Copertina
Autore Georges Perec
Titolo La scomparsa
EdizioneGuida, Napoli, 2007, Orizzonti , pag. 320, cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-6042-292-7
OriginaleLa disparition
EdizioneDenoël, Parigi, 1969
PrefazionePiero Falchetta
TraduttorePiero Falchetta
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe narrativa francese
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Indice


Prologo
Lo si capirà poi: già qui cominciava la Condanna                  7

                                I.
                           ANTON VOKAL

 1. Dapprincipio ha l'aria di un noto romanzo, in cui si parla
    di un uomo sprofondato in un gran sonno                      13

 2. Qui, un rio fato infuria su un Robinson innamorato           21

 3. La cui chiusa narra la mancata salita al soglio pontificio
    di un figlio nato dalla colpa ma poi contritosi              33

 4. Qui, malgrado un «Ratto, di lasciato corpo...», non si
    parla affatto di Wolfgang A. Mozart                          43


 6. In cui, una volta fatti i compiti di scuola, si va
    dritti allo zoo                                              51

 7. Qui parrà non s'amino poi tanto gli avvocati marocchini      65

 8. Qui si darà rapida notizia di una tomba costruita da Traiano 77


                               III.
                      DOUGLAS HAIG CLIFFORD

 9. In cui un giocondo baritono si avvia a un futuro radioso     87

10. Gradito, mi auguro, ai fanatici di Pindaro                   99

11. La cui chiusa ha lo scopo di ingraziarsi il Gran Manitù     117

12. Qui, una gioia incastonata in un onfalo fa di un bastardo
    un suddito britannico                                       129

13. L'inaudito risultato prodotto su un tavolo da bigliardo
    da una sonata di Anton Dvorak                               135

14. Qui una carpa rifiuta schifata un halvah di sopraffina
    qualità                                                     147


                               IV.
                      OLGA MAVROKHORDATOS

15. Qui, fatta piazza pulita di 20 anni di svariati svarioni,
    si scoprirà in qual modo sia colato a picco il Titanic      159

16. In cui si quota il dollaro ($)                              167

17. Conosciamo qui il giudizio su Hollywood di Vladimir Il'ic   173

18. In cui qualcuno scoprirà molti importanti indizi            177

19. Di quali rischi si corrano cucinando una carpa farcita      187

20. Qui, malgrado si cominci con un ispirato colloquio,
    ci si ritrova da ultimo in un clima insano                  199


                                V.
                          AMAURY CONSON

21. Qui, dopo un rapido riassunto, ci sarà raccontata la
    scomparsa di un uomo di cui abbiamo già parlato             209

22. Un'usanza di famiglia obbliga qui un fantasioso ragazzo
    a macchiarsi di 6 assasinî scalando il suo Gradus
    ad Parnassum                                                223

23. Quanto pro un figlio angosciato abbia ricavato dal gruzzolo
    lasciatogli da un tamburino                                 239

24. Qui si comincia con un marito rimasto solo, poi il sipario
    cala su un autofratricidio                                  255


                                VI.
                     ARTHUR WILBURG SAVORGNAN

25. Concluso da un bianco fin troppo significativo              267

26. Conclusivo, lo si sarà di sicuro capito, di tutto il
    racconto                                                    275


Post-scriptum
Da qual mira fu guidata la mano di chi compilò il romanzo       283

Metagrammi                                                      287

Postfazione
Mappa della sapravvivenza di Piero Falchetta                    293

Ringraziamenti                                                  315


 

 

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Pagina 7

Prologo
Lo si capirà poi: già qui cominciava
la Condanna



Quattro cardinali, un rabbino, un ammiraglio affiliato alla Gran Loggia, un duo di politicanti da strapazzo agli ordini di un trust britannico, hanno avvisato il popolo prima alla radio, poi con avvisi murali, di un grosso rischio, la mancanza di cibo. La notizia fu dapprincipio giudicata falsa. Si trattava, strologavano, di cibi avariati. Ma poi dilagò il panico. Tutti si armarono di grossi bastoni. "Vogliamo cibo", gridava il popolo sfidando padroni, ricconi, pubblica autorità. Si complottava, si cospirava in ogni luogo. Dopo il tramonto i poliziotti non uscivano più in strada. Al Mâcon fu attaccato un ufficio amministrativo. A Rocamadour fu assaltato un magazzino: trovarono tonno, latticini, chili di cioccolato, quintali di mais, ma tutto puzzava di marcio. In una piazza di Nancy ghigliottinarono in un sol colpo 26 magistrati, poi appiccarono il fuoco a un quotidiano accusato di collaborazionismo con l'autorità. Silos, hangar, magazzini furono assaltati in ogni luogo.

Poi toccò agli arabi, ai mori, ai giudii, con pogrom a Drancy, a Livry-Gargan, a Saint-Paul, a Villacoublay, a Clignancourt. Alcuni malcapitati soldati furono fatti fuori: così, puro gusto. Sputarono addosso a uno scaccino: stava dando, là in strada, l'absolvo a culpis tuis a un capitano di PS squartato da un colpo di yatagan vibrato da non si sa chi.

Si ammazzava l'amico in cambio di un salamino, il cugino in cambio di uno sfilatino, il vicino in cambio di un morso di panino, uno sconosciuto in cambio di un grissino.

La nottata dal 5 al 6 maggio contò 25 bòtti al plastico. I caccia bombardarono la Tour d'Orly. Bruciava l'Alhambra, l'Istituto, la clinica Saint-Louis. Non un muro dritto dal parco di Montsouris fino alla Nation.

Al Palais-Bourbon la minoranza copriva d'ignominiosi lazzi, d'infamanti frizzi, d'ingiuriosi oltraggi una maggioranza ormai priva di autorità ma tuttavia ostinata a far finta di nulla. Intanto, al Quai d'Orsay assassinavano 23 piantoni, a Latour-Maubourg lapidavano un dignitario fiammingo visto da qualcuno portar via un'acciuga da una salamoia. Intanto, a Wagram, dàgli addosso a un duca sciccoso schifato, alla vista di un moribondo ch'implorava un soldino, dal popolo affamato; a Raspail, un marcantonio di vichingo biondo, in groppa a un ronzino rampino dai fianchi fulvi, tirava con l'arco contro chi non gli garbava.

Un graduato di truppa, affamato pazzo, rubava un bazooka con cui ammazzava tutti i suoi commilitoni, dal capitano ai soldati; promosso sul campo Grand'Ammiraglio a furor di popolo, moriva, subito dopo, trafitto dall'acuminato kriss d'un suo fido, invidioso.

Un tizio spiritoso ma di cattivo gusto, colto da allucinazioni, innaffiò col napalm un buon quarto di Faubourg Saint-Martin. A Lyon furono trucidati circa 1.000.000 d'abitanti; i più soffrivano di scorbuto o di tifo.

Un funzionario civico, un idiota, ordinò, non si sa lo scopo, la chiusura di bar, bistrot, bigliardi, dancing. Proprio allora cominciò a mancar l'acqua. Di sovrappiù, maggio fu caldissimo: un autobus divampò all'improvviso; insolazioni fulminavano 3 passanti su 5.

Un noto canoista, ritto su uno scudo, s'improvvisò capopopolo. Dicto facto fu nominato dux. Gli furono proposti titoli altisonanti: lui si proclamò Attila III, ma gli fu imposto Fantomas XVIII. Non gli andava. Fu ucciso a calci. Un loffio fu nominato Fantomas XXIII; gli offrirono un cilindro, una fastosa fascia, una canna d'acagiù col pomo d'oro. Fu traslato in portantina al Palais Royal. Ma non ci arrivò mai: un tipo risoluto, gridando "Abbasso il tiranno! A noi, Ravaillac!", gli squarciò la gola con un rasoio. Fu inumato in un colombario, profanato otto giorni più tardi da un commando di balordi.

Salirono poi in carica un francomanno, un ospodaro, un maragià, 3 Romoli, 8 Alarichi, 6 Atatürk, 8 Mata Hari, un Caius Gracchus, un Fabius Maximus Rullianus, un Danton, un Saint-Just, un Pompidou, un Johnson (Lyndon B.), alcuni Adolf, 3 Mussolini, 5 Carli Magni, un Washington, un Otto von subito contrastato da un Absburgo, un Timur Ling: costui, da solo, ammazzò 18 Pasionaria, 20 Mao, 28 Marx (1 Chico, 3 Karl, 6 Groucho, 18 Harpo).

Richiamandosi a un principio di pubblica incolumità, un Marat proibì i bagni, ma un Charlot Corday lo trucidò in tinozza.

