Copertina
Autore Amedeo Petrilli
Titolo L'urbanistica di Le Corbusier
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006, Saggi , pag. 240, ill., cop.fle., dim. 15,5x21,3x1,6 cm , Isbn 978-88-317-8980-6
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe urbanistica , architettura , citta': Venezia
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Indice


    L'URBANISTICA DI LE CORBUSIER

 11 Premessa
 15 Le scoperte giovanili
 25 Prototipi residenziali e modelli urbani
 33 Una continua sperimentazione
 38 I principi teorici degli anni venti
 43 Il «Plan Voisin»
 50 La città Mondiale
 56 Le dieci conferenze sull'architettura e l'urbanistica
 60 La ricerca negli anni trenta
 68 Il piano di Algeri
 74 Le proposte per Anversa, Barcellona, Nemours, Zlin
 84 La riorganizzazione agraria
 88 «La Ville Radieuse»
 99 I piani per Parigi
110 Gli studi per Rio de Janeiro e Buenos Aires
117 Una proposta per Manhattan
124 I progetti degli anni quaranta
132 La definizione di una dottrina urbanistica
143 I piani di Saint-Dié, Saint-Gaudens, La Rochelle-Pallice
150 Le unità d'abitazione di grandezza conforme
158 I piani di Marsiglia, Strasburgo, Cap Martin, Bogotà
166 La regola delle 7 Vie
172 Chandigarh, la capitale del Punjab
180 Le città satelliti
185 La chiusura del cerchio
192 Corollario indiano

 

 

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Pagina 11

PREMESSA



    Ne jamais perdre de vue le graphique d'une vie humaine, qui
    ne se compose pas, quoi qu'on dise, d'une horizontale et de
    deux perpendiculaires, mais bien plutót de trois lignes sinueuses,
    étirées à l'infini, sans cesse rapprochées et divergeant sans
    cesse: ce qu'un homme a cru étre, ce qu'il a voulu étre, et ce
    qu'il fut.

    MARGUERITE YOURCENAR



L'idea di scrivere un libro sul pensiero urbanistico di Le Corbusier è legata a una serie di riflessioni e spunti diversificati. Innanzi tutto la mia convinzione che, al di là di una serie di connotazioni ed elementi specifici che caratterizzano l'urbanistica come "disciplina", essa non sia una scienza autonoma, dotata di codici e regole proprie: pur cambiando la scala e la dimensione dei problemi, l'approccio e le modalità in cui viene configurata – resa cioè leggibile attraverso contenuti congruenti e figure appropriate – non può essere scissa dall' "architettura" e la reale sostanza delle questioni messe in gioco non può quindi che riflettere obiettivi comuni e non dissociabili.

Anche se la strumentazione d'indagine è in molti casi diversificata, a mio avviso gli esiti finali dovrebbero sempre essere riconducibili a sistemi tridimensionali e sostanziarsi in termini fisici e spaziali. Per contrasto, il tentativo di specializzazione messo in atto ormai da tempo e l'ipotesi di sezionare e catalogare attraverso ambiti disciplinari autonomi le diverse esplorazioni che si compiono nello spazio – o su parti di esso – non possono certo produrre soluzioni articolate e complessive, tese cioè a registrare le specificità, ma anche gli intrecci e le corrispondenze dei fenomeni.

Nel senso che non è possibile scindere tra loro le diverse coordinate che concorrono a dare forma al contesto fisico e umano in cui viviamo e, creando invece ambiti e perimetrazioni artificiali, si corre il rischio di limitare o annullare potenzialità e interrelazioni visibili o latenti.

Ma tutto questo cosa ha a che vedere con Le Corbusier? Perché occuparsi ancora di lui, dei suoi progetti e delle sue teorie? La risposta non può essere univoca e, nel mio caso, è anche legata a esperienze ormai lontane, ai due libri che ho scritto sulla sua opera e probabilmente alla volontà di concludere l'itinerario cominciato qualche anno fa.

Il desiderio di rivolgere la mia attenzione al lavoro "urbanistico" di Le Corbusier discende soprattutto dall'interesse che continua a suscitarmi la sua visione in riferimento alle diverse scale dei problemi: un approccio in cui, travalicando ogni limite e confine disciplinare, si intrecciano poeticamente contenuti e motivazioni, forme e pensieri.

A questo si aggiunge anche un altro aspetto, legato all'insistenza di certa critica a stigmatizzare una serie di progetti urbanistici – e architettonici – e a darne una lettura distorta e settoriale: mi riferisco alle accuse rivoltegli per i piani sviluppati negli anni venti per Parigi o altre proposte teoriche formulate successivamente.

A questo proposito io credo, e nel testo che segue illustrerò questo punto di vista, che nella maggior parte di quei casi l'obiettivo di Le Corbusier fu di individuare dei "modelli", di elaborare dei "campioni" di laboratorio per indagare lo spessore e la natura dei problemi creati dalle trasformazioni che, con ritmi e modalità diverse dal passato, si riversavano sul mondo di allora.

