Copertina
Autore Rita Pennarola
Titolo Ultimi
Sottotitoloinchiesta sui confini della vita
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2010, , pag. 174, cop.fle., dim. 13,8x21x1,3 cm , Isbn 978-88-7937-478-1
PrefazioneFerdinando Imposimato
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe medicina , biologia , diritto , paesi: Italia: 2010
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Indice


  7 Questo libro
    Prefazione di Ferdinando Imposimato


    ULTIMI

 17 Il coraggio per dirlo

    Parte prima

 27 L'immortalità di Henrietta
 31 Lo scultore dei viventi
 32 Novanta giorni di fuoco
 36 Pezzi vivi
 40 Le mamme ignoranti
 44 M.a.m.m.a. mia!
 46 Dall'errore all'orrore
 49 Ru e altri dilemmi
 50 Consultorio addio
 52 Non con il mio bisturi
 54 Al cucchiaio d'oro
 59 La fine dei feti
 63 Dimmi cosa mangi...
 64 Le mafie del feto
 66 Una gravidanza fatale
 69 Il prezzo da pagare
 72 La terra promessa
 74 Legge biologica numero 1

    Parte seconda

 81 Dove siete? Noi siamo qui
 82 La terra di mezzo
 84 La morte è una "finzione"?
 93 Quello che si deve fare
 97 Lega battente
 98 La dichiarazione internazionale
102 Cnr in campo
104 Il consenso di Mr. Brown
106 Quelli che sono tornati
111 Quelli che ci sono rimasti
118 Organi spa
121 Testamenti e donazioni
126 Trapiantificio Italia
132 Le parole per dirlo
133 Fegato di destra o di sinistra?
137 Il muro dell'espianto
141 Ultimi siamo anche noi
144 Del condannato non si butta via niente
149 L'affare cyclosporina
150 La spina dei poveri
153 Trapiantisti da dio
157 I ripensamenti di Ignazio Marino
159 Un futuro chiamato staminali
162 Cellule holding
164 Lasciate che a donare siano i pazienti
166 La morte degli altri

169 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 7

Questo libro



Il libro di Rita Pennarola sui confini della vita è semplicemente sconvolgente e affascinante: esso ci introduce con la maestria di una grande investigatrice nel mondo sconosciuto della bioetica, dal quale i più sono rimasti lontani per i limiti culturali e, forse, per il timore di prendere posizione su temi così scottanti. Si tratta di materia difficile e complessa. Eppure questo libro — che tratta magistralmente i temi ardui degli aborti, dei trapianti e del fine vita — riesce a colmare, in modo semplice ed efficace, almeno in parte, le immense lacune su argomenti che tutti dovrebbero conoscere, specie coloro che hanno compiti speciali come legiferare o esercitare i mestieri del medico o del giudice, del poeta o del giornalista. Pier Paolo Pasolini, il più laico e progressista di tutti i poeti ed artisti italiani del '900, posto di fronte al dilemma aborto sì / aborto no e di fronte alla legge sull'aborto — voluta dalla stragrande maggioranza degli italiani — non ebbe incertezze, e scrisse: «Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio» (Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 19 gennaio 1975).


Rita ci offre un insieme di conoscenze empiriche, di dati statistici, di episodi sconosciuti, ma anche di informazioni scientifiche precise, con la semplicità, il rigore, la convinzione morale della persona che non segue la comoda corrente conformista degli abortisti o degli anti-abortisti, quasi sempre ignari di ciò che tali scelte significhino. E ci dice come la crescente conoscenza dei risvolti etici ed esistenziali che la scelta dell'aborto comporta, per le pazienti e per coloro che l'aborto praticano legalmente, stia provocando una rivolta crescente contro questa pratica, che spesso diventa condotta criminale, come emerge dai ripetuti casi di cronaca nera. Sicché in Italia, a trent'anni dal varo della legge 194, il numero di medici e paramedici obiettori di coscienza risulta in crescita esponenziale.


