Copertina
Autore Donata Pesenti Campagnoni
Titolo Quando il cinema non c'era
SottotitoloStorie di mirabili visioni, illusioni ottiche e fotografie animate
EdizioneUTET Universita, Torino, 2007, Collana di cinema , pag. 322, ill., cop.fle., dim. 14x20,4x2,1 cm , Isbn 978-88-6008-079-0
LettoreGiovanna Bacci, 2007
Classe cinema , storia della tecnica , fotografia , sensi
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Indice


 IX Introduzione


  3 PARTE PRIMA — Meraviglie ottiche e metamorfosi barocche

  5 Capitolo 1 — La camera oscura: antenato del Cinématographe?

 18 Capitolo 2 — La magia catottrica, ossia della portentosa
    esibizione di immagini attraverso gli specchi

 26 Capitolo 3 — Un'arte che sconvolge i sensi. Le proiezioni
    luminose della lanterna magica o taumaturgica

 47 Capitolo 4 — «Maraviglie» e illusioni ottiche di alcune
    industriose macchinette


 59 PARTE SECONDA — Insoliti viaggi visivi

 61 Capitolo 1 — I più bei luoghi della terra. Viaggi e visioni
    in rama

 78 Capitolo 2 — Un'arte che sconvolge i sensi. Le visioni
    della fantasmagoria

 95 Capitolo 3 — Esibizioni di fantasmi e conferenze istruttive.
    Le proiezioni luminose nell'Ottocento


111 PARTE TERZA — Giocattoli filosofici e macchine che catturano
    il movimento

113 Capitolo 1 — Un nuovo genere di illusione ottica. Il
    movimento delle immagini

131 Capitolo 2 — Dei nuovi «fantasmi scenici» in movimento
    creati dagli specchi. Le pantomime luminose di Émile Reynaud

143 Capitolo 3 — Vedere l'invisibile e catturare tutto ciò che si
    afferma attraverso il movimento. La cronofotografia


167 Schede tecniche
    a cura di R. Basano

    L'anortoscopio, p. 169
    La batteria di macchine fotografiche di Muybridge, p. 171
    Il caleidoscopio, p. 174
    La camera oscura, p. 177
    Il cronofotografo a lastra fissa, p 180
    Il cronofotografo a pellicola mobile, p. 183
    Il diorama, p. 185
    Il disco stroboscopico, p. 188
    Il fantascopio, p. 191
    Il fenachistiscopio, p. 193
    I fenachistiscopi da proiezione, p. 195
    La fotografia, p. 200
    Il fucile fotografico, p. 205
    La lanterna magica, p. 207
    I Moving Panoramas, p. 211
    Il panorama, p. 213
    La percezione del movimento, p. 216
    Il Phorolyt, p. 222
    Il prassinoscopio, p. 224
    Il prassinoscopio-teatro, p. 226
    Il prassinoscopio da proiezione, p. 228
    Le scatole ottiche, p. 230
    Lo stereofantascopio, p. 234
    Lo stereoscopio, p. 236
    Il taumatropio, p. 239
    Il teatro ottico, p. 241
    Le trasparenze, p. 243
    Effetti di dinamizzazione dell'immagine. Le trasparenze,
        p. 245
    Le vedute ottiche, p. 247
    Effetti di dinamizzazione dell'immagine. Le vedute ottiche,
        p. 249
    I vetri per lanterna magica, p. 252
    Effetti di dinamizzazione dell'immagine. I vetri per
        lanterna magica animati, p. 254
    Lo zoopraxiscopio, p. 259
    Lo zootropio, p. 261


263 Schede autori
    a cura di R. Basano

    Philip Carpenter, p. 265
    Louis-Jacques-Mandé Daguerre, p. 267
    Giovan Battista Della Porta, p. 269
    Athanasius Kircher, p. 272
    Etienne-Jules Marey, p. 275
    François Moigno, p. 278
    Eadweard Muybridge, p. 280
    Joseph Antoine Plateau, p. 283
    Jan Evangelista Purkinje, p. 285
    Émile Reynaud, p. 287
    Étienne-Gaspard Rohert (Robertson), p. 289
    Simon Ritter von Stampfer, p. 291

293 Bibliografia

315 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 5

CAPITOLO 1
La camera oscura:
antenato del Cinématographe?



Non sò se potrassi trovar cosa più ingegnosa, ne più bella per dar piacere à gran signori che in una camera all'oscuro sopra lenzuoli bianchi si veggano caccie, conviti, battaglie d'inimici, giochi, e finalmente ciò che ti piace così chiaramente, e luminosamente, e minutamente, come se proprio l'havessi dinanzi à gli occhi (Giovan Battista Della Porta, 1589).

