Copertina
Autore Paolo Perticari
Titolo L'educazione impensabile
SottotitoloApprendere 'per difetto' nella rete globale
EdizioneEleuthera, Milano, 2007, didascabili , pag. 132, cop.fle., dim. 10,8x18x0,9 cm , Isbn 978-88-89490-27-3
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe filosofia , pedagogia , scuola , sociologia
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Indice


INTRODUZIONE                                              7

CAPITOLO PRIMO                                           22
L'educazione nell'epoca iperindustriale

1. La strumentalizzazione dell'educazione
    nelle democrazie di mercato
2. La miseria mentale delle democrazie iperindustriali
3. Quale politica europea dell'educazione per quale pianeta

CAPITOLO SECONDO                                         60
Educare in un tempo di banalità del male

1. La banalità biopolitica come esercizio di individuazione
2. La banalità del male e la qualità del giudizio
3. Educare in un'epoca di banalità ininterrotta

CAPITOLO TERZO                                           77
Miseria della testa ben fatta

1. Insegnamento/apprendimento
2. L'educazione nell'Impero
3. Miseria della testa ben fatta
4. Per difetto

CAPITOLO QUARTO                                          98
L'educazione impensabile: dall'evento dell'altro

1. Critica dell'educazione alla ragione
2. La scientificità dell'educazione nei suoi resti
3. Imparare dal basso: una biopolitica minore...
4. Come
5. L'educazione impensabile: dall'evento dell'altro

EPILOGO                                                 124
BIBLIOGRAFIA                                            128


 

 

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Pagina 7

Introduzione



Questo scritto vuole cogliere, nel modo più sintetico e sereno possibile, la crucialità dell'educazione nel mondo contemporaneo. In questo mondo tutto pare essere educazione, urgenza di apprendimento, bisogno di insegnamento, necessità di formazione, con l'eccezione, forse, di quello che scrivono e dicono i pedagogisti, gli esperti della scuola, i formatori di professione. C'è sempre un certo disagio a parlare di educazione – nonché una certa ambivalenza di sentimenti ogni qual volta si voglia definirne il profilo.

Certo, c'è una fame di educazione, di valori e di esperienze di vita credibili, ma c'è anche molta propaganda e nessuno sembra in grado di proporre, in questo tempo di sconvolgimenti, una prospettiva e un orientamento chiaro, genuino. Anzi, più si cerca di pensare l'educazione, meno significativo e autentico diventa il suo pensiero. Da un lato tutta l'imponente macchina dell'educazione ufficiale, ingifantita dai media, dagli oggetti tecnologici industriali, dalla rete tele-tecnoscientifica, di quella che sta diventando la società dell'informazione e del mercato globale; dall'altro tutta la pochezza del pensiero pedagogico, perlopiù preoccupato di pensare la propria disciplina in quanto disciplina o scienza alla pari di altre discipline o scienze. Il che alimenta una sorta di autoimmunità dell'educazione che, più viene pensata, considerata nella sua esistenza, modellata, sottoposta a buone pratiche, obiettivi, progetti, valutazioni, proposte culturali, interculturali o quant'altro, più viene necrotizzata, sciupata e mercificata.

Nel mezzo, tutta l'emergenza educazione nella rete globale, l'enorme questione dei valori e dei comportamenti in un tempo di sconvolgimenti, di passaggi acceleratissimi, di ingiustizie sempre più feroci: l'incapacità e la fatica di poter offrire un orientamento, un'esperienza di vita e di apprendimento credibile a chiunque e da parte di chiunque.

Si può immaginare l'educazione globale, quella che fabbrica l'uomo medio delle democrazie industriali europee, oltre la strumentalizzazione e la banalizzazione di un transito verso il mercato?

Qui si vuole denunciare non solo ogni concezione dell'educazione depositaria, pensata e calata dall'alto, ma, con essa, tutte quelle prospettive di educazione che con la pretesa di fondarsi scientificamente si intrattengono ancora con l'illusione di avere un proprio pensiero autonomo, continuando a parlare di se stesse, delle proprie pratiche di curatela, della mente di cui aver cura, dell'altro bisognoso di aiuto, della propria e altrui esistenza – felice o infausta – a un pubblico di addetti ai lavori.

