Copertina
Autore Georges Perec
Titolo Specie di spazi
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2002 [1989], Varianti , pag. 118, dim. 137x220x10 mm , Isbn 978-88-339-0498-6
OriginaleEspèces d'espaces
EdizioneGalilée, Paris, 1974
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe narrativa francese , etnologia
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Indice

 11 Avvertenza
 15 La pagina
 23 Il letto
 39 La camera
 35 L'appartamento
        su uno spazio inutile
        traslocare 1
        traslocare 2
        porte
        scale
        muri
 51 Il palazzo
 57 La strada
        esercitazioni
        brutta copia di una lettera
        i luoghi
 69 Il quartiere
 73 La città
        la mia città
        città straniere
        sul turismo
        esercizi
 8i La campagna
        L'utopia del villaggio
        sul movimento
 87 Il Paese
 90 L'Europa
 91 Il mondo

 95 Lo spazio
        sulle linee rette
        misure
        giocare con lo spazio
        la conquista dello spazio
            (la casa mobile di Raymond
                Roussel
            San Girolamo nel suo studio
            l'evaso
            gli incontri)
        l'inabitabile
        lo spazio (seguito e fine)

113 Repertorio di alcune delle parole
    utilizzate in questo volume
 

 

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Pagina 11

avvertenza


L'oggetto di questo libro non è esattamente il vuoto, sarebbe piuttosto quello che vi è intorno, o dentro (cfr. fig. 1). All'inizio, insomma, non c'è un gran che: il nulla, l'impalpabile, il praticamente immateriale: c'è la distesa, l'esterno, quello che ci è esterno, ciò in mezzo a cui ci spostiamo, l'ambiente, lo spazio tutt'intorno.

Lo spazio. Non tanto gli spazi infiniti, quelli in cui il mutismo, a forza di protrarsi, finisce con lo scatenare qualcosa che assomiglia alla paura, e neppure i già quasi addomesticati spazi interplanetari, intersiderali o intergalattici, ma degli spazi molto più vicini, almeno in teoria: le città, per esempio, o le campagne o i corridoi della metropolitana, o un giardino pubblico.

Viviamo nello spazio, in questi spazi, in queste città, in queste campagne, in questi corridoi, in questi giardini. Ci sembra evidente. Forse dovrebbe essere effettivamente evidente. Ma non è evidente, non è scontato. È reale, evidentemente, e probabilmente razionale, quindi. Si può toccare. Ci si può perfino lasciare andare a sognare. Niente, per esempio, ci impedisce di concepire qualcosa che non sia né città né campagna (né periferia), o dei corridoi di metropolitana che siano al tempo stesso giardini. Niente ci impedisce d'immaginare un metrò in aperta campagna (ho perfino già visto una pubblicità su questo tema, ma - come dire? - era una campagna pubblicitaria). In ogni caso, è certo che in un'epoca probabilmente troppo lontana perché qualcuno di noi ne abbia conservato un ricordo un minimo preciso, non c'era niente di tutto questo: né corridoi, né giardini, né città, né campagne. Il problema non è tanto sapere come ci siamo arrivati, quanto semplicemente riconoscere che ci siamo arrivati, che ci siamo: non c'è uno spazio, un bello spazio, un bello spazio tutt'intorno, un bello spazio intorno a noi, c'è un mucchio di pezzetti di spazio, e uno di questi pezzi è un corridoio della metropolitana, e un altro di questi pezzi è un giardino pubblico; un altro (qui stiamo entrando in spazi molto più particolareggiati), originariamente di grandezza piuttosto modesta, ha raggiunto dimensioni piuttosto colossali ed è divenuto Parigi, mentre uno spazio vicino, non necessariamente meno dotato in partenza, si è accontentato di restare Pontoise. Un altro ancora, molto più grosso, e vagamente esagonale, è stato circondato da una grossa linea punteggiata (innumerevoli avvenimenti, alcuni dei quali particolarmente gravi, hanno avuto come unica ragione d'essere il tracciato di questa linea) ed è stato deciso che tutto quello che si fosse trovato all'interno della linea punteggiata sarebbe stato colorato di viola e si sarebbe chiamato Francia, mentre tutto quello che si fosse trovato all'esterno della linea punteggiata sarebbe stato colorato in un modo diverso (ma all'esterno del suddetto esagono, non ci tenevano affatto a essere uniformemente colorati: un pezzo di spazio voleva il proprio colore e l'altro ne voleva un altro, donde consegue il famoso problema topologico dei quattro colori, non ancora risolto oggigiorno) e si sarebbe chiamato diversamente (in realtà, per parecchi anni, si è molto insistito per colorare di viola - e nello stesso tempo chiamare Francia - alcuni pezzi di spazio che non appartenevano al suddetto esagono e che ne erano spesso molto distanti, ma, in generale, la cosa ha retto meno bene).

Insomma, gli spazi si sono moltiplicati, spezzettati, diversificati. Ce ne sono oggi di ogni misura e di ogni specie, per ogni uso e per ogni funzione. Vivere, è passare da uno spazio all'altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male.

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Pagina 51

il palazzo


Progetto di romanzo

Immagino un palazzo parigino di cui sia stata tolta la facciata - una specie d'equivalente del tetto sollevato nel Diavolo zoppo o della scena del gioco del go rappresentata nel Gengji monogatari emaki - in modo che, dal pianterreno alle mansarde, tutte le stanze che si trovano dietro la facciata siano immediatamente e simultaneamente visibili.