Il punto di partenza dell'analisi di Ríta è l'aborto e il problema della natura del feto, per molti un ammasso di cellule, un individuo solo "potenziale": ma se è così – si chiede Rita – perché domandarsi se sia o meno lecito che in qualche Paese del mondo i feti vengano utilizzati nei laboratori di ricerca per preparare costosissimi elisir di lunga vita ai nababbi? E quando si verifica la morte cerebrale che legittima il trapianto di organi? Eppure, fino a quando si continuerà a sorvolare sulla indeterminatezza del principio di "morte cerebrale", la popolazione sarà ancora quotidianamente «nutrita della fuorviante convinzione che gli organi vengano espiantati da un "cadavere" e non da un vivente caldo che urina, suda, se è donna ha le mestruazioni, può concepire e partorire»; il trapianto diventa allora un assassinio, come l'aborto per Pasolini. Di qui l'esigenza che la legge preveda, per gli anestesisti dei trapianti, una obiezione di coscienza.

«Fermare questo viaggio», scrive Pennarola, «è impossibile, dal momento che qui le ragioni del business s'intrecciano con quelle della conoscenza. Ma riflettere sui metodi della navigazione risulta, proprio per questo, più che mai necessario». Ad evitare le degenerazioni che portano all'assassinio di bambini e adulti, organizzati e legalizzati in alcune cliniche della Turchia (e non solo), attrezzate per gli espianti e i trapianti senza regole.

«Oggi», si legge nel libro, «anche negli Usa il metodo abortivo più adottato nel secondo trimestre di gestazione è quello di "Dilatazione ed Evacuazione" (D&E). Questo sistema, che noi chiamiamo "raschiamento", implica un allargamento dell'apertura dell'utero sufficiente a inserire i ferri, dilaniare il feto ed estrarlo pezzo per pezzo. Ma ancora più agghiacciante è la pratica del "partial-birth abortion" ("aborto a nascita parziale") su cui si è giocata negli Usa una decisiva partita in vista delle presidenziali, con l'allora candidata democratica Hillary Clinton schierata (come suo marito Bill) a favore di questa metodica abortiva». La descrizione del "partial-birth abortion" è quella di un vero e proprio assassinio.

Altrettanto drammatica è la situazione in Italia dove, il 22 maggio del 1978, il parlamento varò la legge 194, sulla tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza. Ricorda Rita che nella pratica le cose vanno in modo contrario ad alcuni diritti inviolabili sia della donna che del concepito: secondo la 194, alla donna che chiede di abortire i consultori devono fornire alcune informazioni: «sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio», ma anche «sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante». Se non esiste una condizione di urgenza, i medici le danno anche sette giorni per pensarci. Qui l'autrice denunzia una carenza della legge contro i diritti del feto. «Niente, nemmeno una parola su come è e cosa sta facendo quell'"ammasso di cellule". Non un rigo di semplice informazione alla donna è previsto, nella legge, su quella bocca che già distingue i sapori o su quegli occhi che a 90 giorni dal concepimento già stanno per aprirsi. Su quel cervello che viaggia a 250 mila nuove cellule al minuto».

Come spesso accade, la totale ignoranza degli aspetti biologici impliciti nelle questioni su cui si legifera, diventa una condizione imprescindibile per ottenere il consenso generale. La 194 all'articolo 6 prevede la possibilità di abortire ben oltre il termine del novantesimo giorno dal concepimento. Dal «serio pericolo per la vita della donna» previsto per l'aborto nei primi tre mesi, si passa al «grave pericolo per la vita della donna», lasciando alla sola differenza – assai sottile ed opinabile – fra due aggettivi (serio e grave) tutto il peso di scelte che cambiano l'esistenza. «Se considero il pericolo grave e non solo serio, posso far raschiare e aspirare un feto anche a cinque, sei mesi di gravidanza, quando il suo cervello è quasi completo e il cuore batte forte. Sente, annusa, ascolta».

«Proviamo a pensare», si chiede Rita, «cosa succederebbe se la 194 non avesse sbarrato la porta ad ogni dubbio, escludendo l'ipotesi che quel "nascituro" possa non essere un'escrescenza del corpo femminile, ma un essere in sé, uno di noi. E se, considerandolo tale, la legge avesse reso obbligatorio l'allestimento di strutture idonee che potessero prendersi cura del piccolo quando i genitori non possono o non vogliono. Un principio civile, che invece viene lasciato alla buona volontà di pochi, costretti ad operare in privato e senza alcun sussidio dallo Stato».