Questo non è l'ennesimo tentativo di pensare l'educazione, le sue miserie, i suoi difetti. Perché questa educazione è la vera miseria; le sue pratiche, il vero difetto. Un pensiero fatto di chiacchiere più o meno di buon senso, e il più delle volte prive di alcun senso. Si vuole iniziare a far emergere, per coloro a cui ciò interessa, una prospettiva di educazione senza buone pratiche, senza obiettivi, senza progetto, senza alcun tipo di vincolo o di condizione, senza ulteriori specificazioni, ma capace di far emergere il vero punto della questione: l'educazione è il più grande e difficile problema che ci si è posto da almeno trecento anni, e a questo problema, nel tempo attuale, manca un orientamento.

All'uomo qualunque, alla gente comune, il tempo di oggi impone un apprendimento difficile: quello di re-immaginare le società industriali per re-immaginare il pianeta. Per questo si deve offrire un orientamento. Qualcosa che faccia vedere quel che non si vede quando si parla dell'educazione oggi e delle sue sfide.

Qui si vuole reclamare un'educazione impensabile. In qualunque incontro, in qualunque ascolto, in qualunque accompagnamento, in qualunque tentativo di riconoscimento. Imparare dal basso per re-immaginare l'altro oltre il proprio monolinguismo: ripensare la formazione come planetaria per combattere i veri problemi che le compete affrontare in quanto educazione.

L'abbraccio funesto fra consumo di massa, alfabetizzazione di massa, politiche della vita e tele-tecnoscienza, che caratterizzano questa stagione neoliberista della mondializzazione a qualunque livello della rete globale, è essenzialmente un intreccio di comunicativo e cognitivo generalizzato, e può essere colto a partire dal punto di vista del cortocircuito, del misconosciuto e di ciò che fa difetto in essa. Dal punto di vista di quell'impensabile che rimane sempre impensato dal pensiero e disconosciuto da qualunque forma di sapere, di obiettivo, di pratica – e che forse deve rimanere tale. Quel che la società della grande rete comunicativa e cognitiva sta diventando, lo si capisce meglio dal punto di vista del difetto generato da ciò che viene relegato nella sfera dell'errore, dello sbaglio, dell'inadatto, ancor prima che da quello dei progetti e delle offerte tecnoscientifiche, culturali, formative, educative della rete stessa.

Un cortocircuito accade quando c'è una connessione difettosa o sbagliata nella rete; difettosa, of course, dalla posizione che determina il suo funzionamento normale e scorrevole, e non da quella del difetto in quanto tale; poiché non c'è eccezione né difetto dal punto di vista del difetto. Non è quindi lo choc del cortocircuito e del difetto uno dei migliori modi per immaginare la venuta dell'altro nella grande rete comunicativa e culturale che caratterizza la società del sapere a qualunque livello essa si manifesti?

Uno dei compiti più urgenti – ed è anche una delle più effettive procedure critiche, un criterio metodologico trasversale a tutti i saperi delle società tecnologiche ad alta presenza di industrie culturali – è quello di incrociare fili che non sono normalmente toccati o ritessere trame a partire da ciò che tende a essere scartato o misconosciuto: prendere un paradigma classico maggiore e leggerlo attraverso il difetto, lo sbaglio, il cortocircuito che in esso si crea. Leggerlo cioè dalla prospettiva dell'errore, attraverso le lenti di un «minore» che può essere concepito nel senso in cui l'avevano pensato Deleuze e Guattari: non come qualcosa di «minore qualità», ma come qualcosa di marginalizzato e/o disconosciuto da un'ideologia egemonica, da un linguaggio maggiore, da una competenza sedimentata, qualcosa trattato con sufficienza e relegato ad argomento di minore dignità.

La funzione di questo approccio è un certo tipo di interpretazione che, proprio a partire da ciò che viene relegato nella sfera del misconosciuto e dello «scarsamente importante», emana una prassi e una riconfigurazione del tessuto interpretato che ora emerge alla luce del suo «impensabile», ovvero di ciò che trasforma l'impensato in un apprendimento in grado di intaccare i presupposti stessi del tessuto maggiore, a qualunque livello delle pratiche, delle tecniche e delle epistemologie che compongono la sua rete.

