Copertina
Autore Roberto Perotti
Titolo L'università truccata
EdizioneEinaudi, Torino, 2008, Gli struzzi 643 , pag. 186, cop.fle., dim. 13,5x20,8x1,2 cm , Isbn 978-88-06-19360-7
LettoreCorrado Leonardo, 2009
Classe universita'
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


VII Premessa
    Ringraziamenti

    L'università truccata

  3 I.   Introduzione

 19 II.  Bari, facoltà di Economia

 35 III. I falsi miti dell'università italiana

 35      1. Falsi miti, I:
            all'università italiana mancano le risorse
 44      2. Falsi miti, II:
            «poveri ma bravi», nonostante tutto,
            l'università italiana è all'avanguardia
 52      3. Falsi miti, III:
            il clientelismo è un fenomeno circoscritto
 66      4. Falsi miti, IV:
            l'università gratuita è egalitaria

 73 IV.  Un problema di etica e di regole?

 73      1. Un problema di etica?
 75      2. Un problema di regole?
 84      3. Un problema di azioni legali?

 92 V.   Una proposta di riforma

 93      1. Piú risorse agli atenei migliori, I:
            allocazione centralizzata
 97      2. Piú risorse agli atenei migliori, II:
            alzare le tasse universitarie
101      3. Aumentare la mobilità degli studenti
103      4. Prestiti d'onore condizionati al reddito
110      5. Liberalizzare gli stipendi dei docenti
113      6. Abolire i concorsi
116      7. Un periodo iniziale di prova
117      8. Liberalizzare la didattica
119      9. Abolire il valore legale del titolo di studio
121     10. Estendere il numero chiuso
122     11. Una via alternativa:
            le fondazioni universitarie su base volontaria

127 VI.  Soluzioni nuove a problemi vecchi

127      1. La didattica: 3 + 2, 1 + 2 + 2, e poi?
132      2. Il rapporto università-imprese
135      3. La proliferazione dei corsi e degli atenei
139      4. I tempi lunghi della laurea
141      5. Le lauree honoris causa e le «lauree facili»
143      6. Tempo pieno o tempo parziale?
145      7. Il mito della interdisciplinarietà
146      8. La governance universitaria
148      9. La cultura della peer review
152     10. L'internazionalizzazione
154     11. La piramide rovesciata

157 VII. Due riforme inutili

171 VIII.Conclusioni: una cultura mercificata?

179 Bibliografia


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

Capitolo primo

Introduzione


Da anni, in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico, i rettori di tutta Italia elencano puntualmente la stessa lista dei mali dell'università: gli studenti fuori corso, la proliferazione di sedi minuscole, le promozioni ope legis, l'altissima età media dei docenti, i corsi di laurea assurdi, le migliaia di lauree regalate ai funzionari pubblici. E magari piú sommessamente, i concorsi truffaldini vinti da individui senza alcuna qualifica accademica, i dipartimenti colonizzati da una famiglia o da un partito politico, gli esami e le lauree venduti con tanto di tariffario. Ministri di destra e di sinistra ripetono indignati questa lista su giornali e Tv.

Ma poi, recitata questa litania, rettori e ministri danno altrettanto puntualmente sfogo alla retorica per accreditare una serie di miti. Primo, il clientelismo e la corruzione esistono, ma sono tutto sommato circoscritti; secondo, il vero problema dell'università italiana è la mancanza di fondi; terzo, nonostante questi intralci, l'università italiana è eroicamente all'avanguardia mondiale della ricerca in molti settori. Infine, l'università gratuita è una irrinunciabile conquista di civiltà, perché promuove l'equità e la mobilità sociale consentendo a tutti l'accesso all'istruzione terziaria.

A molti sfugge tuttavia un'implicazione fondamentale di un tale ragionamento: se questi miti fossero veri, l'università italiana produrrebbe risultati migliori a un costo minore degli altri paesi - e questo nonostante accolga tutti generosamente nel suo seno. Ma perché allora dannarsi per correggerla e riformarla? Dovrebbero essere gli altri paesi a copiare un sistema cosí efficace; studenti e docenti stranieri dovrebbero fare a gara per studiare e fare ricerca in un ambiente intellettuale cosí fertile; e i ricercatori italiani all'estero dovrebbero fare la coda per tornare in Italia. Sappiamo tutti che non è cosí: solo il 2 percento degli studenti di dottorato è straniero; dopo la Finlandia, l'Italia è il paese europeo con la piú bassa percentuale di docenti stranieri; e nessun ricercatore italiano che abbia avuto un minimo di successo all'estero vuole tornare, se non per ragioni personali.