Lo stato fu liquidato così: 3 giorni più tardi un carrarmato sparava dal Quai d'Anjou sulla Tour Sully-Morland, ultimo baluardo di tutti i politici; un funzionario civico salì fino all'ultimo piano; si affacciò di sotto, agitando un drappo bianco, poi proclamò al microfono la caduta d'ogni sorta di Pubblica Autorità, dichiarandosi, subito dopo, pronto a dar tutto il suo aiuto, proprio il suo, al popolo bisognoso di tranquillità. Vano fu tuttavia il suo slancio; infatti, sordo alla sua supplica, il mostruoso carrarmato, dicto facto, spazzò via la Tour. Quanto poi al coprifuoco proclamato da un balordo appoggiato dalla milizia armata, riuscì soltanto a provocar fatti ancora più gravi.

Cominciò allora ad andar proprio maluccio. Ti scannavano a causa di un sì o di un no. Scambiavi un saluto, poi tiravi gli ultimi. Furono assaltati autobus, carri da morto, furgoni postali, wagon-lit, tassì victoria, landò. Si accanirono contro una clinica, frustarono un moribondo aggrappato al suo sudario, fucilarono, canna in bocca, un monco artritico. Furono crocifissi 3 o più falsi Cristi. Un alcolizzato fu affogato in una vasca colma d'alcool, una matricola di farmacia in una di formalina, un motociclista in una di gasolio.

Abbrancavano i bambini, poi li bollivano in un paiolo, bruciavano vivi i savoiardi, davano gli avvocati in pasto ai coccodrilli, sgozzavano i trappisti, gasavano i dattilografi, strangolavano garzoni, clown, osti, massaggiatrici, carbonai, tipografi, tamburini, sindaci, Pontamussani, contadini, marinai, milord, blouson noir, sancirini.

Si arraffava, si stuprava, si mutilava. Ma ancor più si umiliava, si tradiva, si dissimulava. Tutti diffidavano di tutti: ciascuno odiava il prossimo suo.

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Pagina 13

1
Dapprincipio ha l'aria di un noto romanzo,
in cui si parla di un uomo
sprofondato in un gran sonno



Il sonno non arrivava. Anton Vokal riattaccò la lampada. Il suo Jaz indicava quasi l'una. Sospirò, si rialzò, appoggiandosi al cuscino. Aprì un romanzo, lo sfogliò, sforzandosi di applicarsi; ma si smarriva in un confuso imbroglio, inciampando di continuo in vocaboli di cui ignorava il significato.

Posò il libro. Andò al lavandino; bagnò un guanto di spugna, lo strofinò sulla faccia, sul collo.

Il polso gli palpitava in tumulto. Soffocava. Aprì l'imposta, scrutando l'oscurità. Un po' d'aria. Dalla strada saliva un caotico frastuono. Una campana poco lontana, più cupa d'un rintocco a morto, più sorda d'uno scampanio, più bassa di una corda di ghironda, suonò una volta. Dal Canal Saint-Martin arrivava il borbottio monotono di una chiatta.

Un animaluccio color indaco, con un trapano color ocra, si stava arrampicando sull'imposta, trascinando un minuzzolo di alfa-alfa; somigliava a una blatta, o a un tónchio, o piuttosto a un tarlo. Si avvicinò, pronto a schiacciarlo con un colpo, ma il tarlo si alzò in volo, subito inghiottito dal buio.

Scandì il ritmo di una marcia, picchiando con il dito contro l'imposta.

Aprì il frigo a muro, stappò una bottiglia, tracannò un lungo sorso. Si stava calmando. Sprofondò sull'ottomana con una rivista, sfogliandola distratto. Fumò un cigarillo, aspirando fino in fondo malgrado il fastidio provocatogli dal fumo. Tossì.

Ascoltò la radio: un ritmo afro-cubano, poi un boston, un tango, un fox-trot, un cotillon riarrangiato. Dutronc cantò un motivo di Lanzmann, Barbara un brano d'Aragon, Stich-Randall un'aria dall' Aida.

Si assopì, ma poco dopo riaprì gli occhi, di soprassalto. La radio annunciava il notiziario. Nulla di straordinario: a Valparaiso, il crollo di un nuovo cavalcavia, con 25 morti; da Zurigo, Norodom Sihanuk proclamava: "Non andrò a Washington"; a Matignon, Pompidou trattava invano un accordo con i sindacati. Conflitti razziali in Biafra; voci di un colpo di stato a Conakry. Alluvioni a Nagasaki; l'uragano Amanda si stava avvicinando a Tristan da Cunha, i turisti rimpatriavano con un cargo.

Al Roland-Garros, da ultimo, in una partita di coppa Davis, l'incontro Santana-Darmon. Risultato: 6-3, 1-6, 3-6, 10-8, 8-6.

Smorzò la radio. Si accovacciò sul suo bukhara, inspirò, cominciò a far ginnastica, ma subito si stancò; si bloccò, sfinito, fissando con aria smarrita i ghirigori sulla trama, in cui il suo sguardo a tratti ritrovava:

Ora un tondo, non conchiuso, sbarrato da un trattino dritto: una sorta di G maiuscola capovolta.

O, bianco su bianco, quasi inciso su un cristallo opalino, l'orgoglioso ritratto d'un sovrano con la fiocina in pugno.

O, subito svanito, sotto 3 tratti dritti, una sorta di schizzo approssimativo, incompiuto, in cui con un vano sforzo di fantasia s'indovinava – in risalto, surrogando falsi contorni – la foglia tripartita d'una sardonia.

O, molto più chiaro, un volo di calabroni, sui cui corpi scuri risaltavano 3 articolazioni d'un bianco quasi di giglio.


Divagava. Più andava sprofondando fra i ghirigori sul bukhara, più notava nuovi profili, 5, 6, 20, 26 combinazioni, schizzi fascinosi ma vacui, lapsus insignificanti, oscuri ritratti. Li riordinava ogni volta daccapo provando, riprovando ancora la cifra nascosta di una traccia più chiara, in grado d'illuminarlo sul significato, di soddisfarlo; ma fissava, tutt'intorno all'incongruo ordito, soltanto un groviglio di schizzi incompiuti, configuranti, ciascuno un poco, la marca originaria, simulata, mimata, avvicinata ma poi, da ultimo, occultata:

un corpo morto, una canaglia, un autoritratto;

una manzo, un falco in un nido, un colombo in cova; un nodulo artritico;

una scritta d'augurio;

o l'occhio malizioso d'uno smisurato capodoglio ch'irrida a Giona, fissi Caino, ammali Achab: simulacri d'un nodo importantissimo, colmo di significati fuori portata, ambigui sostituti d'un logos originario, d'una forza rimossa, ormai scomparsa, non più attiva, cui tuttavia agognava ancora, invano, fino ad abbruttirsi.

S'irritava. Il bukhara gli provocava un angoscioso affanno. Sotto una tal fantasmagoria di fallaci visioni, intuiva un punto assoluto, un nodo sconosciuto, là, a portata di mano; ma proprio quando vi si avvicinava di più, subito gli sfuggiva via.

Continuava. Si ostinava. Ammaliato, non riusciva più a controllarsi. Un filo in fondo al bukhara, in profondità, ordiva l'oscuro punto Alpha, il simulacro d'un Gran Tutto opimo d'Infinità Cosmica, il punto originario da cui sgorgava uno spazio assoluto, l'immoto buco voraginoso, il campo sconosciuto di cui tracciava l'inaudito contorno andando lungo il suo profilo sinuoso, il gorgo, l'alta muraglia, la trappola, il muro infinito privo di varchi...


Otto giorni s'accanì, stando così, sfinito, abbruttito, sull'oblungo bukhara, lasciando briglia sciolta alla sua fantasia. Guardava a lungo, poi nominava i suoi simulacri, gli dava forma, solidità, forniva loro la sostanza d'un romanzo. Stava com'immoto guardiano, divagando, braccando il fantasma d'un lampo divino in cui tutto, dissigillandosi, si chiariva.

Soffocava. Non una traccia, una guida, un faro; solo 20 crittogrammi dai quali non riusciva a cavar nulla pur avvicinandosi di continuo all'uscita dal busillis, pur sfiorandola: sul punto di trovarla ("la so, la so da tanto, tutto ciò mi sa di già visto, di già noto, di già provato...") subito si oscurava, scompariva, lasciando il posto a un borbottio furtivo, a un sibillino borborigmo, a un parlottio diffuso. Un abbaglio. Un imbroglio.


Non dormiva più.

Pur coricandosi al tramonto, dopo sorbito un intruglio, uno sciroppo composto di allobarbital, oppio, laudano, morfina. Pur fasciandosi il capo con un foulard. Pur contando caproni su caproni.