Si distingue ogni particolare: le onde del mare che s'infrangono sulla spiaggia, lo stormire delle foglie agitate dal vento. (...) E la natura colta sul fatto. Tutto vive, cammina, corre, sono veri e propri quadri viventi (Henri de Parville, 1896).

Ieri sera sono stato nel regno delle ombre. Se solo sapeste quanto è strano essere là. È un mondo silenzioso, senza colore. Tutto: la terra, gli alberi, la gente, l'acqua e l'aria, tutto appare di un grigio monotono. I raggi grigi del sole attraversano il cielo grigio, gli occhi sono grigi nei volti grigi e grigie sono anche le foglie degli alberi. Non è la vita, ma la sua ombra, non è il movimento, ma il suo spettro muto. (...) Tutto si svolge in uno strano silenzio. Non si sentono le ruote delle automobili, né il rumore dei passi, né le conversazioni. Nulla. Non una sola nota della complessa sinfonia che accompagna sempre il movimento della gente (Maksim Gor'kij, 1896).


Nel buio di una sala, una sequenza di immagini semoventi appare su uno schermo bianco. Sono, in un caso, le immagini della camera oscura che Giovan Battista Della Porta suggerisce di ammirare per la prodigiosa somiglianza con quelle della realtà che ci circonda. E sono, nell'altro, le immagini cinematografiche che Henri de Parville ha potuto vedere a Parigi e Maksim Gor'kij alla fiera di Nani-Novgorod, in Russia, pochi mesi dopo la prima proiezione pubblica ufficiale dei fratelli Lumière, il 28 dicembre 1895.

Se immaginiamo la descrizione di Della Porta sospesa nel tempo, nulla potrebbe impedirci di pensare che si riferisca a qualcosa di molto simile a ciò che descrive de Parville. In entrambi i casi si parla di immagini che sembrano aver catturato la vita, addirittura non distinguersi dalla vita reale: «Come se proprio l'havessi dinanzi agli occhi», «sono veri e propri quadri viventi». In entrambi trapela l'entusiasmo di chi ha assistito a un'esperienza eccezionale, quasi prodigiosa, un'esperienza che avvicina, pur a distanza di secoli, i due spettatori.

In effetti, l'impressione che si ricava leggendo le due citazioni non è casuale ma trova riscontro nel fatto che tra l'esperienza di Della Porta e quella di de Parville esiste una relazione. Le immagini così stupefacenti che descrivono si creano infatti grazie a un medesimo principio ottico: un fascio di luce entra attraverso un piccolo foro in una stanza buia e proietta sulla parete opposta l'immagine capovolta della realtà esterna. I due esempi citati potrebbero così convalidare la tesi diffusa che il cinema sia una filiazione diretta della camera oscura e della sua esperienza, che l'uno e l'altra costituiscano anzi il punto di arrivo e quello di partenza di un percorso finalizzato alla nascita della settima arte, quasi vi fosse un'unica linea di continuità. Seguendo questa lettura, le immagini di cui parla Della Porta rappresentano il grado zero dell'universo visivo descritto da de Parville: un universo conquistato tappa dopo tappa, scoperta dopo scoperta, perfezionando via via i mezzi per ricreare la realtà e per osservarla sullo schermo di un ambiente buio.

Ben diversa appare invece la reazione di Gor'kij. La sua percezione delle immagini del Cinématographe Lumière è raccontata con accenti profondamente lontani dallo spirito con cui Della Porta aveva descritto i riflessi della camera oscura e sembrano piuttosto riflettere un sentimento di morte: alle immagini che appaiono «chiaramente, luminosamente, minutamente» si oppone un grigio uniforme che annulla qualsiasi apparenza di vita, ne restituisce solo l'ombra, senza colori, senza rumori; le stesse fotografie in movimento, all'epoca note anche come Living Pictures – immagini viventi – sono vissute dallo scrittore russo come il loro contrario, il loro «spettro muto». L'impressione negativa di Gor'kij del resto non è isolata: un giornalista inglese parla a sua volta di «spaventosa impressione di vita (...) ma di una vita spoglia di colore e suono», di un'immagine «dominata da un grigio uniforme e impenetrabile» e di un «silenzio che raddoppia il rifuggire dalla loro realtà»; anche se altre testimonianze confermano le impressioni di de Parville, pur con evidenti finalità giornalistiche che spingono talvolta a descrivere le prime fotografie animate in bianco e nero come immagini «con i colori».