Il motivo è molto semplice: i miti accreditati dall'establishment accademico sono falsi, la retorica del «poveri ma bravi e onesti» non ha fondamento nella realtà. L'università italiana è (sempre con le dovute eccezioni) alla deriva, e continuare a pascersi di retorica non avvicinerà la salvezza.

L'alternativa alla retorica sono i fatti, e per cominciare a ragionare costruttivamente è necessario partire da questi ultimi. La prima parte di questo libro sottopone dunque questi miti a un'analisi sistematica basata sui dati di bilancio e dell'output scientifico del sistema universitario italiano, confrontandoli con quelli di altri paesi, e in particolare con un sistema anch'esso pubblico come quello britannico. Ne emerge chiaramente che l'università italiana non è sottofinanziata rispetto a quella britannica, ma è molto meno produttiva in termini di qualità della ricerca. In media, i ricercatori italiani non sono meno pagati di quelli inglesi, e non sono nemmeno molto lontani da quelli americani. Ma è la struttura delle retribuzioni che sembra fatta apposta per scoraggiare lo sforzo di ricerca: i ricercatori giovani (quelli piú motivati, innovativi ed entusiasti) sono pagati pochissimo, mentre sono pagati moltissimo quelli a fine carriera; in mezzo, la progressione salariale, molto piú veloce che negli altri paesi, avviene esclusivamente per anzianità (eccetto per i passaggi di grado, che richiedono dei concorsi). Si premiano gli anni di servizio, non i lavori scientifici pubblicati.

Nonostante la retorica dei «pochi episodi di malcostume», tutti i professori dell'università italiana sanno di decine di concorsi truccati, e moltissimi vi hanno partecipato, spesso acconsentendo loro malgrado a promuovere il protetto del barone locale per riuscire a promuovere in cambio almeno un candidato serio. Ma per andare oltre l'aneddotica servono due passi in piú. Il primo è fare i nomi; finora solo i giornalisti li hanno fatti, e pochi docenti, fra i quali il professore di economia agraria all'Università della California a Davis, Quirino Paris, che ha accumulato in cambio una raffica di querele. Se si vuole andare al di là delle solite esternazioni di principio, è necessario mettere in evidenza le particolarità di questo o quel concorso, con nomi e cognomi. Questo libro prende in esame un caso particolarmente interessante, quello della facoltà di Economia di Bari, sede di quattro note dinastie che hanno avuto l'onore della cronaca; ma meno noto è che solo all'interno di quella facoltà sono almeno 16 i gruppi di due o piú persone legate da relazioni di stretta parentela, che coinvolgono un totale di almeno 42 persone (piú altre di cui è certo un legame di parentela ma non è noto esattamente quale sia, piú ancora altri parenti in facoltà e atenei limitrofi); e che alcuni membri di queste dinastie hanno bruciato le tappe divenendo ordinari sei o sette anni dopo la laurea, mentre altri sono divenuti ordinari pochi mesi prima di compiere 65 anni. Sulla base dei documenti concorsuali disponibili per i membri di queste dinastie, il capitolo secondo mostra gli intrecci accademici che hanno generato questa situazione e hanno reso possibile queste carriere, il tutto sempre rispettando la forma delle tantissime norme che regolano l'università italiana.

Il secondo passo per andare oltre l'aneddotica è tentare di quantificare i fenomeni di nepotismo e clientelismo. Un esame delle pubblicazioni dei partecipanti ai concorsi di Economia degli ultimi anni e un'analisi statistica dei cognomi dei docenti delle maggiori facoltà di Medicina forniscono interessanti indizi che nepotismo e clientelismo pervadono e condizionano tutto il sistema, anche se la grande maggioranza dei suoi membri sono personalmente onesti e bene intenzionati - esattamente come nelle società dominate dalla mafia.