In capo a pochi istanti si assopiva, pisolando. Poi, d'un tratto, un improvviso soprassalto. Rabbrividiva. Allora ricompariva, assillandolo, quasi incrostata in lui, l'angosciosa trama: la durata d'un lampo: "la so! l'ho colta! la stringo!".

Balzava sul bukhara, ma troppo tardi, ogni volta troppo tardi: tutto sparito, salvo la rabbia di una bramosia inappagata, salvo lo scorno di una domanda insoddisfatta.

Allora, arzillo al pari di qualcuno uscito lì lì dal suo giusto sonno, si alzava, camminava, buttava giù un sorso, guardava fuori, sfogliava un libro, ascoltava la radio. Talvolta, indossato qualcosa, usciva, andava in giro, passava la nottata al bar o al suo club, o montava in macchina (lui, automobilista dappoco) guidando a caso, di qui, di là, a naso: Chantilly, Aulnay-sous-Bois, Limours, Raincy, Dourdan, Orly. Una volta arrivò fino a Saint-Malo: passò lì alcuni giorni, ma non dormì affatto.


Provò di tutto, ma non ci riusciva mai. Una volta indossò un pigiama a pois, un'altra una maglia, un collant, un foulard, o la gandurah d'un suo cugino spahi; poi provò nudo. Acconciò in tutti i modi il suo giaciglio. Un giorno affittò un dormitorio, pagando una cifra spropositata, poi provò una branda, una cuccia, un'alcova chiusa, una a baldacchino, un sacco da camping, un divano, un sofà, un'amaca.

Si scopriva, allora rabbrividiva; si copriva, ma allora sudava. Provò con l'alfa-alfa, con il kapok, ci provò stando accucciato, accovacciato, a cavalcioni. Un fachiro gli consigliò una tavola chiodata, un guru gli ordinò una postura yoga: il braccio passato sotto la nuca fino a toccar la caviglia con la mano.

Ma non vi fu risultato alcuno. Non ci riusciva. Quando arrivava al punto di assopirsi, la cosa s'installava in lui, gli vagolava intorno. La cosa lo sfiniva, lo asfissiava.


Un vicino gli consigliò una visita di controllo alla clinica Cochin. Compilò un modulo: annotò dati anagrafici, matricola all'Ufficio Lavoro. Lo auscultarono, lo palparono, poi lo radiografarono. Si adattò di buon animo alla trafila. Gli domandarono: soffriva? Un poco. Di cosa? Non dormiva? Provato coi tranquillanti? Con una tisana? Sì, ma il sonno non arriva. Dolori agli occhi, ogni tanto? Non proprio. Al palato? Talvolta. Al capo? Sì. Ai timpani? No, tuttavia ogni tanto udiva un borbottio. Sia più circostanziato: un borbottio o un borborigmo? Non lo so.

Lo mandarono dall'otorinolaringoiatra, un tipo in gamba, calvo, dai lunghi favoriti color fulvo, occhiali, farfalla grigia a pois bianchi, in bocca un sigaro puzzoso d'alcool. L'otorino gli tastò il polso, lo auscultò, gli guardò il palato, trafficò intorno ai suoi padiglioni auricolari, titillò il timpano, gli rovistò gola, naso, condotto sinistro, staffa. Lavorava pulito, l'otorino, ma canticchiava visitandolo: la cosa irritò Anton.

- Oh Oh Oh, gridò. Fa malissimo...

- Zitto, lo rimbrottò l'otorino, ora andiamo giù, in radiografia.

Vokal si accomodò sopra una sorta di bigliardo candido, lucido, algido. L'otorino schiacciò alcuni pulsanti, calò il volano, oscurò la stanza, scattò la sua buia foto, illuminò di nuovo. Vokal cominciò a rialzarsi.

- Alt! gl'intimò l'otorino, non ho ancora finito, bisogna ch'io faccia un'altra prova, in quanto può darsi si tratti d'un sintomo infiammatorio.

Avviò un macchinario, gli appoggiò sul cranio una punta d'indio a forma di matita, poi analizzò i suoi valori sanguigni sul tracciato prodotto dai rotori vibranti:

- La traccia tocca i valori critici, diagnosticò l'otorino; picchiava col dito sul macchinario masticando il suo sigaro: sinus occluso, bisognava aprirlo.

- Aprirlo! si allarmò Vokal.

- Sì, proprio, aprirlo, continuò l'otorino; in caso contrario si rischia uno spasmo laringico.

Pronunciava la sua diagnosi con un'aria sorniona. Vokal non capiva: lo stava pigliando in giro? Ad ogni buon conto il suo macabro umorismo lo angosciava. Si soffiò il naso, sputacchiando grumi sanguigni, poi smoccolò indignato:

- Dannato ciarlatano: sbottò, andrò da un oftalmologo!

- Via, via, lo rabbonì l'otorino, dopo un paio di immunotrasfusioni la cosa sarà chiarita. Ma prima bisogna mandar tutto al laboratorio d'analisi.

Schiacciò un tasto. Arrivò un giovanotto; indossava un camiciotto color indaco.

- Rastignac, lo apostrofò l'otorino, vai di corsa a Foch, a Saint-Louis o a Broca. Abbiamo bisogno subito di vaccino anticonglutinativo.

Poi pronunciò la sua diagnosi; la dattilografa picchiava sui tasti:

- Vokal Anton. Visitato in data 8 maggio: caso di coriza, con zona rinofaringica occlusa; rischio di calo cronico d'olfatto, atrofia sinusoido-cranica sinistra con mucosa infiammata fino ai bargigli sublinguali; possibilità di spasmo laringico in caso di siringazioni. Il sinus va quindi asportato, in quanto si configura una futura possibilità di afonia.

Poi rassicurò Vokal: si trattava di un lavoro chirurgico lungo, minuzioso, ma facilissimo. Lo si praticava già sotto Luigi XVIII. Nulla di cui angustiarsi: in capo a una dozzina di giorni tutto sarà passato.

Così Vokal andò in clinica. La sala contava 26 posti, di cui 25 già occupati da individui dall'aria moribonda. Gli somministrarono un ansiolitico da cavallo (Largactyl, Procalmadiol, Atarax). Al mattino passò il Primario; uno stuolo di dottorini lo accompagnava; succhiavano ogni sua parola; si sganasciavano ad ogni suo minimo sorriso. Si avvicinava a un malato, un moribondo col rantolo, gli tastava il polso, provocando il morituro a un rictus, a una smorfia piagnucolosa. Ma a tutti largiva una parola di coraggio, un motto di spirito; offriva un bonbon a un marmocchio con la bua, un sorriso alla sua mamma. Coi 5 o 6 casi più gravi pontificava diagnosi: Parkinson, Fuoco di Sant'Antonio, Carbonchio, Guillain-Thaon, Coma post-parto, Mal Franzoso, Convulsioni, Palpitazioni, Torcicollo.

Quattro giorni più tardi, Vokal fu portato in portantina alla sala di chirurgia. Cloroformio. L'otorino gli scrutò il naso, poi ci infilò un bisturi: il taglio provocò un flusso di cui l'otorino approfittò subito scarificando il sinus con il raschino d'Obradovitch. Poi lavorò di bulino, con mano di artista, aiutandosi con una nuova pinza collaudata da poco con ottimi risultati da un chirurgo britannico. Quindi, tagliatolo col bisturi, tirò fuori dal naso di Vokal un fungo maligno; da ultimo spruzzò una sostanza caustica sulla piaga.

– Ottimo, confidò al suo aiuto tutto sudato, coagula da Dio. Lo stato infiammatorio va calando.

Tamponò, suturò, fasciò. Unico rischio, in nottata, un colpo o un trauma. Bisognava star tranquilli, lasciando al taglio la possibilità di cicatrizzarsi.

Otto giorni dopo Vokal uscì. Aggiungiamo: quanto al sonno, tutto invariato, ma in cambio non soffriva più tanto.

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Pagina 33

3
La cui chiusa narra la mancata salita
al soglio pontificio di un figlio
nato dalla colpa ma poi contritosi



Più tardi, spinto ancora dal bisogno di capirci qualcosa, inaugurò un diario.

Aprì un taccuino. Alla prima pagina, in alto, intitolò:


LA SCOMPARSA



poi, più sotto:


Scomparso. Chi scomparso? Cosa?

Imbucato in fondo al mio bukhara si dà un motivo (si dava, si darà, può darsi), anzi, qualcosa di più di un motivo: un logos, una forza.

Imago sul mio bukhara.