Il libro espone con rigore alcuni abusi nella applicazione della pur permissiva legge 194. E ricorda che a marzo 2007, nell'ospedale fiorentino di Careggi, un piccolo di ventidue settimane di gestazione era sopravvissuto all'aborto terapeutico richiesto dalla madre. Ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale pediatrico Meyer, è morto per complicazioni cardiocircolatorie. «Il bambino aveva un peso di 500 grammi e un'altezza di una ventina di centimetri. La malformazione all'esofago diagnosticata dall'ecografia, che aveva indotto la madre all'aborto, si era rivelata inesistente. Il piccolo era sano e ha provato a lottare nell'incubatrice per quasi una settimana, poi ha smesso di vivere». «A fine agosto 2007 una donna di quarant'anni incinta di due gemelli, uno sano e l'altro con malformazioni, decide di abortire il feto malato. Ma per errore i medici eliminano quello sano. È successo all'ospedale San Paolo di Milano, duemila parti l'anno e settecento Ivg. Le analisi fatte dopo l'aborto sono da choc: in pancia è rimasto quello malato. Con ogni probabilità, la donna ha fatto, nei giorni seguenti, un'ulteriore interruzione di gravidanza. Questa volta sul feto con malformazioni».


Il libro tratta anche il tema scabroso e orripilante della mafia dei feti. E ricorda che «a maggio 2007 l'inviato del Corriere della Sera Andrea Nicastro mostrò per la prima volta agli italiani ìl volto macabro del traffico di feti in Ucraina, cui si aggiunge l'ancor più allucinante ipotesi del massacro di bambini per ricavarne incomparabili principi attivi di natura biologica da utilizzare nella farmacologia e nella preparazione di cosmetici, compresi gli "elisir di lunga vita"».

Poi Rita parla — ed è questo un aspetto propositivo della sua ricerca straordinaria — della "Terra promessa" offerta dalle cellule staminali. E racconta che nel 1964, studiando il teratocarcinoma, i ricercatori hanno spalancato una delle più esaltanti frontiere della biologia moderna, identificando per la prima volta le cellule staminali, fino ad allora soltanto conosciute come quel gruppetto di cellule (da due, a quattro, a sei, a otto) che dopo l'unione tra ovulo e spermatozoo formano la blastocisti, vale a dire il primo nucleo dell'embrione.


A questo punto del racconto, dobbiamo porci un interrogativo: materie così delicate possono essere lasciate all'arbitrio dei medici, dei politici o degli affaristi? Che dicono le convenzioni internazionali e le Costituzioni sui temi del concepito e del feto? Cosa è permesso e cosa è vietato? Ed ecco le risposte.

Diversamente dalla Convenzione americana dei diritti dell'uomo, il cui articolo 4 prevede la protezione della vita a partire dal concepimento (ma Hillary e Bill Clinton lo ignoravano), la Convenzione europea, come spiega la professoressa Andreana Esposito in un prezioso libro sui diritti umani e il diritto penale, non indica il momento iniziale della vita e non definisce la nozione di persona la cui vita è protetta dall'articolo 2, paragrafo 1. Nelle sue prime decisioni la Commissione europea non ha mai affrontato nel merito la questione, dichiarando l'inammissibilità dei ricorsi. Nel caso X contro Regno Unito, per la prima volta ha chiaramente affermato che l'espressione «ogni persona, di cui all'articolo 2, non può applicarsi al nascituro. Tuttavia anche nell'ipotesi in cui dovesse riconoscersi che il diritto alla vita sia garantito al feto dal concepimento, tale diritto dovrà subire una limitazione implicita che consente una interruzione della gravidanza per salvaguardare la vita o la salute della madre» (Andreana Esposito, Il diritto penale `flessibile". Quando i diritti umani incontrano i sistemi penali, Torino, Gìappichelli, 2008, pp. 177-178). Con molta prudenza, tuttavia, la giurisprudenza della Corte non ha mai specificato se la Convenzione garantisca un diritto all'aborto, o se il diritto alla vita di cui all'articolo 2 si estenda anche al feto, riconoscendo un ampio potere discrezionale agli Stati in un settore così delicato. Sulla questione, infatti, la Corte, pur riconoscendo che «la vita del feto era intimamente legata a quella della madre e che poteva essere protetta indirettamente attraverso la madre», ha tuttavia escluso la possibilità di incriminare il medico di omicidio colposo per la morte del feto, cioè per feticidio colposo. Andreana Esposito ha criticato questa decisione della Corte, osservando che «il ragionamento non è coerente e non è in linea con i suoi precedenti». E ricordando che nel caso predetto «vi era una condivisione di interessi tra la madre (diritto alla vita) ed il feto (diritto a nascere), che comportava un interesse alla prosecuzione della gravidanza» (op. cit., pp. 189-191).