Anche il terzo mito («l'università italiana, nonostante la cronica scarsità di mezzi, è all'avanguardia») è una forzatura retorica: gli indici di produttività scientifica la pongono in realtà agli ultimi posti fra i paesi industrializzati.

Infine, i dati dimostrano che anche il quarto mito, l'università gratuita ed equa, non ha fondamento. Contrariamente alla retorica prevalente, l'università italiana è frequentata in prevalenza dai ricchi, che si vedono cosí finanziare i propri studi gratuiti dalle tasse di tutti, compresi i piú poveri.

Di fronte a questi e altri fallimenti dell'università italiana, da decenni la reazione istintiva di quasi tutti i partecipanti al dibattito consiste nel proporre sempre gli stessi tre rimedi: introdurre nuove norme e nuove regole, richiedere l'intervento della magistratura, o esortare a un comportamento piú responsabile.

Ma niente di tutto questo ha mai sortito alcun effetto. L'università italiana è sempre afflitta dagli stessi problemi, nonostante un turbinio ininterrotto di nuove riforme, leggi e norme a ogni cambiamento di ministro. Per anni si è discusso seriamente su aspetti assolutamente marginali dei concorsi, come se fossero la soluzione a tutti i problemi: chi proponeva di ridurre il numero degli idonei nei concorsi, e chi proponeva invece una riduzione o un aumento del numero dei commissari. Davvero si può pensare che queste piccole modifiche normative cambierebbero qualcosa in certe situazioni di sfrenato nepotismo? Le degenerazioni non sono dovute all'assenza di regole, ma all'esatto contrario: proprio con l'intento di combattere i comportamenti devianti, l'università italiana ha accumulato una incredibile quantità di norme, leggi e leggine, ognuna destinata a impedire i sotterfugi che aggirano la precedente, e ognuna destinata a sua volta a essere aggirata, creando nel frattempo ulteriori spazi per la corruzione.

E da anni la magistratura interviene periodicamente ogni volta che scoppia uno scandalo. A ogni dato momento, sono in corso decine di indagini e processi per presunte irregolarità nei concorsi e altri fenomeni di clientelismo e nepotismo. Da molto tempo per esempio l'Università di Bari è oggetto dell'attenzione dei magistrati; ma non c'è mai stata notizia di una sentenza definitiva di condanna, o di individui che abbiano scontato pene detentive, nonostante intercettazioni telefoniche cosí esplicite e imbarazzanti che in qualsiasi altro paese avrebbero stroncato qualsiasi carriera accademica. E le poche sentenze (di cui una sola, che si sappia, di condanna definitiva) di cui si ha avuto notizia in Italia non sembrano avere avuto alcun effetto sulla carriera di alcun docente. Questo è dovuto in parte al buonismo della giustizia italiana, ma anche a un motivo piú giustificabile: per arrivare a una condanna, sarebbe necessario provare che un candidato idoneo è inferiore scientificamente a un candidato non idoneo, e che il comportamento di qualche commissario è stato doloso. Questo è praticamente impossibile da provare, sia perché c'è sempre una inevitabile componente soggettiva nella valutazione della produzione scientifica di un candidato, sia perché si possono sempre invocare altri aspetti, ancora piú soggettivi, nella decisione di promuovere un candidato e bocciarne un altro, dalla «facilità di esposizione» alla «capacità di interagire con i colleghi».

Infine, non si contano gli appelli alla professione per un comportamento piú responsabile, come quello di Gino Giugni sul «Corriere della Sera» del giugno 2005. Anche questi appelli lasciano il tempo che trovano, e anche in questo caso per un motivo assai semplice: ovviamente non servono a niente con i corrotti, un gruppo la cui consistenza non è quantificabile ma certamente rilevante; ma non servono neanche per la maggioranza composta da individui perfettamente onesti, che purtroppo si trovano a operare in ciò che in teoria dei giochi viene chiamato un «equilibrio perverso». Se A pensa che B raccomanderà il suo protetto, A si troverà costretto a raccomandare il proprio protetto per evitargli un'ingiustizia; e poiché B pensa lo stesso di A, il risultato è che entrambi raccomandano il proprio protetto, ed entrambi possono convincersi di farlo per fini leciti e addirittura encomiabili.