Chi di questi primi spettatori cinematografici sia il più attendibile, il più «oggettivo», non si sa, né questa è sede per indagare i motivi di simili differenti reazioni. Certo è, però, che di fronte alla straordinaria impressione di realtà delle immagini riflesse dalla camera oscura, univocamente messa in luce dai commentatori dell'epoca, le prime immagini cinematografiche sembrano vacillare o, quantomeno, non restituire quel grado massimo di analogia con la realtà circostante che caratterizza le immagini celebrate dal Della Porta.

Perché dunque d'abitudine si presenta la camera oscura come l'antenato per eccellenza del cinema e quale effettiva relazione esiste tra le due esperienze? Cercheremo di indagarlo a partire da un breve excursus storico che evidenzi i differenti aspetti della camera oscura nel corso dei secoli e le sue possibili relazioni con la settima arte.


Va innanzitutto rilevato che, al di là dello strumento ottico definito «camera oscura» e messo a punto nel corso dei secoli, esiste in natura un fenomeno che consente di riprodurre su una superficie chiara di un ambiente buio le immagini della realtà circostante:

si faccia nel tetto di una casa chiusa o in una finestra un foro rivolto verso la parte del cielo in cui deve apparire l'eclisse del sole e sia questo della grandezza di un buco che si fa a una botte per estrarre il vino. Mentre la luce del sole entra da questo foro, si disponga a una distanza di venti o trenta piedi qualche cosa di piatto, per esempio un asse, e si vedrà quindi lo sprazzo di luce disegnarsi sull'asse con una forma rotonda anche se il foro è angoloso.

Descritto con chiarezza in questa testimonianza di Guillaume de Saint-Cloud, il fenomeno empirico della camera oscura è di fatto noto fin dall'antichità: riferimenti a esso si trovano già in autori come Euclide, Aristotele e successivamente, fra il X e il XIII secolo, Ibn al Haitham (Alhazen), Witelo, Ruggero Bacone e John Peckam. Per molto tempo, tuttavia, è sostanzialmente sfruttato per osservare le eclissi solari e proprio tale uso appare nella prima raffigurazione di una camera oscura fatta nel 1544 da Reinerus Gemma-Frisius. Solo dal Quattrocento in poi se ne sottolinea il potere di riprodurre le immagini della vita che ci circonda. Lo richiamerà Leonardo da Vinci in un celebre passo che, pur non correttamente, mette in luce l'analogia tra la camera oscura e l'occhio:

la sperienza, che mostra come li obbietti mandino le loro spezie ovver similitudini intersegate dentro all'ochio nello omore albugino, si dimostra quando per alcuno picolo spiraculo rotondo penetreranno le spezie delli obbietti alluminati in abitazione forte oscura.

Sistemando vicino al foro una carta bianca – aggiunge Leonardo – le immagini degli oggetti intorno a noi si rifletteranno su di essa «colle lor proprie figure e colori; ma saran minori e fieno sottosopra, per causa della detta intersegazione».

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Pagina 78

CAPITOLO 2
Un'arte che sconvolge i sensi.
Le visioni della fantasmagoria



                    LA FANTASMAGORIA. Descrizione di uno spettacolo curioso,
            nuovo e istruttivo («La Feuille Villageoise», 28 febbraio 1793).

                   Avete visto la lanterna magica, la scatola curiosa? (...)
                Ebbene, allora avete visto gli strumenti della fantasmagoria
                            e la fantasmagoria stessa (J.-B. Pujoulx, 1801).



Porta la data del febbraio 1793 la cronaca entusiasta di un giornalista anonimo che presenta «uno spettacolo curioso, nuovo e istruttivo» realizzato da un presunto «fisico inglese» non ben identificato. Il nome dello spettacolo corrisponde, precisa il giornalista, al «termine scientifico Fantasmagoria» e significa «evocazione di fantasmi». Sappiamo oggi che il misterioso personaggio è un inglese, o forse un tedesco o un fiammingo, noto come Paul Philidor; una figura di sicuro carisma, se consideriamo il modo in cui accoglie il pubblico prima di condurlo «in una sala tappezzata di nero e ricoperta di immagini della morte»:

farò comparire davanti a voi tutti i morti illustri, tutti coloro il cui ricordo è caro e la cui immagine è presente: non vi mostrerò spiriti, perché non ce ne sono affatto; creerò per voi simulacri e figure che possono essere scambiati per spiriti, nei sogni dell'immaginazione o nelle menzogne dei ciarlatani.

