Copertina
Autore Silvio Perrella
CoautoreA. Anedda, R. Bodei, A. Di Consoli, P.O. Enquist, A.L. Kennedy, R. Manica, R. Matteucci, S. Metha, N. Naldini, F. Pecoraro, I. Sales, S. Ventroni
Titolo Verso Napoli
SottotitoloDodici scrittori e la città
EdizioneColonnese, Napoli, 2008, Lo specchio di Silvia 50 , pag. 120, cop.fle., dim. 9,3x14,5x0,9 cm , Isbn 978-88-87501-80-3
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe citta': Napoli
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Indice


Introduzione di Silvio Perrella              7

Antonella Anedda
    Da mare a mare                          13

Remo Bodei
    Napoli per me                           21

Andrea Di Consoli
    Lettera per Napoli                      27

Per Olov Enquist
    Napoli/Hjoggbφle                        35

A.L. Kennedy
    A Napoli                                45

Raffaele Manica
    Ritorni                                 55

Rosa Matteucci
    Verso Napoli                            61

Suketu Metha
    Amori capitali                          67

Nico Naldini
    Amici napoletani                        75

Francesco Pecoraro
    Napoli, panorama da via Orazio          83

Isaia Sales
    Napoli era mio padre                    99

Sara Ventroni
    Napoli salta la corda                  107



 

 

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Pagina 45

A.L. Kennedy
A Napoli



Voglio essere a Napoli.

Sono in macchina, è il 1986 e sono a Dundee. Sono col mio primo ragazzo e ci stiamo godendo quello che è una specie di primo appuntamento. Θ notte e guardiamo la riva lontana dell'estuario del fiume — occasionali anelli di catene di luci della strada, la ferraglia del ponte ferroviario, fanali che incalzano e si precipitano su per la salita. Il mio ragazzo dice che l'estuario è stato paragonato al golfo di Napoli. Io so che lui non è mai stato a Napoli e io non ho mai sentito questo paragone, anche se sono nata a Dundee e ci ho vissuto tutta la vita. Con la luce del giorno, il fiume è solitamente color metallo incollerito, non ha l'odore dell'acqua salata, trovi solo raramente qualche pescatore sulle sue sponde, sta lì e non prende nulla. Anche se l'amo, quel ragazzo, capisco che, citando Napoli, ha voluto essere sofisticato, in modo strano e disperato, e che questo significa che può essere capace di inventare altre affascinanti storie per poi sapermi deludere, anche in ambiti più importanti di questo.

Ma il golfo di Napoli, questa notte, ha un suono romantico, come una speranza.

Voglio essere a Napoli.

Sto parlando col mio vicino di casa, è italiano – ogni estate porta la famiglia scozzese nel suo paese, e li conduce di città in città. Ama Napoli, vi cerca la sensazione di una minaccia, una minaccia vulcanica. Sua moglie non lo lascia guidare su per la montagna, non riesce a capire come possa fiorire una città così vicino a del magma dormiente, a dei minerali inquieti, a degli attenti geologi. Un pomeriggio riesce a svincolarsi da lei, si arrampica con la sua macchina fin dentro l'odore dello zolfo, sente pizzicare il corpo e i capelli. Non capisce perché sia permesso a una minaccia di estendersi più di altre – incidenti stradali, infezioni, assassini, meteoriti. L'unica certezza, una volta nati, è morire.

Vesuvio – il modo in cui prende la forma di un bacio affamato nella tua bocca, un bacio che soggioga il tuo labbro inferiore, si disegna per un istante nella luce dei denti.

Voglio essere a Napoli.