È straordinario come il dibattito italiano si perda nei mille rivoli delle minuzie normative e degli inutili appelli al civismo e alla magistratura, mentre si ostina pervicacemente a negare il colossale problema di fondo: la mancanza di incentivi e disincentivi appropriati. Nell'università italiana nessuno viene premiato se ha successo nella ricerca e nell'insegnamento, e nessuno paga se opera male. Una volta messovi piede, per legge si procede solo per anzianità: che si pubblichi sulle migliori riviste internazionali o che non si scriva una riga in tutta la vita, che si insegni bene o male, la carriera e lo stipendio sono determinati praticamente solo da quanti anni prima si è ricevuto il primo stipendio. Il preside di facoltà che fa assumere il genero incapace ha solo benefici e nessun danno da questa azione, perché il suo stipendio non ne risente, e ora anzi ha uno stipendio in piú in famiglia.

Nessuna organizzazione può avere successo su queste basi; e nessuna proposta di riforma dell'università può funzionare se non affronta questo problema. Se non ho incentivi a impegnarmi nella ricerca e a lasciar perdere la mia attività di baronaggio, nessuna legge o regola, e tantomeno nessuna esortazione al civismo, mi indurranno a cambiare comportamento. La buona ricerca e la buona didattica non si legiferano, né si possono comprare spendendo di piú: si possono solo creare le condizioni perché accadano.

La condizione piú importante è, ovviamente, premiare il merito. A parole, niente di piú facile: chi mai oggi si dichiara contro la «meritocrazia»? Ma quando si tratta di applicare questo concetto all'università, pochi osano riconoscerne onestamente le conseguenze. «Premiare il merito» significa accettare che un giovane fisico di 25 anni che promette di vincere il premio Nobel venga pagato tre volte di piú dell'ordinario a fine carriera che non ha mai scritto una riga in vita sua. Ma chi è disposto ad accettare in buona fede e senza riserve una tale differenza?

Molti coltivano invece il sogno di una minuziosa regolamentazione che fissi a priori tutti i parametri in base ai quali determinare le attività dei docenti e i loro stipendi in tutte le possibili situazioni. Allo stesso modo, da decenni si coltiva il sogno della universitas dei dotti, di un'autorità centrale che valuti, compari e certifichi i meriti scientifici e didattici di ogni individuo. Il concorso nazionale, recentemente reintrodotto dalla riforma Moratti e confermato nella riforma Mussi, è una classica incarnazione di questa chimera dirigista, l'idea che si possa arrivare a una classifica infallibile proprio perché, al contrario dei singoli atenei, si valutano tutti gli individui contemporaneamente.

Ma la differenziazione degli stipendi e le decisioni di assunzione e promozione non possono essere regolate a priori, perché nessun organismo centrale può stilare criteri univoci che valgano per tutti i docenti in tutti gli atenei in tutte le possibili situazioni, e che siano accettati da tutti. Un giovane fisico molto promettente ma un po' matto può «valere» molto per i suoi colleghi dell'ateneo A, che sono disposti a prendere questo rischio, e valere molto poco per i colleghi dell'ateneo B, che si sono già scottati una volta con un caso simile. Oppure può valere molto per l'ateneo C, dove nessuno insegna questa materia, e poco per l'ateneo D, che ha già tre fisici che si occupano degli stessi argomenti. Una squadra con sei attaccanti può decidere di svendere il settimo, che può invece avere un enorme valore per una squadra imbottita di difensori; Pirlo e Seedorf erano stati scartati dall'Inter dopo prestazioni non entusiasmanti, ma hanno vinto la Champions League con il Milan. Non esiste un «valore» assoluto uguale per tutti i potenziali acquirenti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 16

L'ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa 100 persone, ed ha un bilancio di 13 milioni di euro, circa un quarto dell'intera spesa per gli stipendi del personale docente. Grazie alla disfunzionalità del nostro sistema universitario, gli atenei statunitensi ed europei abbondano di studiosi italiani di fama mondiale, molti dei quali sarebbero disposti a tornare se venisse loro assicurata una massa critica di colleghi con cui interagire e condizioni economiche accettabili. Calcolando che i migliori docenti di economia degli Usa possono costare circa 300-400 000 dollari, con un terzo della spesa per relazioni esterne la Bocconi avrebbe potuto costruire il migliore dipartimento di economia d'Europa.