A tratti ricorda un Arcimboldo: un autoritratto, o piuttosto il ritratto distorto di un Dorian Gray stravolto, di un albino malaticcio, composto non d'animali marini, di copiosi frutti, di circonvoluti pistilli aggrovigliati fino a comporsi in forma di collo, volto, sapraccigli, ma di una massa di strani vibrioni combinati con artifizio tanto acuto da far subito apparir chiaro com'un solo corpo sia bastato alla fattura di tal ritratto; ma intanto non si può individuarvi alcun tratto distinto, in quanto l'artigiano mirava a un prodotto in grado di far salda la norma – di volta in volta mostrandola od occultandola – su cui s'ordiva pur non pronunciandola mai.

Dapprincipio non noto nulla di mutato. Sono soltanto confuso, sottosopra, ogni cosa mi par strana, ambigua, angosciosa. Poi, d'un tratto, lo so, lo intuisco, non lontano: un nonsocosa mi svia, mi agita, mi turba. Allora tutto si disfa. Sono stordito, spossato: sragiono. Mi angustio, in un travaglio acuto, ostinato. Il miraggio in cui sono stato intrappolato non mi lascia più.

Provo il bisogno di nominarlo con una parola, di darvi sfogo con un grido: ho capito, proprio da qui tutto ha cominciato a scombussolarsi. Voglio uscir fuori dal sibillino, dal confuso borbottio, dallo sconclusionato discorso privo di figura. Ma non ho possibilità alcuna: posso solo inoltrarmi ancor più in fondo al miraggio.

Ho bisogno di un bandolo: ma tutto si allontana sfocandosi...


Continuò il suo diario fino all'autunno. Ogni giorno vi annotava con minuzioso scrupolo un mucchio di particolari insignificanti: finita la provvista d'alcool, comprato un disco al cugino Julot (fra poco finirà il ginnasio), accorciato il mio burnùs, salutato il vicino malgrado il suo cagnolino Azor abbia fatto la cacca sul mio stuoino. Annotava ancora di un romanzo acquistato, di un amico incontrato, di ogni parola o fatto fuori dall'ordinario (un avvocato, al Palais, ha lasciata incompiuta la sua arringa; un balordo minacciava i passanti all'arma bianca; un tipografo impazzito sabotava i suoi macchinari...).

Talvolta, con la bic in mano, divagava, narrava, si autobiografava, si analizzava. Talvolta ragionava sui suoi fantasmi, o sull'isola di Ismail.

Un giorno immaginò tutto un romanzo: la storia di un fanciullo di 5 anni, un fantolino chiamato Aignan. Abitava in un palatio in rovina. Un giorno la sua balia gli raccontò:

- Una volta tu abitavi qui con i tuoi 25 cugini. Si campava tranquilli, allora. Ma poi sono scomparsi tutti, uno dopo l'altro. Non ho mai saputo il motivo. Ora sta arrivando il tuo turno; vai, prima ch'io muoia.

Così Aignan partì subito. In accordo con i più puri canoni di un Bildungsroman, la storia cominciava con un raccontino ricco di significati morali: all'uscita da un bosco, una Sfingi assaliva Aignan.

- Toh, sbottò l'orrido mostro, giusto uno spuntino da papparsi; da mo' non passava in 'sti paraggi un bamboccio tanto cicciotto.

- Adagio, Sfingi, adagio! attaccò Aignan da navigato studioso di Lacan, stai calma un attimo, prima di tutto va compiuto il tuo fato.

- Il mio fato, domandò stupito il mostro, a qual pro? Risparmia il fiato. Mai alcuno ha indovinato la risposta.

Poi, colta da un dubbio improvviso:

- Tu la sai, magari?

- Chissà, mormorò Aignan con un sorriso malizioso.

- Non mi garba la tua aria fanfarona, brutto aborto, continuò l'ambigua Sfingi. Ma starò al gioco, così la prova addolcirà il tuo trapasso; ascolta ora la mia ultima parola:

Imbracciò un liuto, tirò il fiato, poi, accompagnandosi, cantò:

    Qual animal
    Ha il corpo fatto a tondo non conchiuso
    Sbarrato da un trattino dritto?

- Io! Io! gridò allora Aignan.

Il bizzarro mostro si scurì in volto.

- Dici?

- Sicuro, garantì Aignan.

- Allora hai indovinato, mormorò dispiaciuto il mostro.

Vi fu una lunga pausa, muta. La tramontana soffiava in un azzurro cristallino.

- Oh fondati timori, sospirò il mostro piagnucolando, sono stato battuto da un bamboccio.

Un groppo di pianto gli strozzava la gola.

- Forza, Sfingi, finiamola qua, brontolò Aignan. In cuor suo compativa il mostro. Poi continuò: finivo in fondo alla tua pancia, s'io sbagliavo la risposta. L'ho saputa, ho vinto; la Norma non ti dà scampo, morrai.

Alzò il dito minaccioso.

- Dài, salta giù dallo strapiombo, brutta Sfingi.

- Oh, mormorò il mostro, tu mi vuoi morta!

- That's right! urlò d'un tratto Aignan, usando d'impulso la lingua britannica.

Brandì una mazza, colpì il mostro impaurito fino a quando non piombò giù dallo strapiombo in una vorticosa caduta. Un orrido urlo, un misto di ruggito di puma, di miagolio di gatto, di stridio di nibbio, di rantolo umano, risuonò d'intorno fino a diciotto giorni dopo...


Dopo un inizio così chiaro, il racconto, lo sviluppo non lasciavano dubbi: Alguan continuava il suo viaggio, valicando monti, valli; al tramonto sostava in villaggi ignoti; offriva il suo braccio ai carrai, ai contadini, agli scaccini. In cambio gli davano un po' di lardo, o una pagnotta strofinata con l'aglio. Tirava la cinghia. Non innaffiava mai la gola. Campava.

Più passavano gli anni, più Aignan maturava, si coltivava, allargava i suoi orizzonti, la sua Anschauung. Incontrava tipi strani. Ognuno contribuiva al suo maturarsi, dandogli di volta in volta un lavoro, un alloggio, uno scopo. Imparò a comprar cavalli. Fu aiuto di un capomastro, poi si costruì una casa. Fu tipografo, fondò una rivista.

Intanto il racconto di Vokal si strutturava. Trovava un'infinità di spunti un po' oscuri, di citazioni simili - parola dopo parola, tratto dopo tratto (salvo la chiusa) - alla Saga dai profondi significati, alla storia gaia ma tuttavia pia, ricca di umanità, già usata in una sua Chanson dal troubadour Hartmann, rivisitata poi, in una trilogia, da Thomas Mann.

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6
In cui, una volta fatti i compiti di scuola,
si va dritti allo zoo



L'amico di Anton Vokal si chiamava Amaury Conson.

Di 6 figli avuti, il primo, chiamato guardacaso Aignan, non fu mai più rintracciato da quando, 28 anni prima, si trovava a Oxford, a un simposio organizzato dalla Fondation Martial Cantaral, ai cui lavori fu invitato addirittura il noto studioso britannico Lord Gadsby V. Wright. L'altro figlio, Adam, morì in un sanatorio: non provava più alcuno stimolo al cibo, la cui mancanza lo portò alla tomba. Altri 3 figli morirono ancora: un capodoglio inghiottì Ivan a Zanzibar; Odilon, aiuto di Luchino Visconti, fu ucciso a Milano da un osso aguzzo conficcatoglisi in gola. Urbain morì dissanguato a Honolulu: succhiato tutto da una mostruosa sanguisuga, gli praticarono diciotto trasfusioni, ma ormai troppo tardi. Il solo figlio rimasto, Yvon, campava ancora: ma Amaury non amava tanto Yvon, in quanto Yvon, abitando lontano, andava troppo di rado a trovarlo.


Amaury Conson frugò con cura la villa di Anton Vokal. Parlò con il suo vicino; da costui fu informato sul sinus asportato di Vokal. Domandò informazioni a tutti.

Anton Vokal abitava in squallidi locali, privi di qualsivoglia lusso, di ogni attrattiva, rifiutando qualsivoglia comodità: muri bianchi tirati a calcina, kilim sozzi fatti di lana da quattro soldi, tutta sfilacciata. In una stanza malcombinata, un soggiorno assai trascurato, un sofà ammuffito, da cui spuntava l'imbottitura, stava accanto a una cassapanca da cui usciva un tanfo di cipolla marcia. Una striscia di nastro da imballaggio fissava all'anta di un armadio zoppo quattro orripilanti riproduzioni a colori. La lastra satinata di un bovindo illuminava la stanza di bagliori opachi, smorti. In un angolo, una branda spartana, uno scomodo giaciglio dai cuscini sfatti, con una sozza trapunta. Tutto il bagno stava in un oscuro sgabuzzino, con una brocca, una tazza, un rasoio, un asciugamano smangiucchiato dai topi.