Non ci sono scorciatoie. Si deve iniziare un cammino, un lento cammino, un lento processo di trasformazione mentale dal concreto dell'insegnamento e della formazione. Un processo in grado di aprire l'immaginazione al movimento del minore – ritrovando, in questo modo, una via per pensare l'altro. Ebbene, è proprio questo il movimento metodologico trasversale fondamentale per iniziare a concepire una critica «politica» della cultura di massa, della società del sapere e dell'educazione in questa attualità: prendere il maggiore, il dominante, ciò che viene considerato come certo o assodato, per collocare in esso il movimento del minore a partire da ciò che tende a essere marginalizzato, banalizzato e disconosciuto in esso.

Se il riferimento al minore è ben scelto, questo diventa una prospettiva, una procedura, ma anche una pratica, un esercizio, una forma di immaginazione di sé e dell'altro che ci conduce dritti dritti verso un certo tipo di ragione e di ricettività in grado di sconvolgere completamente e minare la comune percezione. Il maggiore viene riconcepito attraverso lo snodo nevralgico del minore che emana un principio cosrrurtivo trasversale ai saperi e alle pratiche, diventando un criterio di orientamento strategico generale al cospetto di qualunque situazione e realtà culturale incontrata.

Questo è quello che ha fatto Marx, tra gli altri, con la filosofia e con la religione, cortocircuitando la speculazione filosofica attraverso le lenti dell'economia politica e incontrando, attraverso essa, la speculazione economica. Ma questo è anche quel che Freud e Nietzsche hanno fatto con la moralità, cortocircuitando le più alte nozioni etiche attraverso le lenti dell'economia libidinale inconscia che li ha portati a incontrare il mal-essere profondo della loro civiltà. Ancora, è ciò che ha fatto Benjamin con lo spirito storico, cortocircuitando i concetti estetici, teologici, politici maggiori attraverso la prospettiva profana della natura delle merci e della tecnica. Quel che ne scaturisce non è una semplice desublimazione, una riduzione dei più alti contenuti intellettuali alle loro basse cause economiche, libidinali e materiali. La funzione di questo approccio è piuttosto un certo tipo di interpretazione che emana una prospettiva e una prassi (e, con essa, le sue inerenti deviazioni), nonché una riconfigurazione del testo, della rete o del tessuto interpretato che emerge alla luce del suo «impensato», e lo trasforma in un modo di percepire in grado di intaccare i presupposti del testo o del tessuto maggiore in cui si opera.

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Pagina 77

CAPITOLO TERZO
Miseria della testa ben fatta



1. Insegnamento/apprendimento

La nuova industrializzazione, con i suoi programmi educativi, diluisce modi di esistenza, stili di vita — lifestyle — e valori nelle società. Essa sembra oggi costituire l'unico orientamento possibile. Il marketing, divenuto potente mezzo di formazione, inscrive nelle coscienze linguaggi, sensibilità, passioni, desideri legati alla consumazione di determinati prodotti. Ne consegue che donne e uomini si ritrovano quotidianamente — e profondamente — immersi in una posizione consumistica, senza un tipo di ragione e di affettività che consenta loro di uscirne.

La fine storica dell'educazione come noi abitualmente la conosciamo coincide con il fatto che essa è strumentalizzata alle esigenze del mercato e proprio per questo confinata nello steccato della pedagogia formale — la scuola, la didattica — e informale — il sociale, la cura, l'intervento di territorio, ambientale eccetera. D'altra parte, in questo tempo, la formazione del soggetto sembra passare sempre più attraverso l'esercizio di una qualche forma di biopotere – basti pensare a quest'idea di lifelongeducation – che alla lunga finisce per condurre individui e società in una condizione di assoggettamento infinito, di obbedienza cadaverica agli imperativi dell'economia industriale. Nell'orizzonte della formazione continua, l'educazione e la ricerca sono diventati prodotti che si comprano e si svendono grazie alla consulenza di una gran varietà di esperti di ogni genere, che sfornano ogni giorno sempre nuove applicazioni e tecniche della didattica, della metodologia, della psicologia, delle teorie e delle pragmatiche comunicative e cognitive a qualunque livello esse si svolgano nella vita sociale o di relazione quotidiana, e attraverso qualunque condizione e qualunque professione.