Il romanzo - il cui titolo è La vita, istruzioni per l'uso - si limita (se è lecito utilizzare questo verbo per un progetto il cui risultato finale sarà all'incirca quattrocento pagine) a descrivere le stanze così scoperte e le attività che vi si svolgono, il tutto secondo processi formali nei cui particolari non mi sembra necessario addentrarsi ora, ma i cui soli enunciati mi sembra abbiano qualcosa di allettante: poligrafia del cavaliere (adattata per di più ad una scacchiera di 10 x 10), pseudo-quenine d'ordine 10, bi-quadrato latino ortogonale d'ordine 10 (quello di cui Eulero congetturò la non esistenza, ma che fu scoperto nel 1960 da Bose, Parker e Shrikhande).

Le fonti di questo progetto sono molteplici. Una di queste è un disegno di Saül Steinberg, pubblicato in The Art of Living (Londra, Hamish Hamilton 1952) che rappresenta un hotel meublé (si sa che è un meublé perché accanto alla porta d'ingresso c'è un cartello con la scritta No Vacancy) la cui facciata parzialmente rimossa permette di vedere l'interno di circa ventitré stanze (dico circa perché c'è anche qualche scorcio sulle stanze di dietro): il solo inventario degli elementi della mobilia e delle azioni rappresentate - pur non potendo essere esaustivo - ha qualcosa di veramente vertiginoso:

3 bagni; quello del 30 è vuoto, in quello del 20, una donna fa il bagno; in quello del pianterreno, un uomo fa la doccia.

4 caminetti di misure molto diverse, ma sullo stesso asse. Non ce n'è uno che funzioni (o, se si preferisce, nessuno vi accende il fuoco dentro); quello del 10 e del 20 sono muniti d'alari; quello del 10 è diviso in due da una parete divisoria che scinde ugualmente gli stucchi e il rosone del soffitto.

6 lampadari e 1 mobile tipo Calder

5 telefoni

1 pianoforte verticale e il suo sgabello

[...]

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Pagina 81

la campagna


Non ho molto da dire a proposito della campagna; la campagna non esiste, è un'illusione.

Per la maggior parte dei miei simili, la campagna è uno spazio di svago che circonda la loro seconda casa e che fiancheggia un tratto delle autostrade che prendono il venerdì sera quando vi si recano, e di cui la domenica pomeriggio, se se la sentono, percorreranno qualche metro prima di ritornare in città dove, per il resto della settimana, saranno i cantori del ritorno alla natura.

Eppure, come tutti, sono andato molte volte in campagna (l'ultima volta, me ne ricordo bene, è stato nel febbraio 1973; faceva molto freddo). D'altro canto mi piace la campagna (mi piace anche la città, l'ho già detto, non sono difficile): mi piace stare in campagna: si mangia pane casareccio, si respira meglio, certe volte si vedono animali che non si vedono praticamente mai nelle città, si accendono i caminetti, si gioca a scarabeo e ad altri giochetti di società. Spesso si ha più spazio che in città, bisogna pur riconoscerlo, e quasi altrettante comodità, e a volte altrettanta calma. Ma mi sembra che niente di tutto ciò basti a stabilire una differenza pertinente.

La campagna è un paese straniero. Non dovrebbe esserlo, ma invece è così; avrebbe potuto non esserlo, ma così è e ormai così sarà: è già troppo tardi per cambiare qualsiasi cosa.

Sono un uomo di città; sono nato, sono cresciuto ed ho vissuto in città. Le mie abitudini, i miei ritmi e il mio vocabolario sono abitudini, ritmi e vocabolario dell'uomo di città. La città mi appartiene, mi sento a casa mia: l'asfalto, il cemento, i cancelli, la rete stradale, il grigiore delle facciate a perdita d'occhio, sono cose che possono stupirmi o scandalizzarmi, ma né più né meno di quel che mi potrebbero stupire o scandalizzare, ad esempio, l'estrema difficoltà che si prova a voler guardare la propria nuca o l'ingiustificabile presenza dei seni (frontali e mascellari). In campagna, niente mi scandalizza; per convenzione, potrei dire che tutto mi stupisce; in realtà, tutto mi lascia pressoché indifferente. Ho imparato molte cose a scuola e so ancora che Metz, Toul e Verdun formavano i Tre Vescovati, che delta è uguale a b 2 meno 4 a c, e che acido più base danno sale più acqua, ma non ho imparato niente che riguardi la campagna, oppure ho dimenticato tutto quello che mi è stato insegnato. Mi è capitato di leggere nei libri che le campagne erano popolate da contadini, che i contadini si alzavano e andavano a dormire col sole, e che il loro lavoro consisteva, tra l'altro, nel calcinare, marnare, maggesare, ammendare, erpicare, smarrare, rimondare, sarchiare, spulare o trebbiare. Le operazioni comprese nel significato di questi verbi sono per me più esotiche di quelle che presiedono, per esempio, al ripristino di una caldaia mista di riscaldamento centrale, campo di cui non sono assolutamente pratico.

Ci sono, ovviamente, grandi campi gialli solcati da macchinari sfavillanti, boschetti, praterie di erba medica e vigneti a perdita d'occhio. Ma non so niente di questi spazi, sono per me impraticabili. Le uniche cose che io possa conoscere sono le bustine Vilmorin o Truffaut, le fattorie riadattate in cui il giogo dei buoi è divenuto lampadario, in cui le misure per il grano sono divenute cestini (ne ho una alla quale tengo molto), gli articoli impietositi sull'allevamento dei vitellini e la nostalgia delle ciliegie mangiate sull'albero.

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