Su quattro scaffali storti si trovavano molti libri dai dorsi consumati, dai piatti lisi; Amaury li aprì uno a uno. Ciascuno riportava un mucchio di annotazioni o appunti; provò a capirci qualcosa, ma invano. Individuò tuttavia 5 o 6 volumi sui quali compariva una maggior quantità di appunti di mano di Vokal: Art and Illusion di Gombrich, Cosmos di Witold Gombrowicz, l' Opoponax di Monica Wittig, Doktor Faustus di Thomas Mann, Noam Chomsky, Roman Jakobson, Blanc ou l'Oubli di Aragon.

Poi Amaury aprì una robusta scatola. Vi trovò molti manoscritti, la prova di quanto Anton amava lo studio: riposti con scrupolosa cura, là si trovavano infatti i suoi appunti scolastici. Così Amaury ricostruì, passo dopo passo, il dotto curriculum studiorum di Anton.

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Pagina 80

La scomparsa di Hassan Ibn Abbou provocò il cordoglio di molti. Intorno alla sua bara si radunò una gran folla. Una lunga fila si snodava dal quai Branly fino al Faubourg Saint-Martin. Tutta la Parigi in vista accompagnò l'avvocato alla sua ultima dimora. Non mancava Amanda Von Comodoro-Rivadavia, con l'Arciduca Urbain d'Agostino. Olga singhiozzava. Ottaviani stava lì con la sua aria da zotico. Amaury Conson appariva stravolto, stava ancora rimuginando sul "Moby Dick" di Anton Vokal, sul suo significato.

Hassan Ibn Abbou fu inumato ad Antony, in un colombario. Il suo loculo appariva molto grazioso. Quarzo cornalino contornava un alabastro più puro di uno zaffiro transvaaliano; una placca di bronzo incrostata d'iridio portava incastonati nastri, croci, cordoni, blasoni, con i quali molti sovrani, svariati maharaja insignirono l'avvocato, a prova di una stima alquanto ampia da lui goduta: Croci Militari, una Victoria Cross, la Nichan Iftikhar, il Sovrano Orso di Labrador, il Gran Crocifisso Pontificio.

Furono pronunciati 6 discorsi. Prima di tutti parlò François-Armand d'Arsonval ricordando il lavoro riorganizzativo compiuto da Hassan al T.A.R. Poi parlò Victor, duca d'Aiguillon, azionista di maggioranza alla Anglo-Iranian Bank: "Abbiamo avuto in Ibn Abbou non soltanto il nostro factotum ma soprattutto, lungo 20 anni di attività, il socio più fidato"; poi l'Imam di Agadir ricordò i profondi vincoli di Hassan con i suoi luoghi natii; quindi, con raffinata pronuncia britannica, Lord Gadsby V. Wright, già prof di Hassan a Oxford, avanzò dapprima la proposta di nominarlo Auctor Honoris Causa, poi ricordò il suo brillantissimo curriculum studiorum. Da ultimo, Raymond Quinault riandò ai discontinui ma fruttuosi rapporti di Hassan con l'Opificio.

Da ultimo fu la volta di Carcopino; portava la parola di Quai Conti. 6 anni prima, raccontò, dopo 3 votazioni a scrutinio maggioritario - la cosa provocò allora gran chiasso - l'Istituto cooptò Hassan Ibn Abbou, associandolo al sotto-comitato pro Corpus Mauritanicarum Inscriptionum, posto (anzi incarico) da cui l'avvocato avviò il suo approfondito lavoro sulla tomba poco nota, ma soprattutto poco studiata, di un oppidum civium romanorum già scavato a Thugga (oggi Dugga), con buoni risultati, da un latinista giudio di Monaco sfuggito ai nazisti. L' oppidum fu assaltato da Giugurta più di una volta. Giuba l'Africano vi dormì (Titus Livis dixit); Traiano vi costruì un palazzo in omaggio al figlio Adriano.

Ma Carcopino, citando Piganiol, smontò tali voci incontrollabili.

Tutto ciò non riguardava in alcun modo la scomparsa di Hassan Ibn Abbou. Alcuni tuttavia applaudirono. Infatti, malgrado il tono monotono, Carcopino offrì al suo pubblico un ottimo discorso.

Quindi, parlando a braccio, Carcopino tracciò un vivido profilo di Hassan, la cui scomparsa privava non solum l'Istituto ma tutta la Francia di uno studioso coi fiocchi, con tutti i suoi importanti contributi: "Soltanto Hassan Ibn Abbou, infatti, ha capito quanto sia ricco di significati l'ambiguo rapporto civiltà romana-mondo barbarico; lui ha iniziato, anzi istituito una nuova disciplina oggi ancora malsicura ma davanti a cui si spalanca, dopo gli importanti passi compiuti da Hassan Ibn Abbou, un futuro radioso. Diamo quindi fiducia al virgulto piantato da Hassan Ibn Abbou, da cui si trarranno molti, molti frutti". Così parlò Carcopino con tono afflitto. Il suo cordoglio si comunicò a tutti, toccò tutti; non osarono applaudirlo, qualcuno singhiozzò.

Ma Amaury Conson notò, poco lontano, il sorriso di un uomo. La sua aria franca, gaia, diciamo simpatica, lo conquistò subito. Robusto, non malfatto, indossava un abito molto chic, cucito di sicuro da un sarto britannico. Amaury si avvicinò.

— Dimmi, gli domandò di punto in bianco, cosa significa il tuo sorriso?

— Ascoltando il discorso, ho notato una lacuna assai strana, gli confidò lo sconosciuto.

— Una lacuna? farfugliò Amaury faticando a controllarsi.

— All'incirca a maggio Hassan Ibn Abbou stava dando il suo dottorato al CNR; ai commissari ad hoc fu da lui dato un succinto ma a mio avviso assai valido lavoro sullo jus latinum, ossia sul diritto romano, campo in cui non ignorava quasi nulla. Vi trattava soprattutto un punto fino ad allora oscuro, su cui molti studiosi di vaglia si sono affannati invano: i cittadini di un pagus o di un oppidum (contadini o talvolta pastori) hanno o non hanno diritto alla cittadinanza romana, o rimangono piuttosto comuni abitanti sahariani? Pur zoppicando in vari punti, capitolo conclusivo in primis, il suo lavoro, in accordo con quanto scritto da Marc Bloch sul rapporto Dominus-Vassallo, da Mauss sul vincolo Sciamano-Tribù, da Chomsky sulla coppia Insignificanti-Significanti, dimostrava trattarsi di una norma non ancora consolidata (tutt'al più facoltativa), dando prova in tal modo di quanto mistificava chi, appoggiandosi a un Diritto "positivo", trovava proprio in ciò il sostrato su cui sono basati il Colonialismo, la civiltà Romanza, il Mondo Barbarico. Bisognava quindi affrancarsi da un a priori di tal fatta, impostando la cosa dal punto di vista infrastrutturalistico. Capisci cosa significhi: Karl Marx all'Istituto! Inaudito. Tuttavia i commissari lo approvarono, salvo Carcopino (soprannominato Cocopinar); dicono abbia gridato: "Idiota! Idiota! Idiota!".

— Malgrado ciò proprio lui ha fatto il discorso, mormorò Amaury.

— Sì, concordò lo sconosciuto, sono stupito; immaginavo di trovarvi 5 o 6 allusioni. Manco una!

— Zitti, li richiamò Olga, ci siamo.


Tutti si scoprirono il capo, alzando i loro panama, i loro schiacchi.


Un ammiraglio scattò sul saluto, zoppicando in modo vistoso.

Ottavio Ottaviani tirò fuori furtivo un moccichino bianco. A molti s'inumidirono gli occhi. Un paparazzo scattava foto a mitraglia ad Amanda Von Comodoro-Rivadavia, scioltasi in un pianto dirotto sulla spalla di Urbain d'Agostino, la sua ultima fiamma.

Arrivò un parroco con una stola gialla, spruzzando acqua santa con una cannula d'oro massiccio, poi quattro diaconi caracollanti sotto un baldacchino addobbato con nastri disposti intorno a un crocifisso piuttosto bislacco, poi quattro portantini con in spalla la bara di mogano rifinita in bronzo. Uno di loro inciampò: la lunga cassa scivolò al suolo, si aprì: càspita! sparito il corpo di Hassan Ibn Abbou!


Quanto a casino, scoppiò un gran casino! Il Quai d'Orsay incolpò la Polizia: la Polizia accusò Matignon; a Matignon incolparono la Ditta Roblot; la Ditta Roblot incolpò – vai a capirlo – la Clinica Foch; la Clinica Foch incolpò l'Istituto; l'Istituto incolpò l'Anglo-Iranian Bank; l'Anglo-Iranian Bank accusò Pompidou; Pompidou additò Giscard; Giscard scaricò tutto su Papon; Papon tirò in ballo Foccard...