Nella seconda parte il libro di Rita Pennarola tratta del difficile tema dei trapianti di organi, di cui sono stato e sono un convinto assertore. Ma non posso chiudere gli occhi di fronte alle degenerazioni e agli abusi che, come nel campo degli aborti, vengono compiuti in tutto il mondo.

Rita affronta uno dei temi più controversi ed oscuri in quella nebulosa nella quale navighiamo. E ricorda che la dicitura "morte cerebrale", presupposto di un espianto legittimo, compare per la prima volta sulla scena medica americana nel 1968, dopo il primo trapianto di cuore effettuato da Christian Barnard a Città del Capo. Fu allora che la Harvard Medical School introdusse i criteri per la definizione di "morte cerebrale" su soggetti vivi, in coma definito irreversibile, dando di fatto l'avvio all'era del trapianto-espianto. Si può dire che si tratta di "morti, ma solo in parte". «Il corpo del donatore, perché il trapianto possa riuscire, deve possedere infatti un cuore pulsante ed una temperatura simile in tutto a quella dell'uomo sano. Se tale precondizione viene a mancare, anche solo per pochi minuti, il rapidissimo deperimento degli organi ne renderà impossibile il riutilizzo. Per questo risultano centrali gli interrogativi che riguardano non la morte come tradizionalmente intesa, ma la cosiddetta "morte cerebrale": un cervello morto in un corpo vivo. E qui il confine, finora labilissimo, diventa quasi invisibile. Basti pensare che i criteri legali per la diagnosi di morte cerebrale variano da paese a paese. Per via di queste differenze un paziente può essere dichiarato clinicamente morto in una nazione, ma non in un'altra».

«Insomma – è la sostanza del ragionamento – prima di dichiarare chiusa definitivamente una vita per affrettarci a "riciclarne" le parti migliori, dovremmo indirizzare la ricerca verso le possibilità di salvezza e riabilitazione di chi la vita ce l'ha ancora. Situazioni che in moltissimi casi esistono, ma non vengono più esplorate a fondo dalla gran parte della comunità scientifica internazionale dopo l'avvento dei trapianti. Prima di guardare solo a chi "aspetta" un organo, volgiamo attentamente la nostra attenzione e diamo ancora una possibilità a chi quell'organo lo possiede, vivo e pulsante, nel suo corpo. E, forse, potrebbe ancora mantenerlo».

Con la parola "morte" – ricorda Rita – si accomuna il paziente vivo sotto ventilazione, dichiarato in "morte cerebrale" sulla base dei protocolli di Stato, e il morto tradizionale in arresto cardiocircolatorio e respiratorio. Nel passato il morto era sempre un cadavere, nel presente il "morto cerebrale" non è un cadavere.


Il libro affronta infine il tema drammatico ed insoluto del testamento biologico e dei limiti di scelte difficili che sono al confine con il problema dell'eutanasia. I sostenitori del testamento biologico ritengono «prioritario il rispetto della dignità dell'uomo in ogni fase della sua vita». Ma il Senato ha approvato il disegno di legge del centrodestra sulle dichiarazioni anticipate di volontà: «più che dar vita al testamento biologico – osserva il professor Ignazio Marino – il centrodestra lo ha ucciso sul nascere».