Di Philidor, le poche tracce rimaste narrano che aveva già esibito a Parigi, il 16 dicembre 1792, una «Fantasmagoria, apparizione di Spettri ed evocazione delle Ombre di personaggi celebri, come li producono i Rosa Croce, gli Illuminati di Berlino, i Teosofi e i Martinisti», e che era stato anche il probabile autore di altre analoghe esibizioni rappresentate a Vienna intorno al 1790; sulla scia, peraltro, di alcuni maghi e negromanti che, prima di lui, si erano serviti dell'antica lanterna magica e taumaturgica per richiamare spettri e fantasmi. Ma, a differenza di queste precedenti esperienze, lo spettacolo di Philidor è realizzato con una lanterna magica speciale: nascosta alla vista del pubblico, si può agevolmente spostare in modo tale da retro-proiettare immagini che s'ingrandiscono e rimpiccioliscono a poco a poco, avvicinandosi o allontanandosi dagli spettatori. Una messa in scena accuratamente studiata (dalla scelta degli elementi scenografici all'uso di speciali effetti sonori) ambienta inoltre la sequenza delle immagini fantasmagoriche in un'atmosfera spettacolare di grande suggestione:

all'improvviso, si sente un tuono; lampi che di quando in quando vi abbagliano gli occhi sembrano brillare solo per rendere l'oscurità ancora più nera. Contemporaneamente, si fanno sentire tutti i rumori dei temporali; la pioggia, la grandine e i venti formano l'ouverture e insieme la sinfonia della scena che sta per apparire. Ecco allora che una figura biancastra si alza dal pavimento e diventa sempre più grande fino a raggiungere proporzioni umane. All'inizio la distinguete confusamente; una specie di nuvola l'avvolge ancora: si schiarisce, si dilegua; il fantasma diventa sempre più visibile, splendente: ne distinguete i tratti, lo riconoscete, è MIRABEAU (...). Passeggia, erra nell'ombra, si avvicina, si china verso di voi: rabbrividite; si avvicina ancora: state per toccarlo; sparisce e vi ritrovate di nuovo nelle tenebre.

L'effetto di stupore è garantito senza che per questo Philidor si proponga di ingannare lo spettatore attribuendosi falsi poteri magici; il suo obiettivo dichiarato è infatti quello di essere utile all'istruzione, in linea con i dettami illuministici dell'epoca:

non sono né un prete né un mago; non vi voglio affatto ingannare; ma saprò stupirvi. Non dipende che da me creare illusioni; preferisco essere al servizio dell'istruzione.

Non altrettanto singolare appare invece lo stesso spettacolo in un'altra testimonianza di pochi anni successiva alla cronaca entusiasta della fantasmagoria di Philidor:

al rozzo montanaro che vi mostrava la lanterna magica, sarebbe bastato solo un po' più d'istruzione e di abilità per darvi un saggio di apparizione di fantasmi: e, probabilmente, l'avrà fatto senza volerlo: poiché, allontanando o avvicinando la sua lanterna, e cercando di mettere a fuoco i vetri, avrete visto le figure dipinte rimpicciolirsi o ingrandirsi sul muro bianco o sul telo steso. Questa illusione, che ci fa credere che un oggetto che s'ingrandisce uniformemente avanzi verso di noi, è il fondamento della fantasmagoria (...). Il prestigio che circonda i fantasmagoristi è accresciuto dal mistero, che nasconde agli occhi del pubblico le loro operazioni e i loro strumenti; ma il modesto Alverniate può facilmente annullare questa supremazia (...) non deve fare altro che cambiare la disposizione del telo, facendolo appendere al soffitto, tra lui e gli spettatori (...): poiché la trasparenza del telo lascia passare i raggi colorati, purché non sia troppo spesso e fitto, l'immagine apparirà ugualmente nitida da una parte e dall'altra.

Se queste facili soluzioni si potessero abbinare a quelle utilizzate da P. Philidor e dai suoi imitatori, quali per esempio la tappezzeria nera per assorbire i raggi colorati, piccoli accompagnamenti musicali e altro, crediamo che tutte le lanterne magiche si trasformerebbero in fantasmagorie, a dispetto dei brevetti d'invenzione che, in coscienza, dovrebbero far riferimento a padre Kircher.