– Ah no, sbottò Ottavio Ottaviani, un Ibn Barka all'anno ci basta!


Dopo alcuni giorni lo scandalo fu insabbiato. La scomparsa di Anton Vokal – ma siamo sicuri sia scomparso? – fu ignorata; ignorata fu la scomparsa di Hassan Ibn Abbou.

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15
Qui, fatta piazza pulita di 20 anni di svariati svarioni
si scoprirà in qual modo sia colato a picco il Titanic



- No! No! Così morrà! gridò Augustus.

- Abyssus abyssum invocat! chiosò cupo Anton Vokal.


Olga singhiozzava, sconvolta, distrutta. Allora Arthur Wilburg Savorgnan tagliò l'aggrovigliato filo con cui la Squaw imbastiva il suo lungo racconto.

- L'oblio, cominciò, non ha ancora mitigato i nostri dolori. Douglas Haig 20 anni fa, Anton Vokal non molti giorni or sono, Augustus oggi: sono morti, sono scomparsi, falciati via da un'oscura condanna non ancora finita, condanna in cui può darsi siano caduti, chi può dirlo, puranco Hassan Ibn Abbou, Othon Lippmann, l'ignota mamma di Haig...

- Tutti quanti i nostri figli, salvo Yvon, sospirò Amaury Conson.

- Tuttavia, continuò Arthur Wilburg Savorgnan, non siamo un po' più vicini al nostro scopo? Non abbiamo ormai raccolto importanti indizi? La Saga narrataci oggi dalla Squaw con tanta dovizia di particolari non può darci, carta canta, la possibilità di affrancarci dall'angoscioso stato in cui ci troviamo?

- Ma lui ignorava la mia storia! gridò d'un tratto Olga.

- Haig la ignorava, sì, ma puranco tu la ignoravi, continuò la Squaw riannodando il suo lungo filo. Augustus no. Lui capì subito:


La famiglia Mavrokhordatos (scritto talvolta Mavrocordato o Maurocordata: in un idioma balcanico quasi sconosciuto, scambiato addirittura con un formulario anagrammatico, significa, dicono, "dall'anima scura" o "dalla maligna forza"), la famiglia Mavrokhordatos, allora, originaria di Istanbul, abitava in un palatio da cui si dominava sia su Thanatogramma, in riva al Ponto, sia su Alippopolis, in riva a Mar di Marmara; dapprima fornì al Sultano vari icoglani: Stanislao sbarbava Solimano, Costantino curò Ibrahim, Nicola fu turcimanno (oggi diciamo dragomanno): acquisì, su incarico di Abd-ul-Aziz, più di 250000 volumi (comprati quasi tutti all'usato), il vanto di tutto l'Islam; suo figlio, Nicola junior, fu nominato Ospodaro in Banato; Abd-ul-Hamid gli affidò i suoi affari in quanto riusciva a far di qualsiasi discorso, parlando in modo anodino, un guazzabuglio di cui non si capiva nulla, malgrado i molti indizi dai quali s'intuiva con facilità il rozzo modo in cui cifrava o traslatava.

Suo simbolo, una Sfingi circonfusa di fiamma; favorito dal Sultano, aspirava alla nomina a Visir o a Mammalucco. Ma quattro anni dopo Mahmud III, invidiando l'autorità acquistata dall'Ospodaro (lo immaginava già sul trono di Istanbul), lo assassinò, condannando poi al palo la sua famiglia.

I Mavrokhordatos riuscirono con molta difficoltà a scappar via. Agostino, il nonno di Olga, abbandonò il Diwan, andò a Durazzo, vi aprì un studio di avvocato. Poi fondò un quotidiano, con cui incitava alla rivolta contro il Sultano. "Popolo d'Albania", proclamò un giorno, "siamo all'alba di un giorno radioso! Addosso al tiranno, innalziamo i nostri gonfaloni insanguinati! In marcia in marcia! Irrighiamo i nostri campi con la corrotta linfa!".

La rivolta dilagò a Durazzo. Alcuni ustasci furono trucidati. In ogni luogo si gridava "Muoia il Turco!", "Abbasso l'Islam!". Si riunirono sotto un simbolo fatto con un drappo di organzino bianco in cui campiva una Sfingi circonfusa di fiamma, già di Nicola. Un grosso partito unitario, anarco-socialista, mobilitò il popolo. Un uomo chiamato Arthur Gordon, lontano cugino, si sussurrava, di Byron, zoppo al par di lui, al par di lui Britannico, galvanizzò gli oppositori con un Inno Patriottico subito cantato da tutti, sfidando gli spadoni impugnati dai timarioti.

In capo a quattro anni gli Ottomani furono sconfitti. A Corfù fu firmato l'armistizio: all'invitto popolo di Albania fu così riconosciuta l'autonomia. Subito Vittoria, strappata a Cavour l'iniziativa di una politica di aiuti al nuovo stato, inviò a Tirana con un mandato diplomatico Lord Vanish, accorto capitano oxfordiano favorito da Richard Vassal-Fox III lord Holland: costui, introdottolo a palazzo, appoggiò poi la sua nomina. Agostino Mavrokhordatos, già di suo filo-britannico, fu convinto dallo scaltro lord Vanish di un fatto: uno statuto di colonia o di paracolonia appariva il più adatto al popolo d'Albania, infiacchito dal giogo turco, quindi non ancora pronto all'autonomia; bisognava quindi dar alla Corona la possibilità di farsi avanti con la scusa di dar il proprio appoggio ai partiti allarmati dalla minaccia di una dittatura, quindi, con una mossa accorta, trasformando l'Albania in un dominion. Ma bisognava agir subito, anticipando l'iniziativa di Abissini, Austroungarici, furbi Italiani. Convintosi, Agostino ordì subito un astuto complotto. Il danaro britannico affluiva in quantità. Si costituì una quinta colonna. Uomini fidati furono infiltrati in tutti i posti importanti. Organizzarono un piano di molta sophistication (uso qui una parola mutuata dal britannico), a prova di bomba. Ma a quattro giorni dal colpo di mano, con un corpo di ussari britannici di stanza a Brindisi pronto a occupar manu militari, al comando stabilito, il suolo d'Albania, la cosa fu di pubblico dominio. Un passo falso? La soffiata di un patriota? L'abbandono di un apostata o il voltafaccia di un Giuda pronto a darlo via a chi più lo pagava? Chissà? In ogni modo scoppiò un gran casino. Non ci sono popoli sciovinisti quanto il popolo d'Albania. Furono condannati al palo diciotto magistrati, accusati, non si guardò tanto alla sostanza, di complicità con i golpisti.

Quanto ad Agostino, non lo trattarono con molto riguardo: prima lo frustarono, poi lo attaccarono alla ruota; il popolo arrivò in massa, gli lanciò contro insulti sarcastici, torsoli, frutta marcia. Gli infilarono al collo una gogna; gli fracassarono non so quanti ossi; gli ficcarono un bavaglio fino in fondo alla gola; lo strangolarono, lo immolarono, lo innaffiarono di alcool, quindi lo bruciarono.

Di una vigoria straordinaria, non morì prima di 30 giorni. Allora lasciarono il suo corpo in pasto a un carlino: manco lo toccò, puzzava troppo.

La smalah Mavrokhordatos di Durazzo contava ancora 26 individui. Tutti finirono in malo modo. L'Albania li braccò, razziò la casa avita, stuprò la nonna, trucidò i bambini imploranti.

Un anno più tardi si dava ancora la caccia al solo sopravvissuto, sul cui capo l'Albania, accanita, bandì una taglia di 1.000.000 di hrivnas, vivo o morto. Si trattava infatti proprio di un figlio di Agostino, chiamato Albino da suo papà in omaggio alla patria!

In ogni modo Albino riuscì a scappar via rifugiandosi in una fitta macchia, standovi nascosto otto anni, campando a fatica ma vivo, coltivando il proprio odio contro il popolo d'Albania assassino di tutta la sua famiglia, ma odiando ancor di più la Britannia cui dava non a torto la colpa di tutto l'inganno contro suo papà.

Un giorno, in un marabutto abbandonato, in cui si riparava ogni tanto un porcaio con i suoi quattro montoni trovò un ricco bottino: dobloni d'oro, diamanti, lingotti.

Allora, a mo' di nuovo Mathias Sandorf, consacrò il suo grandioso patrimonio ai suoi propositi ultori. Assoldò una banda di banditi, pagandoli molto, assicurando loro il fifty-fifty in cambio di un'assoluta disciplina.

Stabilirono il loro covo in un bordj scalcinato, lo chiamarono il "Bordj al Pigliardino", in quanto una volta vi sostò Fra Diavolo, un monaco-bandito solito dar l'assalto ai tiri a quattro o ai furgoni postali.