Ho già ribadito più volte la mia contrarietà a una norma sbagliata, ideologica e approvata senza ascoltare nessuno sull'onda della drammatica vicenda di Eluana Englaro. Sancire che la volontà del paziente non sarà vincolante per il medico e che trattamenti sanitari come l'idratazione e l'alimentazione artificiale saranno imposti al paziente, significa andare contro la libertà personale e calpestare il diritto costituzionale all'autodeterminazione del cittadino.

Sul punto l'autrice assume una posizione critica, tanto della pratica dei trapianti quanto del testamento biologico, mettendo in evidenza le speculazioni economiche che possono ispirare gli assertori della necessità di tale testamento e della donazione di organi. A proposito dal caso Englaro, molti hanno sostenuto che a quella infelice ragazza sia stata praticata l'eutanasia, in contrasto con la legge e le convenzioni internazionali. Ricorda la professoressa Andreana Esposito che «è stato il caso Pretty contro regno Unito a mettere i giudici europei nella posizione di dovere decidere se l'articolo 2 della Convenzione europea, accanto al diritto alla vita, consacri anche il diritto al non vivere», che Ignazio Marino chiama «diritto costituzionale alla autodeterminazione del cittadino». Secondo Andreana Esposito «si pone la questione della legittimità convenzionale della legalizzazione dell'eutanasia. E quindi la responsabilità dello stato nel caso di non incriminazione di un medico o di un congiunto che abbia praticato la dolce morte». In mancanza di puntuali decisioni della Corte, si ripropongono le due tradizionali e contrastanti posizioni sul suicidio assistito e sul diritto di morire con dignità. Nel caso Pretty i giudici europei hanno escluso in modo netto che dal generale diritto alla vita garantito dall'articolo 2 della Convenzione possa derivare un riconoscimento del suo esatto contrario, vale a dire il diritto a morire. E di conseguenza la Corte non ha ritenuto di poter fare discendere dall'articolo in esame un diritto all'autodeterminazione del momento in cui porre fine alla propria esistenza.

Concludendo dobbiamo riconoscere che Rita Pennarola nel suo libro inchiesta ha coraggiosamente richiamato all'attenzione dei cittadini su problemi di estrema attualità che riguardano i diritti inviolabili dell'uomo; problemi che non hanno trovato ancora soluzione nella legislazione internazionale e interna, né nella giurisprudenza oscillante della Corte Europea. Ammonendo che l'incertezza e la non chiarezza delle leggi sono la causa prima degli abusi gravissimi e delle degenerazioni da parte di potenti lobby, di ricchi nababbi pronti a sopravvivere a scapito dei più deboli, di organizzazioni criminali decise ad arricchirsi con le pratiche più abiette e di scienziati senza scrupoli pronti a salvaguardare solo i propri privati interessi e non il diritto alla vita, specialmente quella degli ultimi.

Ferdinando Imposimato

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Pagina 17

Il coraggio per dirlo



Nel generale smarrimento che ha colto il popolo della sinistra, culminato con la scomparsa dal Parlamento italiano della sua componente storica, l'interrogativo sull'identità perduta è diventato un rovello che genera sempre nuovi, ennesimi distacchi, un quesito esistenziale che ancora una volta divide, invece di chiamare le forze a raccolta sul ponte dopo il naufragio.

Un contributo forse non secondario per un nuovo confronto, ma anche un seme di riflessione fecondo, quasi un catalizzatore di buone prassi, può essere allora il ritorno agli ultimi, stella polare della sinistra per quasi un secolo, caduta nella polvere lasciata da un'operazione collettiva di maldestro revisionismo.

Ma chi sono davvero, oggi, gli ultimi? E perché appare più che mai necessario porsi questa domanda?

La prima ragione è – si sarebbe detto una trentina d'anni fa – di carattere ideologico. Una certa parte della generazione nata a metà del Novecento non ha mai smesso di allungare lo sguardo, assecondando l'imprinting del suo dna di adolescente: c'è un gene pacifista – e ribelle al tempo stesso – rimasto nel fondo, consapevole della forza rivoluzionaria sprigionata dall'immagine di cannoni caricati a salve, con fiori, musica, parole, visioni. Come sarebbe ora il mondo senza quella generazione, pur con tutti i suoi limiti, deviazioni e tradimenti?