La cifra di quanto si vuole dire è data dalla svendita dell'intero sistema di insegnamento scolastico e della ricerca universitaria a esclusivo vantaggio della industrializzazione culturale di massa orientata dalla produzione della consumazione e dagli elementi più aggressivi della spettacolarizzazione e della finanziarizzazione tele-tecnoscientifica. Perciò, da questo punto di vista, come succede ad altre discipline, dovrà essere dichiarata la morte della disciplina educativa così intesa e la fine storica della pedagogia e dell'educazione ingenua e acquiescente. Da questo punto di vista, sono da dichiarare morte tutte quelle esperienze editoriali e didattiche che, con una miopia sconcertante, hanno la pretesa di fornire ricettari su cosa e come insegnare – che insegnano a insegnare «solo le competenze disciplinari», come se il mondo non stesse crollando intorno a loro. Che cosa sono poi, tra l'altro, queste competenze? Cosa deve fare e come, una o un insegnante capace di didattica? Va ripensato il ben-essere a scuola e nella società. Abbandonare la pretesa di voler fare parti uguali fra disuguali. Il concetto di capacità e di competenza (come quello di incompetenza) è troppo importante perché lo si possa abbandonare ad apprendisti stregoni che tendono a chiudere gli insegnanti e gli educatori nella fatica delle loro aule, senza accorgersi di questo doppio effetto controproducente, tale per cui gli studenti arrivano privi di ogni capacità di incidere sulle diseguaglianze proprio nell'area del pianeta che afferisce alla pedagogia eurostatunitense, per lo più ligia ai confini disciplinari e ai dettami del mercato.

La capacità di insegnare/imparare: è questa la sola competenza basica che non ha fatto alcun passo avanti in questi dieci anni di «riforme» ministeriali europee. Anzi, dovremmo almeno distinguere questo insegnamento/apprendimento dall'altro tipo di insegnamento-apprendimento, quello della teaching-machine, quello con il trattino di linearità («-»), connotato dalla logica della grande comunicazione e dei saperi generalizzati dentro a un determinato quadro disciplinare. L'educazione, appunto, per come viene pensata dalla attuale industrializzazione. Il tratto di interdipendenza («/») al posto del trattino della linearità («-»), particolare che molti educatori e molte educatrici considerano irrilevante, indica non soltanto un passaggio fondamentale da una logica lineare a una prospettiva non lineare interna al processo di insegnamento e di apprendimento (peraltro tipica e riscontrabile a qualunque livello della ricostruzione sociopolitica delle scienze della formazione, delle scienze umane e dei processi di tecnicizzazione), ma anche il fatto, ancor più pervasivo e specifico, dell'inevitabilità di dover assumere una posizione dialogale in qualunque forma di incontro con l'altro e, a maggior ragione, a qualunque livello dell'aver cura della mente dell'altro/a.