È dunque un punto di vista molto diverso quello di Jean-Baptiste Pujoulx, sostenitore tiepido del neonato, ma oramai già molto popolare spettacolo di fantasmagoria, del quale sottolinea la sostanziale affinità con il più semplice intrattenimento proposto dal «rozzo montanaro»: quel «modesto Alverniate» che, come i Savoiardi o i Trentini, richiama ai lettori dell'epoca l'immagine familiare di un ambulante che percorre da molti decenni l'Europa con la sua lanterna magica in spalla, diffondendo le proiezioni luminose ovunque. Nella visione di Pujoulx, infatti, la fantasmagoria appare come una rappresentazione semplicemente più sofisticata delle antiche «scene satiriche, tragiche, teatrali e simili» create con la macchina celebrata da Kircher.

Il suo è un giudizio che riguarda prevalentemente gli aspetti tecnici ed è condivisibile solo in parte, perché la fantasmagoria è realizzata con il fantascopio: una lanterna magica montata su rotaie e caratterizzata da alcuni elementi innovativi che la trasformano in un apparato molto più evoluto rispetto all'apparecchio originario. Ma Pujoulx mette anche in evidenza una prerogativa dello spettacolo legata ai meccanismi percettivi dello spettatore che, innegabilmente, richiama l'esperienza di Kircher: e cioè, l'immergere il pubblico in una silenziosa oscurità e il sottrarre alla vista la macchina; in una parola, la segretezza, un presupposto essenziale sia delle esibizioni della lanterna taumaturgica, sia degli spettacoli di fantasmagoria, giocati a loro volta sul «mistero». In questa prospettiva, la fantasmagoria porta alla sua espressione più compiuta la carica di suggestione intrinseca alle prime proiezioni luminose e si connota a sua volta come un fenomeno inspiegabile, che stupisce lo spettatore, ne «sconvolge i sensi», perché lo conduce ai confini di un mondo dalle sembianze allucinatorie, tali da poter insinuare in lui dubbi sulle proprie facoltà percettive.

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Pagina 113

CAPITOLO 1
Un nuovo genere di illusione ottica.
Il movimento delle immagini



        È una specie di giocattolo che da un po' di tempo tende a moltiplicarsi
        e di cui non dico né bene né male. Mi riferisco al giocattolo
        scientifico. Il principale difetto di questi giocattoli è di essere
        cari. Ma possono divertire a lungo e sviluppare nel cervello del bambino
        il gusto per gli effetti meravigliosi e sorprendenti. Lo stereoscopio,
        che dà rilievo a un'immagine piana, appartiene a questo genere. Esiste
        ormai da qualche anno. Il fenachistiscopio, più vecchio, è meno
        conosciuto.

        In Germania, dove ci si preoccupa sempre e comunque dell'educazione
        (...), i giocattoli non hanno solo lo scopo di divertire il bambino, ma
        anche quello di istruirlo.



Tra le esperienze che si annoverano come premesse o condizioni fondamentali per la nascita dello spettacolo cinematografico, è consuetudine dare un rilievo particolare a quella di alcuni «giocattoli filosofici» messi a punto durante l'Ottocento in ambito scientifico. La loro prerogativa è di fatto già dichiarata nel nome: giocare con essi garantisce la possibilità di divertirsi ma anche quella di sperimentare i principi scientifici su cui sono costruiti e di comprendere così, in modo semplice ed efficace, leggi della scienza spesso complesse.

È una modalità per certi aspetti familiare. Già nel Settecento i gabinetti di fisica avevano contribuito all'affermazione di un nuovo modello di divulgazione, avvincente e allo stesso tempo immediato, che si fondava sull'osservazione diretta dei fenomeni naturali; e l'apparecchiatura utilizzata prevedeva — oltre ai microscopi, ai cannocchiali e ad altri autorevoli «strumenti filosofici» — alcuni semplici apparecchi a noi noti, quali le lanterne magiche o le scatole ottiche, che usate in modo appropriato consentivano di mostrare illusioni ottiche sorprendenti e di dimostrarne le cause. Mentre al di fuori dell'ambito scientifico questi apparecchi erano utilizzati come macchine dagli effetti «miracolosi», dentro questi specifici luoghi di diffusione della scienza essi diventavano invece una sorta di giocattoli filosofici ante litteram finalizzati all'istruzione.