Leggo della Basilica di San Domenico Maggiore – i Re d'Aragona che riposano nel rosmarino, nell'alloro, nella seta, nel legno. Ferdinando Orsini, Maria d'Aragona, un fanciullo dal nome sbiadito. Ognuno di loro ha lasciato, dietro al libro del proprio corpo, il segno delle abitudini, delle passioni, delle bestemmie, il conto finale di ogni azione. Ricordo che ogni volta che visito rapidamente una città e ci sono troppe cose da vedere e non c'è tempo, e ogni cosa viene offuscata dalle corse fra hotel e aeroporti, chiedo sempre alle mie guide "Nella mia ora di libertà, cosa potrei vedere che abbia a che fare con la morte?". Lo chiedo perché il modo in cui una città tratta i suoi morti può dirti molte cose sui vivi e su come si trattano l'un l'altro, può dirti se i suoi cittadini sono bambini o adulti, può farti ricordare il tuo libro, lo sfogliare le pagine del tuo cuore. E ho letto di così tanta erudizione nelle Abbazie, così tanto inchiostro – di Campanella e Tommaso d'Aquino e dei Domenicani – la saggezza e la crudeltà degli uomini savi. Le nostre pagine che si sfogliano così rapidamente, a volte bruciano, altre volte illuminano.

Napoli con le sue tante chiese, pensieri, voci, così tanta gente, così tanti dominatori, così tante lingue – la nuova città dei Greci ancora qui dopo millenni – Neapolis, nuova e rinnovata.

Voglio essere a Napoli.

Sono seduta nel mio studio e mi gira la testa. Le mie orecchie forse stanno invecchiando (forse ho preso troppi aeroplani), non mi vogliono far viaggiare, non vogliono collaborare. Camminare mi dà il mal di mare e mi fa pulsare la testa. Nel mio cranio c'è un suono come di una conchiglia, e una febbre che mi parla e mi domina e mi fa sognare cani che mi inseguono e quasi mi afferrano coi loro denti luminosi. La giornata è piena di pillole e gocce e ovatta. Lontanissimo da me è quel Sud dove il clima è più mite e il cibo più buono. Napoli è nel suo autunno ed è piena di lettori. Posso sentirli, i suoi lettori – nelle case, nelle strade, sugli autobus, nelle celle delle prigioni – risplendono al di là dei loro piccoli libri di carne e ossa ed entrano nelle storie, si smarriscono, si liberano. Si prendono cura di quelli che scrivono, delle parole – comprendono, forse, quanto velocemente tutte le nostre pagine si sfogliano e si consumano, come arriva il buio e quanto ognuno di noi è solo mentre vi andiamo incontro, la dormiente, eccitante promessa del tempo quando precipitiamo dentro qualcosa che non conosciamo. Quanto freddo sentiamo, quanto ci sentiamo piccoli, spaventati, confusi. Eppure cantiamo l'uno all'altro, creiamo eternità e promesse e speranze. Non prendiamo nulla se non sillabe di respiro, edificandole in mondi dove possiamo stare insieme — più temperati, più grandi, più coraggiosi, più sereni. Diamo le nostre storie, l'uno all'altro, le teniamo e poi ce le passiamo, da una mano all'altra, facciamo questa cosa così umana, folle, meravigliosa – leggere e scrivere per gli altri in modo da non provare la solitudine. Tutto ciò è un'effimera bellezza. E, io credo, una forma d'amore.

Θ, io credo, un amore che Napoli comprende e alimenta.

Voglio essere a Napoli, città d'acqua e d'amore, e seta e zolfo, e di così tante altre cose che io inizierei a conoscere se fossi lì. Ma io sono qui e posso solo mandare le mie parole a Napoli in luogo di me stessa. Esse sono la mia parte migliore. Mando la mia parte migliore affinché parli per conto mio. Mando un messaggio d'amore.

Traduzione di Marco Ottaiano

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Pagina 75

Nico Naldini
Amici napoletani



Vorrei sapere perché quando vedo la faccia di Totò, Totò e Peppino insieme, io provi più che la gioia liberatrice del comico, un appagamento totale come quando si dice: noi ci capiamo! Così va la vita e noi sappiamo come passare l'Alto Adige dell'angoscia («passare l'Alto Adige», battuta di Totò). Totò e Peppino sono un compendio di napoletanità; ma non è una cosa tanto ovvia quella che voglio dire, bensì che Napoli io la amo da sempre, con qualche spasimo di amor de lohn (battuta dell'antica poesia provenzale).