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Pagina 94

4. Per difetto

C'è un educatore ignoto, sotteso a questa idea di educazione: fare del difetto, dell'errore, del disconosciuto e del misconosciuto nella e della rete comunicativa e cognitiva di cui è parte, l'occasione per immaginare quello che non sa di non sapere, per ritrovare la propria capacità di intervento. Il difetto e con esso l'ignoto e l'ignoranza pone innanzi tutta l'ambivalenza del problema. Poiché l'ignoranza è una grande risorsa, ma è anche la bestia più feroce – soprattutto quando è l'ignoranza del sapiente, del potente e dell'industriale culturale che non sa di non sapere e che, credendo di sapere, vuole imporre il suo sapere. E quel che ci rende tutti uguali nella grande infinita ignoranza, in cui tutti siamo immersi pur nella condizione di sapienti della società del sapere, ed è l'elemento della disumanizzazione; una brutta bestia, l'ignoranza, come la burocrazia, come l'eccesso della legge. Ma è anche la sola posizione epistemologica sostenibile che ruota sempre intorno all'imparare e all'insegnare. Dall'ignoranza è importante imparare barbianensemente a sortirne insieme. E questo insieme è ciò che fa più difetto, soprattutto là dove il ben-essere è arrivato allo stadio in cui la tossina crea più sofferenza che sollievo e senso di gratitudine; là dove è divenuto un sistema di dipendenza senza fine, in cui l'aumento delle dosi conduce a una diminuzione del loro effetto. Il sapiente ridotto a consumatore dalle industrie culturali, certo vuole disintossicarsi perché sta provando sulla sua pelle le conseguenze dell'intossicazione in quanto tale; ma proprio per questo non può e non vuole cessare di considerare ancora una volta la sua posizione di potente del sapere. Questa è precisamente la questione nel senso più lato e strategico del termine: arrivare a dire quale politica dell'educazione per quale tipo di società. Definire una politica economica industriale, per quale tipo di produzione e di consumo. Questione politica e questione educativa (insieme) di capitale importanza, vale la pena di insistere, soprattutto per le società industriali più avanzate. Ancor prima che per le società subalterne. Tuttavia, l'urgenza di trovare una procedura terapeutica, in questo intreccio inedito di psicopatologia e di sociopatologia che caratterizza lo spirito umano nell'epoca della sua riproducibilità tele-tecnoindustriale, non riguarda solo l'Occidente, ma il più ampio scenario di conflitti globali determinatosi attraverso la mondializzazione tele-tecnoscientifica.

Ed è un riferimento importante, anche nel piccolo di qualunque scuola, quello di imparare a politicizzare l'educazione e l'insegnamento in maniera non banale, per difetto, attraverso il cortocircuito generativo posto innanzi dal difetto. Sembrerebbe essere uno dei compiti notevoli dell'educazione di questo tempo: fare politica attraverso il disconosciuto che genera una ripresa non banale degli affetti e dei desideri.

Si è detto che un cortocircuito accade quando c'è una connessione sbagliata e che questa pecca è tale dal punto di vista del funzionamento della rete che non è mai errore per l'errante. È questa una delle migliori metafore per una lettura critica delle pratiche comunicative e cognitive dell'educazione in questa attualità. È un movimento impensabile del pensiero, ma anche una delle più effettive procedure critiche per incrociare fili, maglie e confini che di solito non si toccano: portare questa «dimensione di cortocircuito» – non, quindi, della testa ben fatta – nelle pratiche del comunicativo e del cognitivo di questo tempo, e orientare verso una prospettiva cortocircuitale l'intera prospettiva della formazione e qualunque tipo di insegnamento e di apprendimento, iniziando a realizzare una decostruzione della comunicazione e dei saperi nel vivo di qualunque pratica, è ciò che non ci si dovrebbe mai stancare di fare, ancora e ancora.

Forse soltanto per difetto e dal difetto potrà emergere una prospettiva ineducabile capace di interrompere l'urlo muto della gente comune, delle moltitudini oppresse, subalterne, ingabbiate in e da questa politica dell'educazione e della scuola di massa finalizzata al consumo di massa.

La testa ben fatta tiene in scarsa considerazione il difetto. Essa soffre di un mal-essere interno alla propria coscienza, la quale non si accorge della pesante influenza delle industrie culturali sull'organizzazione neurofisiologica del cervello umano, dimostrando il grave ritardo di pensiero culturale delle democrazie europee.

Questi temi, ai tempi di Montaigne, non erano all'ordine del giorno in maniera così stringente. Ma lo sono – eccome – oggi, nel tempo in cui i ministeri dell'educazione delle democrazie europee propongono una visione dell'educazione non all'altezza dei tempi, perché inseribile in un processo maggiore di strumentalizzazione delle facoltà più intime della natura umana, proprio attraverso un adattamento positivo, progressista, politically correct, sostanzialmente acquiescente, in rapporto ai vincoli giuridici e istituzionali che informano il principio di realtà e le relazioni con l'altro di questa attualità, secondo i criteri della società consumista eurostatunitense alla conquista del mondo.

Si dovrà imparare a imparare dal basso, combinando una comprensione dei più cruciali problemi economici e geopolitici al cospetto del globo, così che la testa possa iniziare a ruotare e a muoversi verso altri mondi, per acquisire da ciò una nuova capacità di considerare dettagliatamente il rapporto che intercorre tra l'immaginazione dell'altro e la vita civile.

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