Nel nuovo secolo, però, quello che Baudelaire definisce una «specie di giocattolo» si connota come un dispositivo che crea a sua volta illusioni ottiche ma non ne consente in nessun caso l'uso spettacolare, perché la sua natura è squisitamente scientifica, la finalità educativa; pertanto, l'effetto prodotto non ha altro fine se non quello di illustrare il principio che fonda ogni specifico giocattolo. Esso è inoltre destinato «a moltiplicarsi» e a uscire dalla cerchia circoscritta dei gabinetti scientifici dato che, come mette in evidenza Charles Wheatstone parlando dei giocattoli filosofici,

l'applicazione dei principi della scienza a scopo artistico e ricreativo contribuisce in modo assai rilevante a renderli molto popolari, perché il mostrare esperimenti che fanno colpo sullo spettatore stimola a indagarne le cause con maggior interesse e consente di ricordare più a lungo gli effetti.

Capita così che diventino oggetti di moda e si trasformino talvolta in veri e propri fenomeni commerciali: il caleidoscopio di David Brewster per esempio, quel semplice aggeggio dalle immagini speculari sempre cangianti e multiformi, prende origine dalle stesse leggi della riflessione indagate da Della Porta ma diventa, proprio per la sua eccezionale notorietà, una delle immagini simbolo dell'Ottocento e, esempio raro tra le macchine e le pratiche in uso quando il cinema non c'era, si tramanda fino ai giorni nostri. Analogamente, lo stereoscopio ideato da Wheatstone, inventore di altri popolari strumenti e giocattoli filosofici, è venduto in milioni di esemplari per il piacere e la curiosità di un pubblico che può osservare le immagini in 3D e verificare così, direttamente, il fenomeno visivo della profondità. Minore, ma comunque sia notevole, è a sua volta la diffusione dei dispositivi che nascono dalla ricerca sulla percezione visiva del movimento e consentono di capire le leggi che la regolano; tra questi ci sono il fenachistiscopio citato da Baudelaire e gli altri congegni cui sono dedicate le prossime pagine.

Se tuttavia i giocattoli filosofici contribuiscono a divulgare la scienza a pubblici ampi e diversificati, parallelamente essi offrono la possibilità agli studiosi di controllare e misurare alcune fondamentali teorie quali la visione periferica e binoculare (principio sul quale si basa lo stereoscopio, cui Helmholtz ricorrerà per provare la sua teoria della visione) o il fenomeno spiegato all'epoca come persistenza delle immagini sulla retina dell'occhio, identificato per anni come il fondamento della percezione filmica; un fenomeno ampiamente sperimentato in seguito, che aprirà la strada a successive ricerche in ambito scientifico e condurrà, tra l'altro, alla possibilità di riprodurre il movimento in modo artificiale e allo stesso tempo – ricreandolo – di studiarlo «in laboratorio».

Il tentativo di riprodurre la dimensione dinamica della vita intorno a noi e di rivelarla nel suo mutare attraverso il tempo e lo spazio aveva rappresentato peraltro – lo si è visto – una costante delle immagini esibite da scatole ottiche o lanterne magiche. Così la lavorazione particolare delle vedute ottiche mostrate dal Mondo novo dava luogo a effetti cromatici e chiaroscurali che restituivano lo scorrere della vita; mentre l'uso di vetri dotati di speciali meccanismi faceva sì che le immagini luminose della lanterna magica si muovessero liberamente nello spazio della superficie bianca. All'apice di questo processo, Daguerre avrebbe fatto dei Diorami «le sedi di una perfetta imitazione della natura», risolvendo la fissità della tela panoramica con sofisticate soluzioni illuminotecniche che avrebbero reso il viaggio immaginario dell'uomo del XIX secolo ancora più credibile.

In tutti questi casi, però, le tecniche adottate per rendere dinamica l'immagine non derivano certo dall'applicazione di quei principi della percezione visiva che consentono di osservare un'immagine, o un qualsiasi elemento di realtà, nel suo sviluppo temporale e spaziale. Esse si basano piuttosto sul ricorso a sistemi particolari di illuminazione e/o di ingranaggi meccanici, di volta in volta elementari o ingegnosi, che hanno come unico scopo quello di dare maggior resa spettacolare alla rappresentazione, quale che sia.

Al contrario, i molti dispositivi creati nell'Ottocento per riprodurre l'illusione di movimento non hanno alcuna attinenza con la pratica spettacolare delle precedenti esperienze della visione ma nascono dalla ricerca scientifica e rappresentano uno dei risultati più esemplificativi dell'accresciuto interesse per la fisiologia della visione. Soprattutto, si fondano (analogamente allo stereoscopio e ad altri giocattoli filosofici) su un presupposto fino a quel momento mai sperimentato: l'esperienza ottica si produce solo nel momento in cui il giocattolo è utilizzato, perché sfrutta alcuni meccanismi percettivi dell'uomo e richiede, di conseguenza, il coinvolgimento «fisico» dell'osservatore.