Tra gli atenei italiani, la Bocconi è uno dei piú internazionalizzati, con un nucleo consistente di individui che hanno studiato e insegnato all'estero. Essa ha fatto dell'«internazionalizzazione» il cavallo di battaglia del suo piano di espansione. Eppure, e nonostante in questi ultimi anni siano state introdotte numerose iniziative per migliorare il livello scientifico del corpo docente, con non trascurabili investimenti, le risorse destinate a questo scopo rimangono irrisorie rispetto a quelle spese per intrattenere giornalisti o per organizzare incontri e convegni di grande richiamo mediatico ma di basso contenuto scientifico o divulgativo.

È straordinario come in Italia si continui a ignorare come il prestigio e la visibilità internazionale non si conquistano con le kermesse mediatiche o le pompose inaugurazioni degli anni accademici, bensí con il duro, spesso anonimo lavoro di ricerca, dove conta una sola cosa: pubblicare nelle migliori riviste internazionali. Soltanto esponendosi alla concorrenza con i ricercatori stranieri si può lentamente fare avanzare la frontiera della scienza e della cultura.

Questi sono dunque i due temi che sottendono l'intero libro: la centralità della ricerca e l'importanza degli incentivi, contro l'illusione della regolamentazione, della centralizzazione, e degli appelli all'etica e alla magistratura, che da decenni sono le uniche soluzioni proposte da gran parte dei partecipanti al dibattito.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 66

4. Falsi miti, IV: l'università gratuita è egalitaria.


-----------------------------

Riquadro 4: Ai meno abbienti pensiamo noi.

«I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi piú alti degli studi. La repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che debbono essere attribuite per concorso» (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 34).

«E poi ricordiamoci sempre una cosa: noi siamo in Italia, non negli Stati Uniti» (Il presidente della CRUI Piero Tosi in L'Università per il Paese: Relazione sullo stato delle Università italiane 2004, CRUI, p. 24).

«È assicurato a tutti i cittadini l'accesso al servizio universitario, con garanzia di adeguati sostegni ai meritevoli privi di mezzi» (Patto per il rilancio dell'Università delle autonomie, firmato all'Accademia dei Lincei dal ministro Moratti e dal presidente della CRUI Piero Tosi il 22 giugno 2004).

-----------------------------



Secondo una convinzione molto diffusa in Italia, se anche fosse vero che la qualità della ricerca è lievemente piú bassa che in altri paesi con uno sviluppo economico simile, questo sarebbe il prezzo, tutto sommato esiguo, da pagare per mantenere un'università pubblica e gratuita, una condizione irrinunciabile per garantire a tutti l'accesso all'educazione superiore. Far pagare agli studenti il costo dell'educazione universitaria, o almeno una porzione non irrilevante di tale costo, significherebbe ridurre la mobilità sociale e ritornare all'università di élite.

Per impostare correttamente il discorso, è necessario farsi due domande distinte, come in tutti i casi in cui si parla di sussidi, che siano ad aziende, ad attività, o ,a persone (quali gli studenti universitari e le loro famiglie): È equo? Ed è efficiente? Un sussidio può rendere piú equa la distribuzione delle risorse, ma al prezzo di enormi distorsioni e inefficienze nella produzione di un bene o servizio; viceversa, può aiutare a correggere un'inefficienza, ma al prezzo di un aumento della disuguaglianza. Oppure può migliorare sia l'efficienza sia l'equità, o peggiorare entrambe.

Partiamo dunque dall'equità. I dati della Figura 4 dicono chiaramente che l'università gratuita è molto difficile da giustificare su questo terreno. Dai dati della Banca d'Italia, il 24 percento degli studenti universitari italiani proviene dal 20 percento piú ricco delle famiglie; solo l'8 percento proviene dal 20 percento piú povero. Nel Sud la disparità è ancora piú ampia: il 28 percento contro il 4 percento.

