima idea di che cosa fosse un editore. Il vecchio Flaccovio, con quella sua voce canina e metallica, seduto dietro la grande scrivania in fondo al salone centrale, andava ripetendo a un vecchio signore un po' panciuto e sudato che gli stava di fronte in piedi:

– Professore, il suo libro non si vende. È inutile che insiste, non si vende.

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Alcuni mesi più tardi una sera mio padre, forse dopo essersi accertato che il Kahn l'avevo almeno sfogliato, mi chiamò nel suo studio dove di solito dormiva con la testa sulla scrivania, e mi parlò di una certa Brunetta con un linguaggio talmente colorito e forte che mi pentii d'averla già conosciuta. Feci finta di niente. Fissammo un giorno per andarci insieme. Era molto soddisfatto, lo manifestava al modo suo con gli occhi lucidi e le labbra umide.

La vecchia con lo scialle nero aprì la porta, mio padre pagò. Brunetta apparve sulla soglia. Mi guardò con un sorrisetto che cercai di non vedere. Mio padre mi salutò e se n'andò credendo di aver fatto ancora qualcosa da padre, forse ciò che suo padre aveva fatto con lui.

Non poteva sapere che dentro di me l'avevo già atterrato e vinto a quattordici anni, una volta che cercò d'impedirmi non so più che cosa – la normale funzione di un padre – e io m'ero alzato da tavola brandendo la sedia e sparandogli freddo: – Prima o poi ti ucciderò –. Da quel momento m'ha lasciato in pace per sempre, nel senso che non è riuscito a impedirmi più nulla. D'altronde l'avevo sognato vestito come Rossella O'Hara nel film Via col vento, col cappello di paglia in testa adorno di un nastro di seta e un grappolino di ciliegie, nell'atto di sbirciarmi da sotto la porta mentre pisciavo in uno dei gabinetti da caserma del Liceo Garibaldi.


In un'altra traversa di via Libertà, quasi di fronte alla Fondazione Mormino, si trovava l'ufficio del Banco di Sicilia dove mio padre lavorò più a lungo. Credo che nessuno abbia dormito sul lavoro più di lui. È quasi certo ormai, grazie a numerose testimonianze, che almeno metà della carriera bancaria lui l'abbia passata dormendo sulla sua scrivania. Forse era affetto da una sorta di malattia del sonno che però non fu mai diagnosticata, o il suo sonno abnorme era causato da qualche lesione riportata in seguito a un incidente d'auto che lo ridusse per molti giorni in fin di vita.

Ma è anche doveroso aggiungere che a Palermo il sonno è sacro, la palermitudine altro non è che sonno del corpo e della mente, uno stato di torpore che serve a contrastare ogni azione considerata sempre un'inutile fatica, 'na camurrìa, una seccatura. A Palermo non è dunque facile identificare come malattia quella che viene detta con molta condiscendenza lagnusìa, una sorta di abulia lagnosa: 'u lagnusu è colui che non ha voglia di lavorare, ma che pure è schifiltoso e si lagna. In più mio padre era un grandissimo mangiatore, e aveva dunque bisogno di lunghissime digestioni. Ma il suo piacere del cibo andava assai al di là del semplice piacere. Era commozione pura, uno stato emotivo e sentimentale che toccava a sua volta chi lo incontrava. Capace al massimo di costruzioni mitologiche, poteva decantare una cernia un giorno sano, con gli occhi di velluto appassiti dalla sensazione di piacere e insieme lucidi di visioni di altre cernie gustate in età remote della sua vita. A tavola con lui era un'esperienza dove si raggiungeva il punto esatto di fusione fra materia e spirito.

La tavola da pranzo si prolungava sulla sua scrivania in ufficio dove continuava a sognare i piatti che aveva gustato a pranzo e faceva dannare i superiori che cercavano vanamente di contrastarlo: ci facìa manciari l'ossa cu sali, gli facevo rodere per la rabbia le loro stesse ossa condite col sale, diceva.

I colleghi spesso si divertivano a fotografarlo mentre dormiva beato sui conteggi, poi lo svegliavano dopo avergli legato insieme i lacci delle scarpe. Era uno spasso per loro, che mai s'accorsero che mio padre per anni pareggiò bilanci semplicemente facendo quadrare i conti con la fantasia. I nummari sunnu strurusi, diceva, i numeri sono dispettosi, e lui se ne vendicava.

Di mattina, se qualche volta andavo da lui, raramente era nella sua stanza. Si trovava al bar dove ha trascorso buona parte della sua vita di bancario degustante le squisite arancine che si preparano a Palermo, piccoli soli di riso allo zafferano dorati e fritti ripieni di ragù. Sì, mio padre era lagnusu, un pachiderma sempre più immobile. Con gli anni era diventato una montagna vera e propria di centodieci chili. Lo si scorgeva da lontano per strada, sempre il più alto di tutti a Palermo, e parlava da solo con la Fortuna che continuava a deluderlo, e per questo col tempo era diventato lagnusu.

La delusione della dea bendata è stato il cruccio dell'intera sua vita. Chiamava così la Fortuna quando intendeva dire che se lui ne aveva poca non era colpa della dea, che non ci vedeva, ma del destino, quello sì curnutu e sbirru. Una dea cieca che colpa poteva avere? In lui il conflitto fra Fortuna e Necessità era senza quartiere. Ma quando la immaginava senza bende sugli occhi allora la Fortuna era 'na bbuttana che si dava a molti e non a lui. A tutti coloro che ogni domenica o lunedì si svegliavano milionari grazie al lotto o al totocalcio. E tutto questo perché avevano avuto i numeri giusti. La questione dunque era sempre la stessa, ricevere la grazia di questi numeri.

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