Quando assoldava un nuovo socio, Albino lo convocava dapprima al bordj. Tracannavano 5 slivowitz, uno dopo l'altro. Poi l'ardito compagno giurava sul crocifisso: sarò con voi fino all'Ultimo. Allora Albino lo tatuava sul braccio sinistro con una punta d'oro, lasciando così sul braccio un finissimo solco bianco, non profondo ma inciso in modo da non riuscirsi più a grattar via, un marchio distintivo visto una volta da un poliziotto di Tirana: tracciò uno schizzo, ma assai approssimativo: si trattava, a suo avviso, di un tondo sbarrato da un trattino dritto; ricordava un poco, ancora, gli avvisi stradali di passaggio proibito.

Alcuni compagni di Albino furono catturati, ogni tanto. Malgrado lo schizzo confuso tracciato dal poliziotto di Tirana, lo si capiva subito dal bianco marchio inciso al Bordj al Pigliardino: si trattava di suoi scagnozzi.

Ma in otto anni non furono catturati più di quattro uomini, quando la banda di Albino contava all'incirca 20 soci.

Si accaniva soprattutto contro i Britannici. Il consolato di Tirana saltò in aria una prima volta, poi un'altra, poi un'altra ancora. Ogni yacht britannico approdato a Durazzo rischiava molto di non salpar mai più l'ancora.

Addirittura il Titanic, quando colò a picco, anzi, quando s'inabissò, non fu a causa di un algido cozzo; fu piuttosto la sua mano di malvagio bandito; a bordo si trovavano infatti, a trattarvi i piani di un grosso laminatoio, i soci di un consorzio albano-britannico finanziato dalla Barclay's.

Lo scontro di un camion con una locomotiva a Quintinshill, poco lontano da Hamilton, sulla strada da Huntingdon a Oakham, ai primi d'agosto 1918, dimostrò a Scotland Yard - fu quasi il panico - una cosa: Albino non incontrava difficoltà alcuna a dar la caccia ai suoi rivali financo sul loro suolo natio. Ma Albino agiva così, lo si scoprì soltanto poi, al solo scopo di cavarsi lo sfizio, anzi, lo dichiarò proprio lui, "during his holidays", in quanto, pur bandito, una volta l'anno andava in vacanza in Britannia, l'odiata Britannia di cui amava tuttavia l'umido clima.

Così, obbligati con i suoi continui attacchi i Britannici a lasciar l'Albania, l'anno dopo Albino passò agli autoctoni. Cominciò con 5 o 6 incursioni; ma in uno stato tanto poco industrializzato, il suo bottino ammontava tutt'al più a pochi ovini rachitici o a irriscattabili villici.

La cassa si stava ormai prosciugando, bisognava quindi rimpinguarla.

In una vallata poco lontana dal Bordj al Pigliardino fioriva una gran quantità di rosolacci bianchi. Intuitavi subito, non a torto, l'opportunità di colossali profitti, Albino imparò da un farmacista il modo di distillarvi il laudano da cui si ricavava, con fumigazioni, un oppio di ottima qualità.

Ma tutti lo sanno: l'oppio non val una cicca fino a quando non si trova il modo di spacciarlo. Ora, i canali si diramavano da Ankara, arrivando fino ai Balcani; da qui, via Kotor, Dubrovnik, Spalato (oggi Split), approdavano dapprima a Rimini quindi a Milano, snodo primario di tali lucrosissimi traffici; tali canali si trovavano tuttavia sotto il controllo di un "sindacato" (composto da diciotto caids mandatari di Mafia, Cosa Nostra, Lucky Luciano, Jack "Dancing Kid" Diamond, Big Italy, "Chicago Loop Corporation", Bunny "Gunfight" Salvatori, più 5 o 6 organizzazioni di minor calibro) multi-nazionalistico, anzi sovra-nazionalistico.

Non stupido, Albino capì subito la rischiosità di immischiarsi in un giro così chiuso. Più astuto, ma soprattutto più ardito, azzardò un dumping: agganciato a Milano un tizio già in contatto con gli spacciatori, gli offrì l'oppio a un costo ribassato.

Più tardi, ingranditi gli affari, affidò la cura di tutto il traffico a un suo uomo di fiducia, a Durazzo: l'oppio arrivava infatti al Bordj al Pigliardino in auto, di qui lo portavano a Chioggia in barca, quindi a Milano con una chiatta lungo il Po.

Così Albino contattò a Tirana un uomo dalla fama di furbastro, ma d'altro canto fidato, accorto, scaltro, intuitivo, dotato di tatto, fantasioso. Si trattava - chi mi ha ascoltato fin qui l'ha di sicuro già capito, in caso contrario non mi ha ascoltato - si trattava, dico, di Othon Lippmann!

Così Olga - Augustus lo capì subito - innamorata pazza di Douglas Haig, si scoprì figlia di un amico di Othon, il maggior inimico mai incontrato da Augustus, un amico, di sovrappiù, intriso di odio accanito contro i Britannici!

- Ma allora chi fu, domandò Anton Vokal, la mamma di Olga?

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- O Anastasia, tartagliò, bruciando di bramosia, Cupido non ha ormai più dardi al suo arco!


Ispirato, improvvisò illico non lai in cui, imitando il Canticum Canticorum Salomonis, magnificava il radioso corpo d'Anastasia.

Larga tartana il tuo corpo, con cui navigo il mondo, sloop, brigantino scosso dal mio rollio.

Rocca cui do l'assalto il tuo volto, baluardo, fortilizio infranto dall'uragano appassionato da cui sono trasportato.

Conchiglia il tuo condotto auditivo, ostrica, valva volubilis in cui m'inoltro a spira.

I cigli tuoi battiti vibranti, attimi nictanti.

Archi trionfali i sopraccigli, sotto i quali m'inabisso in fondo al pozzo di tuoi occhi scuri.

Ottava in rima la tua bocca, atollo, corallo di porpora raccolto, pagando con la vita, in fondo ai flutti.

Colonna di gigli il tuo collo, kasbah di talco, giogo assoluto, gogna in cui sarò strozzato.

Scudo il tuo braccio, spira, marchio amoroso, trappola di bronzo, giro di garrota in cui morrà il mio slancio.

Anima con 5 dita la tua mano, sampan, skiff, barca, chiatta, s'accosta vagabondando, vagando a caso sui nostri corpi illanguiditi.

Spiaggia il tuo dorso, ondata, salino acquitrino, piatto giaciglio, rigonfia vallata, arco incurvato da orgastici spasmi.

L'incarnato, oh, il tuo incarnato, bianco sagrì d'infausto capodoglio, zigrino con la cui scomparsa io morrò, cuoio su cui fino all'ultimo scolpirò il tuo profilo.

Liquido corso il tuo fianco, bitta insicura, bordo cui mi accosto abbordando, cui attracco il mio amoroso brulotto.

Maiolica infranta l'onfalo tuo, nappo mai vuoto.

Scudo d'araldica ignota il tuo triangolo, onfalo oscuro, uscio di cui aprirò i cardini traforati.

Il tuo culo un frutto da cui trarrò l'intarlato nocciolo, la pigna incarnata, il racimolo maturo.

Il tuo toson, tuo Toson d'oro di cui io, al par di Giaso, vò da 20 anni sfidando il risucchio, il tuo toson, pubica divinità, ciglio amoroso, spina, tubo, canna, piuma, calamaio cui darò il calamo, marabutto, paradiso di amorosa conquista.

Il tuo solco, il solco tuo di loto, il tuo solco d'oblio, in cui tutto sprofonda, tutto si disfa, solco di Nirvana in cui morso morrò, in cui all'infinito rinato morrò all'infinito agonizzando di una gioia troppo umana.

Il tuo bocciolo, in cui tutto s'affossa, bocciolo, ultimo baluardo contro cui m'infrango, mi assorbi, mi prosciughi d'incompiuti slanci, brivido d'assoluto in cui vivrò un giorno, unito all'infinito, di brama o d'oblio, in un'oscurità in cui tutto sprofonda con l'attimo infinito in cui i nostri corpi saranno uniti in uno!


Così cantò Albino. Poi si spogliò, si alzò voglioso a papparsi la star.

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Pagina 178

– Un Katoun?

– Katoun, o Katun, sost. m.; indica un tipo di graffito usato dalla civiltà Maya, soprattutto in Yucatan. Si tratta di un modus significandi piuttosto limitato, usato soprattutto in iscrizioni su pilastri o su archi di trionfo sui quali, in basso, si scolpiva un motto, una favola, un almanacco, un ordo o un factum.