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CAPITOLO 3
Vedere l'invisibile e catturare tutto ciò
che si afferma attraverso il movimento.
La cronofotografia



Non potete dire di aver visto qualcosa a fondo se non ne avete fatto una fotografia che riveli un mucchio di dettagli che, altrimenti, non potrebbero nemmeno essere distinti.

Applicata in un certo modo, la fotografia fa conoscere con la massima precisione i movimenti che l'occhio non saprebbe percepire perché troppo lenti, troppo rapidi o troppo complessi. Il metodo che descriveremo è la Cronofotografia.

Il cinema (...) è il (...) dinamismo della vita, la natura con le sua manifestazioni, la folla con i suoi ondeggiamenti. Tutto ciò che si afferma attraverso il movimento è di sua competenza.


Se nei primi decenni dell'Ottocento lo studio della fisiologia dell'occhio porta a indagare le leggi che regolano la percezione del movimento e conduce alla possibilità di ricrearne l'illusione attraverso giocattoli filosofici come il fenachistiscopio o lo zootropio, negli anni che segneranno l'affermazione del positivismo è il movimento stesso a diventare un nesso centrale della ricerca scientifica. Così la vita è inseguita, fissata, vivisezionata in qualsiasi settore della scienza e il movimento, il suo attributo distintivo, è analizzato in tutte le sue possibili manifestazioni a tal punto da far affermare nel 1881 a un pittore come Guéroult:

dall'inizio del secolo la scienza è riuscita a imprimere una grandiosa unità alla spiegazione dei diversi fenomeni fisici. Essa li riconduce tutti a forme diverse di quel fenomeno più generale che è il movimento.

Sullo sfondo c'è del resto una società industriale in pieno sviluppo, stratificata su un susseguirsi di scoperte scientifiche e di innovazioni tecnologiche che, in modo più o meno esplicito, richiamano l'idea di movimento. Sono i nuovi grandi mezzi di locomozione (la locomotiva o il piroscafo) e i nuovi mezzi di comunicazione (il telegrafo, il telefono) che portano con sé i requisiti moderni della dinamicità e della simultaneità, e contribuiscono a rivoluzionare la percezione del tempo e dello spazio: grandezze da segmentare e misurare, secondo i valori positivi dell'epoca, che riveleranno invece al dibattito epistemologico di fine Ottocento i loro aspetti di relatività, la dimensione soggettiva che sfugge agli strumenti della scienza e ai numeri della misurazione e che troverà nel linguaggio cinematografico un impareggiabile mezzo di espressione, per la sua capacità di manipolare in infiniti modi il tempo e lo spazio.

Paradossalmente, però, è proprio la dimensione oggettiva e misurabile del tempo e dello spazio – i due fattori costitutivi del movimento – a caratterizzare il percorso tecnologico che porterà alla progressiva definizione del dispositivo cinematografico. Ad esso si arriverà, infatti, attraverso una sistematica ricerca sul movimento che mira a conoscerne le leggi e per questo lo scompone nelle due grandezze che ne fondano l'essenza. Sarà determinante la scoperta della fotografia istantanea, grazie alla quale diventa possibile catturare l'attimo fuggente e di lì in avanti controllare, riprodurre, persino manipolare la realtà in movimento.


Non a caso in questi anni si vive la fotografia come dotata di un inimmaginabile potere di rivelazione: Émile Zola dichiara in proposito, in un'intervista rilasciata nel 1900 alla rivista «The King», che solo con la fotografia è possibile vedere dettagli altrimenti non distinguibili. È un attributo, questo della fotografia, che si scopre man mano negli ultimi decenni dell'Ottocento, specialmente in ambito scientifico, ed è un attributo che consente di sperimentare ciò che in quegli anni viene spesso definito un «universo insospettato» e arriva addirittura a dare l'illusione di «possedere l'incantesimo che permette di vedere attraverso i muri e penetrare i pensieri, l'incantesimo grazie al quale lo sguardo dell'uomo diviene uguale a quello divino», come riporta la cronaca entusiasta, e non esattamente scientifica, della scoperta nel 1895 dei raggi X da parte di Wilhelm Conrad Röntgen.