Persino negli Usa, quasi universalmente additati come esempio di università di élite, la distribuzione dell'istruzione terziaria non è cosí ineguale. Nel totale delle istituzioni terziarie il 24 percento degli studenti proviene dal 20 percento piú ricco della popolazione, come in Italia, ma il 13 percento dal 20 percento piú povero, contro l'8 percento dell'Italia. Nelle università pubbliche con corsi di quattro anni, i valori negli Usa sono 26 percento contro 11 percento; in quelle private, 31 percento contro 11 percento. In tutti questi casi, il rapporto fra quintile piú ricco e quintile piú povero è dunque inferiore a 3, il rapporto per l'Italia intera, è di gran lunga inferiore a 7, il valore per il Mezzogiorno. Persino nelle università piú prestigiose, quelle che rilasciano un PhD (il dottorato), i valori sono 37 contro 10 percento, di poco superiore al rapporto italiano.

L'università pubblica italiana è dunque un Robin Hood a rovescio, in cui le tasse di tutti, inclusi i meno abbienti, finanziano gli studi gratuiti dei piú ricchi. Questo è, a dire il vero, un fenomeno generalizzato: la spesa per l'istruzione terziaria è tra le piú regressive che esistano, soprattutto nei paesi dove l'università è gratuita o quasi, perché ad essa vi accedono prevalentemente i ricchi. Eppure, è quasi universalmente diffusa la convinzione che l'università gratuita sia una posizione «di sinistra» e che fare pagare l'università a chi può permetterselo sia invece una posizione «di destra». Oltre a un macroscopico abbaglio collettivo che risente ancora di posizioni sessantottesche, il motivo della popolarità di una posizione cosí infondata è probabilmente che essa è attivamente propugnata dall'élite culturale, economica e politica, che ha tutto l'interesse a perpetuare lo status quo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 92

Capitolo quinto

Una proposta di riforma


Il tema essenziale di questo libro è che l'università italiana non si riforma con gli appelli al civismo, né con una nuova ondata di regole, prescrizioni e controlli, né con azioni della magistratura. Ciò che serve all'università italiana è una cosa sola: un sistema di incentivi e disincentivi adeguati, per cui sia nell'interesse stesso degli individui cercare di fare buona ricerca e buona didattica, ed evitare comportamenti clientelari. Ma come far sí che gli individui, facendo il proprio interesse, attuino automaticamente comportamenti virtuosi? Basta applicare un principio molto semplice: «le risorse seguano la qualità», sia (e questo è importante) a livello di individui che a livello di atenei.

In un sistema che attui questo principio, se un ateneo assume ripetutamente degli studiosi capaci e crea un dipartimento con una meritata fama di ricerca seria e all'avanguardia, aumentano le risorse a disposizione, il prestigio dei suoi membri, le opportunità di scambi intellettuali fruttiferi, le collaborazioni con altri atenei, con enti di ricerca, con organismi internazionali, con case editrici serie, e anche le consulenze e le commesse; alla fine, tutti ne beneficiano. Viceversa, un barone che si comporta in modo clientelare assumendo persone incapaci, danneggia la qualità della ricerca e della didattica dell'ateneo a cui appartiene, e causa automaticamente una diminuzione delle risorse a disposizione, per l'ateneo ma anche per se stesso. Sarà dunque interesse dello stesso aspirante barone evitare comportamenti clientelari, e dei suoi colleghi impedirglieli; e sarà interesse di tutti cercare di assumere e promuovere bravi ricercatori e insegnanti.

Tutto questo senza alcun bisogno di interventi centralizzati, né di prescrizioni elaborate. In altre parole, invece che regolare tutto in base a norme minuziose e facilmente eludibili ci si affida all'interesse degli individui, cioè al principio che gli atenei (e gli individui che li compongono) debbano subire le conseguenze negative delle loro decisioni sbagliate e beneficiare delle conseguenze positive delle decisioni efficienti. Nessun governo regola minuziosamente come debba essere costruita un'automobile, ma si affida all'interesse delle aziende automobilistiche di costruire automobili che vengano apprezzate dal consumatore; allo stesso modo, in presenza degli incentivi corretti non vi è necessità di imporre regole minuziose all'università, ma sarà l'interesse dei singoli membri di ogni ateneo che li spingerà a evitare di attuare operazioni clientelari. L'alternativa, che è stata sempre applicata all'università italiana, consiste nel pagare a Fiat, Alfa Romeo e Lancia un prezzo forfettario di 10000 euro per ogni automobile prodotta, che sia venduta o no, che funzioni o no, purché rispetti un manuale di specifiche di 500 pagine («le ruote devono essere rotonde», «le portiere devono potersi aprire verso l'esterno», e cosí via). È ragionevole pensare che questo sistema non funzionerebbe per le automobili: perché dovrebbe funzionare per l'università?