Si tratta di indicazioni, in cicli di circa 20 anni, riguardanti zodiaco, fasi lunari, stagioni, stirpi dominanti, migrazioni, punti cardinali, ma vi sono talvolta, quando non proprio un romanzo, racconti di fatti svincolati, diciamo così, da una logica assodata, miranti quasi all'artisticità tout court...

– Ma allora, una volta saputo trattarsi di un Katun, hai subito capito cosa significhi? domandò Augustus, bruciando di curiosità.

[...]

Il significato salta sì fuori ma, diciamo, in lontananza, in una distanza sfocata, in una vaga possibilità. Ci si arriva in via analogica:

Il discorso si articola in 3 fasi: dapprima distinguiamo soltanto uno sproloquio confuso, un cafarnao privo di significato, in cui scorgiamo tuttavia un indizio positivo, sicuro, improntato a una norma, convalidato da un'agnitiva concordia: un dispositivo con cui si comunica con una prassi consolidata, basata su una norma, uno statuto, un principio.

Potrà trattarsi di una normativa, di un Corano, di un'arringa, di un rogito, di un contratto d'acquisto di un campo, di un cartoncino d'invito, di una copia di un catasto, o di un romanzo. Ma, fatto prioritario, quanto ci importa riguarda non tanto il tipo di informazioni con cui trattiamo, quanto piuttosto il loro articolarsi, il loro disporsi, in qualsiasi caso, in atto comunicativo (altri dicono in comunanza), in un discorso fra individui, fra uomini qualsiasi, un discorso insomma di cui non conta la sostanza, sia transattiva o narrativa, fantastica o icastica, affabulatoria o apologica, prosastica o rimata.

Dapprima si avrà così una virtualità, un Logos, una "quiddità" attiva la cui grandissima importanza ci parrà subito ovvia, ma di cui non ci sarà ancora chiaro il significato. Così, qualora si tratti di un romanzo, ci sarà, ipso facto, il solito arcinoto contorno tipico di ogni romanzo: 5 o 6 individui s'incontrano, si scontrano sotto l'influsso di un fato da loro scambiato, fino all'ultimo, con il caso, miraggio di una fortuità in cui s'occulta, non occultandosi tuttavia abbastanza, la fatalità assoluta. Muoiono prima uno, poi 3, poi 5, poi 6, poi tutti, quindi, da ultimo, l'angoscioso filo lungo cui si dipana il racconto, ricamando una trama dai tratti confusi, da cui si sarà impossibilitati a ricavar un abbozzo compiuto, in cui tutta la nostra sagacia sarà vana.

Ma poi, una volta capita la norma compositiva cui sottosta il discorso, non piccola sarà la nostra maraviglia constatando in qual modo la scrittura abbia potuto attuarsi fino in fondo pur tanto condizionata da un vocabolario così smilzo, cassato, lacunoso.

Frastornati dalla forza, inaudita ma implicita, in cui s'individua il significato tabù, pur soltanto sfiorato, in cui lo si addita in modo obliquo, anzi, di più, in cui lo si pronuncia, lo si strapronuncia con allusioni, associazioni, saturazioni, ci sarà di continuo data, sulla pagina, la convalida di una traccia cui non si riuscirà tuttavia mai a dar fondo.

Quindi, da ultimo, ci sarà più chiaro a cosa mirava un piano tanto ardito sottoposto a una norma così tirannica. Tutto cominciò con un proposito pazzo, un proposito vano: abbandonarsi tutti all'ascrittura, sviarsi dalla solita strada di una parola troppo data, troppo sicura, troppo conformista, lasciando ai significanti soltanto un collo di battaglia, uno spiraglio, una cruna così piccola, minuscola, acuta da giustificarlo.

Da qui comincia la possibilità di parola di contro alla mancanza, su ciò si basa il costrutto scampato alla falcidia, così si dipana la fantasia, così dall'oscuro si arriva al chiaro!

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Pagina 283

POST-SCRIPTUM



Da qual mira, lungo il faticoso romanzo
- sfogliato, mi auguro, non troppo a spizzico -
da qual mira, dico, fu guidata la mano
di chi lo compilò



Il mio proposito di "Scriptor", ciò cui ambivo, la mia cura, la mia cura continua fu innanzitutto di dar forma a un prodotto fuori dall'ordinario ma istruttivo, un prodotto in grado, magari, di dar nuovo stimolo ai costrutti, ai narrati, ai dialoghi, ai fatti: insomma, in una parola, ai modi di cui si sostanzia il romanzo di oggi.

Malgrado io abbia finora raccontato soprattutto la mia vita, il mio io, l'ambito in cui vivo, il mio adattarmi o disadattarmi, il gusto consumistico in cui, hanno scritto, mi sono quasi cosificato, ho voluto, ispirandomi agli studi più attuali in cui si guarda soprattutto ai significanti, applicarmi al mio proprio, la scrittura, di cui ho finora usato al pari di cosa data, pacifica, ma ciò non con la mira di sottrarla ai suoi insiti conflitti - di sicuro non li ignoro - quanto piuttosto con lo scopo di far ancor più ampia la sua griglia normativa, in cui io intuisco non una morta zavorra, non un vincolo claustrofobico, ma piuttosto uno stimolo.


Cosa mi ha spinto a farlo? Più motivazioni, di sicuro, ma, voglio dirlo, innanzitutto fu il caso, in quanto tutto iniziò, tutto si originò da una sfida, da un a priori con cui dubitavo molto di approdar un giorno a un lavoro finito.

Poi ho cominciato a provarvi gusto, nulla più; così ho continuato. Vi ho allora trovato tanti risvolti affascinanti da tuffarmici a capofitto, trascurando molti altri lavori quasi finiti.


Si formò così, scritto sul foglio, parola dopo parola, frutto di una norma tanto più rigida quanto più significativa agli occhi di chi non la sa, un romanzo di cui, malgrado la sua bizzarria, fui subito abbastanza soddisfatto: innanzitutto, malgrado io non sia affatto dotato di ispirati affiati (ai quali, qui lo dico, non dò alcuna fiducia), mi dimostravo ricco d'immaginativa quanto Ponson o Paulhan; poi, soprattutto, riuscivo in tal modo a dar sfogo a un mio istinto primario, connotato d'infantilità (o d'infantilismo): il mio gusto, la mia mania, la mia smania di far uso di saturazioni, imitazioni, citazioni, traduzioni, automatismi.

Poi, più tardi, rinsaldato il mio proposito, connotai il racconto di un'impronta simbolica in cui, dapprincipio soltanto ricalcando la trama, poi addirittura dipanandola proprio dal simbolo, si notificava, pur non pronunciandola mai fino in fondo, la Norma cui il romanzo s'ispirava, la Norma in cui trovava, talvolta con fatica, tal'altra con un po' di cattivo gusto, ma talvolta con umorismo, con brio, un solco assai fruttuoso, uno straordinario stimolo al nuovo.


Mi paragonai allora a Frank Lloyd Wright, quando costruiva casa sua: anch'io, mutatis mutandis, stavo lavorando a un prototipo con cui, discostandomi dai frusti canoni sui quali gli scrittori d'oggi, in Francia, articolano, organizzano, imbastiscono i loro romanzi, rifiutando lo psicologismo unito al moralismo di cui gronda il nostro buon gusto patrio, a un prototipo con cui mi richiamavo a una pratica poco nota, una pratica rifiutata, ma con cui mi riallacciavo, mimandoli, simulandoli, imitandoli, ai vari Gargantua, Tristram Shandy, Mathias Sandorf Locus Solus o - chi non concorda? - Bifur o Fourbis, libri ch'io ammiro in sommo grado, pur non arrivando mai alla loro gioiosità, al loro bizzarro umorismo, pur non portato quanto lo sono i loro autori alla trovata giusta, alla malizia gaia, al paradosso, alla stravaganza, a dialoghi tanto lunghi.


Il mio lavoro, a prima vista un po' pasticciato, lo trovai così adatto a molti compiti: innanzitutto si trattava di un romanzo-romanzo, poi ci provavo gusto (Ramun Quayno, di cui mi proclamo oscuro famulus, ha infatti scritto una volta "Non si scrivono i libri allo scopo di intristir il popolo"), ma, soprattutto, ravvisando l'oscuro rapporto su cui si fonda il significato, contribuivo, davo il mio apporto al consolidarsi di una robusta carica critica da cui, rifiutando ab ovo l'improduttivo sostrato proprio di un Troyat, di Mauriac, Blondin, Cau, alla portata insomma di qualsiasi scribacchino di Quai Conti, al Figaro o al Pavillon Massa, il romanzo ritrovi la strada, in un prossimo futuro, a un logos più vivifico, alla rinnovata forza di un modo narrativo giudicato oggi ormai finito!

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