Ma è soprattutto verso il 1880 quando, all'apice della sua avventura ottocentesca, la fotografia scopre con l'istantanea come spezzare quel flusso temporale indivisibile della vita intorno a noi, che questo «universo insospettato» pare svelare all'improvviso un mondo di immagini inattese. L'istante che prende forma sulla lastra fotografica rivela infatti una realtà sconosciuta o, tutt'al più, supposta, immaginata, ma mai percepibile a occhio nudo: è l'infinitamente breve, celato nello scorrere del tempo, che diventa finalmente manifesto e che sembra provocare le stesse sensazioni di stupore e insieme di dominio della realtà create, nel XVII secolo, dal microscopio e dal cannocchiale, i due strumenti che avevano anatomizzato lo spazio, rivelandone l'infinitamente piccolo e l'infinitamente lontano.

E quando, con la nuova tecnica fotografica, l'istante diventa un'immagine visibile, non più confusa nel flusso continuo degli altri istanti del nostro vissuto, anche il tempo si trasforma in una realtà che si può sezionare, punto dopo punto, scomporre in una sequenza di attimi fuggenti per arrivare a rendere concrete potenzialità fino ad allora non realizzabili e, talvolta, addirittura impensabili: inserire il movimento nell'immagine, svelando e riproducendo il mondo intorno a noi non solo come un puzzle suddiviso in singole immagini ma come una loro ordinata e progressiva sequenza temporale; rendere le trasformazioni e le metamorfosi della vita; addirittura dilatare o concentrare artificiosamente lo scorrere naturale del tempo e poter così controllare la realtà intorno a noi. Anche in risposta, del resto, ai bisogni di un nuovo assetto socio-economico che mira a conoscerne qualsiasi aspetto per poterla sfruttare al meglio.


L'avvio della storia che racconta come dalla scoperta della fotografia istantanea si arrivi a catturare il movimento (e di lì anche al determinarsi delle condizioni tecnologiche necessarie alla nascita dello spettacolo cinematografico) coinciderebbe con una scommessa tra un finanziere americano e il senatore Leland Stanford, ex governatore della California, fondatore e presidente della Central Pacific Railroad, allevatore di cavalli: argomento del contendere sarebbe stata l'ipotesi, letta nel trattato La machine animale (1873) del fisiologo francese Étienne-Jules Marey, che il cavallo presenti, in un preciso momento della sua cavalcata, tutte le zampe sollevate e, per un istante, riposi su una sola delle zampe anteriori. Sarebbe questa, secondo l'aneddotica tradizionale, la ragione per la quale Stanford chiede al fotografo Eadweard Muybridge di effettuare una serie di riprese di cavalli al galoppo. In realtà, più verosimilmente, Leland Stanford sarebbe stato spinto dall'obiettivo di conoscere i meccanismi della locomozione equina per migliorare il sistema di allevamento e allenamento dei cavalli; figura emblematica legata a quel processo di modernizzazione capitalistica che avviene intorno alla metà dell'Ottocento, Stanford mostra infatti un generale interesse verso la possibilità di rendere più funzionali e redditizie le sue attività di produzione.

Va precisato che Muybridge aveva già realizzato nel 1872, su richiesta dello stesso Stanford, alcune fotografie di un cavallo in movimento; ma questi primi esperimenti avevano avuto esiti poco felici: le lastre al collodio umido utilizzate per le riprese richiedevano tempi lunghi di esposizione con il risultato che le immagini ottenute apparivano poco definite. E per di più Muybridge era finito in carcere per avere ucciso l'amante della propria moglie. Tornato in libertà, prosegue la collaborazione con Stanford, accettando di realizzare il suo costoso progetto, e nel 1878 avvia, a Palo Alto, quella vasta indagine fotografica sulla locomozione animale e umana che lo consacrerà alla storia come uno dei grandi pionieri della fotografia in movimento. Per l'occasione viene predisposta una speciale batteria di dodici apparecchi, collocati l'uno dopo l'altro, i cui otturatori elettrici sono azionati dal passaggio del cavallo. L'esperienza ha successo: il sofisticato sistema messo a punto dalla coppia Stanford/Muybridge consente infatti di fissare fotograficamente, in dodici fasi successive, l'intera sequenza di un cavallo in movimento.

Il riscontro in campo scientifico e artistico è davvero eccezionale (anche grazie all'abile politica di promozione adottata da Stanford e Muybridge) e la serie fa rapidamente il giro del mondo. È pubblicizzata dalla stampa americana dell'epoca, invitata ad assistere agli esperimenti, e compare nel giro di brevissimo tempo su alcune importanti riviste internazionali: dall'americana «The Scientific American», che nell'ottobre del 1878 dedica all'avvenimento la copertina, alla francese «La Nature» edita da Gaston Tissandier, già autore di Les Merveilles de la Photographie e amico di Étienne-Jules Marey.

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