Nei corsi autogestiti dei licei, durante le occupazioni delle università, accanto alla lotta degli operai nelle fabbriche, si imparava ad aprire gli occhi sugli ultimi della terra, scoprivamo che si può essere ultimi in ogni angolo del pianeta, nei bassifondi del pletorico occidente così come alle estreme periferie della fame e della sete che decimano i popoli, cancellandone l'esistenza dalla mappa del globo e dalla storia del genere umano.

Qualcuno, fra noi, quello sguardo non l'ha ancora abbassato. Sempre più dispersi, ma non meno testardi, attingiamo risorse dalle intime consapevolezze di allora, elaboriamo ricerche, promuoviamo aggregazioni, lavoriamo per colmare le disuguaglianze, combattiamo le mafie che sparano o quelle in abito scuro e Suv, scriviamo, cantiamo la pace. Sempre più fisicamente distanti fra noi, ma sempre più uniti in avanti dal filo delle nostre visioni. A fare politica ci avevamo provato. Ora, forse, non è più il tempo.


C'è stato, lungo l'arco della nostra esperienza, il momento di una saldatura importante. Nel corso degli anni Settanta, di fronte alle degenerazioni perverse di un pensiero nato sulle stesse sponde, mentre gruppi organizzati di "compagni" ammazzavano "per servire il popolo", la matrice pacifista del comunismo sessantottino trovava forme di stretta convergenza col comandamento di base del cristianesimo evangelico: quel primato del "non uccidere", del "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te", tante volte nel corso dei millenni stravolto dallo stesso potere cattolico e rinnegato, quasi ovunque, nelle prassi di governo del mondo.

Ma noi abbiamo fatto anche di più e di "peggio": quel gene pacifista che portiamo impresso è stato trasmesso anche ai nostri figli, i quali oggi, alle latitudini più diverse, ripudiano la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. E non lo fanno per il rispetto dovuto ad un pur autorevole dettato costituzionale, ma perché quell'orrore lo portano fin dalla nascita come un'indelebile matrice genetica. Sono nostri figli quei centoquindici ragazzi americani che nel 2007 si sono suicidati di ritorno dalle missioni "di pace" in Iraq o dall'Afghanistan, incapaci fisicamente di sopravvivere alla barbarie, alla negazione affogata nel sangue di ogni principio di uguaglianza e di giustizia. A settembre 2008 erano quasi cento i giovani in servizio al fronte che si sono tolti la vita. Per tentare di contenere l'alto numero di suicidi, i vertici militari dell'America di Bush si ripromettevano di incrementare gli staff di psichiatri e di altri specialisti della salute mentale. Lo scopo era di neutralizzare il gene pacifista, quello che ai ragazzi abbiamo trasmesso noi, gli irriducibili del '68.

È un gene laico? È un gene evangelico? Di certo, in occasione di ogni nuovo sterminio, di fronte al sangue versato da intere etnie di ogni età, quel "non uccidere" ritorna, supera i confini delle differenze, delle matrici, delle latitudini. E viene a dirci che, al di là di ogni materialismo e di qualsiasi religione, esiste un motivo di fondo per continuare a battersi da quella parte: ultimi siamo, saremo o potremo essere, anche noi. Dentro gli abiti sudici di quel clochard steso sul marciapiede, sotto gli occhi sbigottiti dal terrore di una famiglia sterminata sulla striscia di Gaza, lì c'è uno di noi, ci sei tu, ci sono io. Questa ragione di fondo è stata, è, l'anima della sinistra, la sua identità vera, specie quando la si confronta con i moloch degli armamenti e delle lobby finanziarie, quella destra opulenta che guida il genocidio a Ramallah come a Kabul, le stragi degli innocenti che spezzano il cuore dei nostri ragazzi, i defender dei carabinieri che passano e ripassano sull'esile corpo di un giovane in prima fila per manifestare contro queste oscenità e la cui uccisione resterà impunita.