Ma vediamo come il principio «le risorse seguono la qualità» può venire attuato in concreto. Le proposte avanzate nel seguito di questo capitolo non hanno la pretesa dell'originalità: molte sono state avanzate, in gruppo o singolarmente, da altre persone e in altri luoghi; è utile comunque rivederle, e studiarne le implicazioni e le interrelazioni reciproche.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 103

4. Prestiti d'onore condizionati al reddito.

L'obiezione principe a un aumento delle tasse universitarie riguarda le conseguenze per la giustizia sociale: esso metterebbe in pericolo l'equità dell'accesso all'istruzione terziaria attualmente garantita dalla (quasi) gratuità dell'università pubblica. Abbiamo però visto che questo argomento è viziato in partenza: l'università gratuita non è affatto equa, al contrario, è un veicolo di redistribuzione dai poveri ai ricchi. L'investimento in educazione terziaria rende, e molto: secondo alcuni calcoli (ovviamente soggetti a notevole incertezza), in media fino al 10 percento annuo, netto da imposte (cfr. Bisin e Moro 2005). Non c'è nessun motivo per cui la società debba regalare un simile investimento a chi può permettersi di pagarne il costo. E poiché un maggior numero di laureati rende piú efficiente il sistema economico e dunque beneficia tutta la popolazione, è perfettamente razionale, oltreché equo, aiutare chi invece non può permettersi di andare all'università.

La soluzione ovvia è quella di fare pagare le tasse universitarie ai ricchi, ma di sussidiare l'istruzione dei meno abbienti. Ma qui si pone un problema: bisogna sussidiare l'istruzione di chi non può permetterselo ora, o solo di chi non può permetterselo mai? In altre parole, è giusto regalare una laurea a uno studente che in questo momento non può permettersi di andare all'università, ma che userà la laurea per diventare dirigente d'azienda e potrà quindi ampiamente permettersi di restituire il sussidio ricevuto? Equità e razionalità suggeriscono che, cosí come non c'è motivo di regalare una laurea al figlio di un dirigente d'azienda, non c'è motivo neanche di regalarla a chi è diventato dirigente d'azienda grazie alla laurea.

Questo ragionamento suggerisce quale sia lo strumento piú efficace ed equo per creare un sistema piú efficiente, che costringa gli atenei a guadagnarsi i finanziamenti entrando in competizione per le rette degli studenti, e che al tempo stesso assicuri l'accesso ai meno abbienti: un prestito d'onore condizionato al reddito. Una volta laureato, lo studente restituisce il prestito con rate annuali che dipendono dal reddito guadagnato dopo la laurea: i piú benestanti pagano rate annuali maggiori, quindi a parità di prestito ricevuto lo restituiscono piú in fretta. Inoltre, sotto una certa soglia di reddito, o se intervengono gravi eventi (come un invalido in famiglia da curare) cessa interamente l'obbligo di restituire il prestito.

Questo meccanismo ha molti vantaggi rispetto a un sussidio puro e semplice. Costa meno allo stato, perché una larga percentuale dei prestiti verrà ripagata; quindi consente di finanziare piú persone, e di distribuire piú risorse ad altri scopi, quali la ricerca e l'edilizia universitaria. È piú equo, perché guarda alla ricchezza di una persona durante la sua vita e non semplicemente al momento di frequentare l'università. Ed è automaticamente associato a un meccanismo di assicurazione: se dopo la laurea si guadagna tanto, si restituisce tanto; ma se si guadagna poco, si restituisce poco o niente.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 121

10. Estendere il numero chiuso.

Nel 2007 in alcuni atenei molti candidati vennero a conoscenza in anticipo delle domande dei test di ammissione a Medicina. La reazione istintiva a questo scandalo è stata di due tipi: fare intervenire la magistratura, e abolire il numero chiuso. Ma se c'è una situazione in cui l'intervento della magistratura è inutile è proprio questa: chi è stato danneggiato ha bisogno di una soluzione immediata, la sentenza definitiva della magistratura arriverà tra dieci anni (e a quel punto nessuno avrà il coraggio di condannare qualcuno per avere aperto in anticipo una busta). Abolire il numero chiuso è un errore, perché esso è uno strumento di controllo di qualità: sia della didattica di un ateneo, perché evita che troppi studenti ne intasino le strutture, sia del valore degli studenti in entrata.