Fossi nato a Napoli in una casa con grandi finestroni che lasciano entrare tutto, aria mare musica vita! Invece sono nato sotto il silenzio della neve, come in un quadro di Bruegel, un pomeriggio dell'anno del "grande freddo".

Le mie sorelle e i miei cugini stavano giocando nel cortile attorno a un gigantesco pupazzo di neve con due pezzi di carbone al posto degli occhi e in testa un cappello dello zio ufficiale dell'esercito. Se il mio udito era già sensibile avrò percepito i loro gridi e loro i miei vagiti come un rumore alieno che disturbava la loro allegria. Mio padre era caduto dalle scale per l'emozione, ma era lo zio ufficiale a soprintendere all'evento. Così io sono venuto al mondo con tutti i crismi: l'onore militare, l'esultanza della Chiesa cattolica, che da noi non scherzava quanto a obblighi, e le felicitazioni del Regime politico vigente, per un italiano in più da irreggimentare per le fortune della Patria. A un anno infatti ero già vestito da balilla.

Fossi nato a Napoli non avrei ricevuto nessuno di questi battesimi nella severa forma che mi ha contrassegnato. Sarei stato educato più fuori che dentro casa e, chissà, forse sarei penetrato subito nel mondo di alcuni miei quasi coetanei oggi miei amici. E allora sì, quanta eleganza, quante chiacchiere sul «Fin' Amor» in musicalità napoletana con Raffaele ("Dudù") La Capria, Francesco Rosi (il "Professore"), Enzo Golino, Patroni Griffi. Escluderei Erri (brrrr) De Luca. Ma non la duchessa Carlotta; e anche con lei quante chiacchiere in salsa napoletana, degne dei colloqui registrati da Raffaele De Cesare nel suo La fine di un regno. Madame la duchesse l'ho ritrovata non ricordo in quale anno nel giardino di un albergo di Capri, mano nella mano con una scrittrice americana, la più ammirata nei circoli intellettuali di New York, e da tutti noi. Quel flirt non so quanto tempo sia durato perché Carlotta era una Venere pandemia.

Quale libertà per me crescere nelle notti napoletane, avventurarmi chissà dove. Dove ragazzacci del popolo mi avrebbero insegnato con leggerezza quello che serve alla vita e la Sessualità sarebbe stata un leggiadro Pulcinella e io un Pollicino da prendere in giro.

Avrei visto passare Giovanni Comisso, anche lui con i suoi "amici napoletani". Amici come non ne ha trovati in altre parti del mondo. Il mercante d'arte Guido Mannajuolo che per coprire i pochi metri dalla sua abitazione alla sua galleria Il blu di Prussia impiegava ore, sostando e chiacchierando con chiunque gli chiedesse consigli e raccomandazioni. Il libraio Casella e quell'altro amico senza nome, che entrava e usciva di galera, ed era impareggiabile a organizzare pranzi, gite e festini.

Invece io in quel Paese di primule e temporali cercavo solo di sfuggire agli imperativi morali. E ci riuscivo perché i timidi tremebondi sono anche ipocriti. Avevo quasi quarant'anni quando P. scrisse di me: «Quel Naldini che pare non osi nemmeno esistere». Forse perché ero ancora dentro un nido troppo protetto, proprio da quel P. e da un altro P. (Va bene: uno era Pasolini, l'altro Parise).

Poi quando il nido è caduto, ho dovuto farmi coraggio e svolazzare qua e là. Anche nel nostro paese c'era un giovane che entrava e usciva di galera, e mia madre andava a visitarlo portandogli in dono dei pacchi, frutto di collette tra le sue amiche. Mi lasciava fuori del carcere sotto una minacciosa muraglia grigia a coltivare la mia triste misère di bambino. Bambino che mentiva (come Rimbaud, pardon!).

A Napoli non ci sarebbe stato nessun bisogno di mentire, né di nascondersi. Anzi, avrei potuto nascondermi in tutta la città con i miei tremori bene in vista.

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