Il popolo oceanico di Seattle, la speranza epocale di un mondo meno ingiusto, sono stati assassinati "per mano di legge" il 20 luglio del 2001 a Genova. Ma questo non è bastato ad estinguere per sempre l'ansia di verità che muoveva milioni di giovani e meno giovani, comunisti o cristiani, laici, atei, agnostici o dubbiosi, da un capo all'altro del pianeta.


C'è poi un secondo motivo per interrogarsi sugli ultimi. È il crollo delle certezze che ci arriva ad ogni nuova sfida vinta sul piano della conoscenza scientifica. 10 settembre 2008, la fine del mondo. Così era stato annunciato l'esperimento del Cern di Ginevra sulla nascita della materia, quella caccia al bosone di Higgs ribattezzato "la mano di Dio". Quale fondatezza matematica avevano le ipotesi scientifiche del gruppo di ricercatori che si erano appellati alle Nazioni Unite per far cessare un esperimento destinato a generare il rischio concreto, nel giro di quattro anni o giù di lì, di far sparire la terra, inghiottita dentro un gigantesco black hole?

Un esempio che ci mostra quanto, ad ogni nuovo passo in avanti, apprendiamo sempre più di non sapere. E quanto, anche per questo, è ancor più esaltante la sfida dei pionieri della fisica, dispiegati alla ricerca delle ragioni dell'universo e dei nostri corpi materiali.

Che posto hanno, in tutto questo interrogarsi, gli ultimi? Anche qui, bisogna tornare indietro di una trentina d'anni per ritrovare le speranze e l'entusiasmo dei giovani ricercatori che pensavano di avere a portata di mano la chiave per decifrare le ragioni dell'universo e della vita. Le scoperte (avvenute nel decennio precedente al '68) del Big Bang, da un lato, e della struttura molecolare degli acidi nucleici, all'altro estremo, rappresentavano i due straordinari cardini da cui partire per un viaggio che, tutto sommato, sembrava annunciarsi fruttuoso di nuove acquisizioni su regole e confini del reale fino ad allora invalicabili.

La storia degli anni successivi ha gettato oceani di acqua sulle tempeste solari di quelle "certezze". Il cammino rapido nel campo dell'alta tecnologia non ha potuto nascondere agli occhi del ricercatori quali sconfinate galassie dell'ignoto si aprissero in successione, una dopo l'altra, ad ogni nuova, magari anche decisiva tappa fatta segnare dalla scienza nella sua incessante attività tesa al disvelamento delle "regole". Nel periodo in cui scriviamo, la contrapposizione fra i due modelli fisici del mondo riguarda la struttura dello spaziotempo: quello "a granuli", secondo cui è possibile che lo spazio sia costituito da anellini, che il tempo non esista ma sia l'effetto della nostra ignoranza dei dettagli del mondo; e il modello "a stringhe", cordicelle che costituiscono la materia e si muovono nello spaziotempo.

In entrambe le interpretazioni, un dato si pone come premessa acquisita: lo scorrere del tempo e le dimensioni dello spazio, così come ci appaiono, sono solo sensazioni illusorie, connesse alla limitatezza dei nostri mezzi sensoriali e conoscitivi.

Questo è solo l'ultimo – in ordine di "tempo" – fra gli esempi lampanti di quella successione di infiniti ignoti che si spalancano dopo ogni nuova scoperta.

Ritornare allora al principio socratico del dubbio, quel consapevole "sapere di non sapere", per quanto necessario, risulta purtroppo tutt'altro che scontato. Pur convenendo, infatti, sull'innegabile successione degli "infiniti ignoti", lo scientismo del nostro tempo tende ad allontanarsi sempre più velocemente dalla strada maestra, dimentica che in fondo siamo come un cieco che procede alla guida di un veicolo lanciato all'impazzata lungo vie mai conosciute. È lo scientismo che ingenera nell'opinione pubblica la superba convinzione di trovarsi lungo un percorso già tracciato, con una rotta certa da seguire per raggiungere prima o poi la meta ultima.