Dunque il numero chiuso va mantenuto; non solo, esso va esteso, consentendo di adottarlo a tutti gli atenei e tutte le facoltà che lo desiderino. Ma la combinazione che non potrà mai funzionare è quella attuale: il numero chiuso con l'università praticamente gratuita. Questa combinazione è equivalente a distribuire biglietti gratuiti per le partite di calcio: poiché la capienza degli stadi è limitata, inevitabilmente si svilupperà un mercato nero dei biglietti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 132

2. Il rapporto università-imprese.

Un aspetto importante del dibattito sulla didattica è il rapporto fra università e mondo del lavoro. Da sempre si parla dell'insoddisfacente rapporto tra imprese e università. Le prime si lamentano che gli studenti escono dall'università impreparati per il mondo del lavoro; le seconde si lamentano che le imprese non sembrano interessate a finanziarle e a collaborare con loro. È ben noto che l'Italia è agli ultimi posti fra i paesi industrializzati in termini di spesa privata per ricerca, e di finanziamenti privati all'università. Ogni anno si tengono decine di conferenze e si stampano dozzine di libri sull'argomento; ognuno propone la sua diagnosi e la sua terapia.

In questo dibattito si dà per scontato che l'università debba preparare al mondo del lavoro: ma chi sa quale è la giusta preparazione? Quando la tendenza generale era verso una specializzazione precoce, l'Università di Chicago persistette, quasi unica fra le grandi università americane, nel core curriculum, un nocciolo duro di corsi richiesti a praticamente tutti gli studenti. Una parte dei docenti riteneva che questo attaccamento alla tradizione costasse molto caro, perché molti bravi studenti preferivano altri atenei. Negli anni novanta si sviluppò all'interno dell'università un dibattito accesissimo, che sfociò nell'adozione di un doppio curriculum, il vecchio core curriculum e uno piú specializzato, a scelta degli studenti.

Il dibattito di Chicago dimostra che il rapporto ottimale tra università e mondo del lavoro è lungi dall'essere ovvio. L'idea diffusa che l'università debba fornire gli strumenti per iniziare subito a lavorare potrebbe essere un mito post-sessantottesco; può darsi che l'università debba solo aprire e stimolare le menti, fornire gli strumenti culturali generali per affrontare i problemi del lavoro con ampiezza di vedute, mentre il lavoro si impara veramente solo lavorando. Per esempio, è noto che le grandi banche di investimento spesso preferiscono assumere laureati in matematica o filosofia che dimostrano una mente curiosa e aperta, piuttosto che laureati in finanza che conoscono già tutto degli strumenti del mestiere ma non hanno interessi al di là di questo campo.

E può anche darsi che il metodo che funziona per ingegneria non funzioni per storia e filosofia. Ancora una volta, l'unico modo per scoprire quale sia l'approccio migliore è fornire gli incentivi giusti a operare nel proprio interesse, e sperimentare. Alcuni atenei si specializzeranno nel preparare laureati orientati al mercato del lavoro; altri si specializzeranno nel produrre ricercatori accademici; altri ancora, differenziando opportunamente i corsi offerti, faranno entrambe le cose. Ma come si fa a sapere se un corso prepara adeguatamente per il mercato del lavoro? Come in tutto il resto, sperimentando. I corsi e i metodi che dimostrano di essere apprezzati saranno emulati, gli altri saranno scartati. Negli Stati Uniti è molto raro sentire parlare di rapporto tra imprese e università, eppure atenei come Stanford University sono stati incubatori di straordinarie storie di successo, come Google, Cisco, Sun Microsystems. Di queste cose non si parla, succedono: la concorrenza ha risolto il problema.

| << |  <  |