Ad alimentare la componente dominante dello scientismo contemporaneo è il denaro: sono i milioni di dollari attraverso i quali, nei paesi occidentali a più avanzato sviluppo tecnologico, i colossi privati che detengono le leve del potere economico finanziano e indirizzano la rotta della navigazione, orientata secondo i bisogni di un modello che pone nel consumo il suo fondamento, la sua priorità data per ipotesi.

Da ciò discendono le operazioni di controllo dell'opinione pubblica esercitate quasi sempre con l'arma apparentemente più innocente: il linguaggio. Per capirci, basta portare alle estreme, ma logiche conseguenze alcuni dei ragionamenti correntemente accettati e, anzi, dati sempre per scontati. Archiviare col termine di "embrione" gli straordinari meccanismi biologici che caratterizzano e rendono unico il nuovo, irripetibile individuo nelle prime fasi del suo sviluppo, rende tutto più semplice: anche chiudere gli occhi sulle modalità del suo smaltimento. Se un feto non è che un ammasso di cellule, un individuo solo "potenziale", perché domandarsi se sia o meno lecito che in qualche Paese del mondo i feti vengano utilizzati nei laboratori di ricerca per preparare costosissimi elisir di lunga vita ai nababbi? E perché in Italia, a trent'anni esatti dal varo della legge 194, il numero di medici e paramedici obiettori di coscienza risulta in crescita esponenziale?

Intanto, studi recenti indicano che entro il 2056 gli organi umani indispensabili ai trapianti si potranno far crescere su animali come i maiali. Sempre entro quella data si potranno sintetizzare medicine in grado di far ricrescere alcuni organi. Entro 5-10 anni potrebbe essere possibile rigenerare il cuore ed alcuni arti. La sfida è aperta e migliaia di menti sono al lavoro. Eppure, fino a quando tutto questo non accadrà davvero, si continuerà a far sì che l'opinione pubblica mondiale sorvoli sulla indeterminatezza del principio di "morte cerebrale", la popolazione sarà ancora quotidianamente nutrita della fuorviante convinzione che gli organi vengano espiantati da un "cadavere" e non da un vivente caldo che urina, suda, se è donna ha le mestruazioni, può concepire e partorire. E deve essere accuratamente curarizzato prima del "prelievo". Mentre la legge non prevede, per gli anestesisti di questi reparti, alcuna obiezione di coscienza.


Che non si tratti di superficialità dettata solo dalle logiche del "progresso" lo dimostra la nascita, in questi anni, di autentici colossi della comunicazione subliminale, generalmente sconosciuti alla gran massa dei cittadini, ma capaci di fatturati da milioni di euro.


Fermare questo viaggio è impossibile, dal momento che qui le ragioni del business s'intrecciano strettamente con quelle della conoscenza. Riflettere sui metodi della navigazione in atto risulta però più che mai opportuno. Perché è su terreni come questo che lo scientismo si è sostituito alla scienza e la ricerca ha smarrito il segreto vero della sua origine: quell'umile ma ardimentosa, geniale "ignoranza" che ha guidato l'opera di Galilei, di Newton, di Einstein.

Invece, alla diffusione dello scientismo si affianca ora il dilagare di un nuovo "integralismo laicista": che non è l'originaria, legittima affermazione del pensiero laico in quanto tale, scollegato da qualsiasi condizionamento moralistico o religioso, ma piuttosto una visione unilaterale e preconcetta delle grandi questioni sulla vita e sulla morte sempre più dispiegate dal progresso scientifico dinanzi ai nostri increduli occhi.


Se accettiamo queste premesse – che non sono sullo stato, ma sul modo della ricerca – non possiamo poi fare altro che seguirne e raccontarne fino in fondo gli esiti. È quello che provo a fare in questo lavoro esplorando il mondo degli ultimi, al confine della vita, dove ogni difesa è negata per ipotesi. Con la "scandalosa" convinzione che essere di sinistra, oggi, significhi stare da questa parte. Tornare, prima di tutto, dalla loro parte. Perché forse è proprio quello il punto dove ci eravamo fermati. Ed è da qui che possiamo ricominciare a marciare in una direzione che sia, dal punto di vista biologico, più umana. E anche più coraggiosa.

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