In altri termini Le Corbusier avvertiva che si stavano producendo cambiamenti molto profondi nella vita degli uomini e che le soluzioni spaziali da apportare dovevano corrispondere a quanto si manifestava nella nuova società e secondo i nuovi mezzi di produzione: dalla cellula individuale all'alloggio collettivo, dalla mobilità alla salute, dal lavoro al tempo libero.

Osservando poi i suoi "manifesti", peraltro un modo di comunicare pensieri e principi molto diffuso agli inizi del Novecento, o rileggendo i numerosi scritti e progetti in cui con infaticabile ostinazione cercava di diffondere e affermare le sue idee, si evidenzia un altro dato fondamentale e spesso trascurato dalla critica, cioè la sua continua attenzione alle configurazioni architettoniche e urbanistiche del passato e alla "lezione magistrale' che se ne poteva ricavare: di fatto, una continua analisi sviluppata sul campo – attraverso disegni, schizzi e note a margine – estremamente mirata e selettiva, iniziata durante i suoi voyages giovanili e proseguita fino alla sua morte.

Vorrei infine sottolineare che, nonostante avesse dedicato tutta la vita al tentativo di realizzare le sue visioni urbanistiche, di fatto riuscì soltanto – in tarda età – a iniziare la costruzione di Chandigarh, la capitale del Punjab.

E questo non è un aspetto trascurabile, perché solo in quella circostanza poté finalmente affinare e integrare le molteplici coordinate spaziali e sociali che danno origine alla struttura urbana.

In nessun altro caso infatti riuscì ad andare oltre l'affermazione di principi teorici o al disegno delle ipotesi preliminari, elementi fondamentali ma non sufficienti a designare e "misurare" con esattezza gli esiti finali, che possono articolarsi inevitabilmente solo in tempi lunghi e tramite fasi e sequenze molto diversificate.

Nel mio libro sul progetto per l'Ospedale di Venezia, oltre ad analizzare quest'opera e a metterne in luce gli elementi più significativi, avevo cercato – attraverso un percorso a ritroso – di evidenziare la straordinaria continuità che caratterizza la "ricerca paziente" di Le Corbusier, il lento e costante sviluppo della sua visione architettonica e urbanistica, le molteplici analogie negli approcci e nella definizione dei processi creativi, le invenzioni e le scoperte.

Nel secondo libro, individuando nel suono una delle coordinate che caratterizzano il suo percorso conoscitivo, ne avevo esplorato il significato e l'utilizzo all'interno delle opere. In quel caso si trattò di un itinerario trasversale, nel senso che molte traiettorie si proiettavano lungo sentieri spesso non battuti o mai tracciati in precedenza.

In questo libro – dedicato all'urbanistica di Le Corbusier – seguo invece un percorso tendenzialmente cronologico, proprio per evidenziare la "costruzione" del suo processo analitico e propositivo.

Anche in questo caso, come nei libri precedenti, mi rivolgo ai giovani che si apprestano a praticare questo mestiere: non ho la presunzione di indicare delle strade da seguire o delle teorie da condividere, il mio obiettivo è stato piuttosto quello di ripercorrere uno straordinario itinerario creativo cercando di coglierne i diversi significati, confrontandolo quando necessario con altre strategie pianificatorie e traendone alcune possibili conclusioni.

Io non sono un critico né uno storico, pratico l'architettura da tanti anni e, per una serie di circostanze favorevoli, nel lontano passato ho avuto modo di lavorare nell'atelier che Le Corbusier aveva aperto a Venezia per completare il progetto del Nuovo Ospedale.

E, forse perché ero molto giovane e immerso in un'avventura affascinante, allora non riuscivo mai a capire se stavo disegnando dei piani di architettura o di urbanistica, se mi occupavo di disegno degli interni o del paesaggio, dell'assetto strutturale o dei dettagli, dello spazio o della forma del manufatto.

Ho scoperto, in seguito, che mi stavo occupando di tutte quelle cose insieme, tra loro "magicamente" interrelate.

Come dovrebbe sempre essere.

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Pagina 185

24.
LA CHIUSURA DEL CERCHIO



Nell'aprile del 1965, dopo due anni di intenso lavoro sviluppato nell'atelier di rue de Sèvres, Le Corbusier presenta a Venezia — in una grande mostra allestita per celebrare la circostanza — i piani per il nuovo Ospedale: un organismo orizzontale, interamente portato dai pilotis, organizzato su tre livelli principali e la cui altezza non supera la linea media degli edifici della città.

L'area a disposizione era limitata per cui la struttura si espande nella laguna, appoggiata su palafitte immerse nell'acqua, secondo l'antica tecnica costruttiva dei veneziani. La sola parte chiusa è quella superiore, il piano della degenza. In questo modo, a chi arriva dalla terraferma, è lasciata aperta la vista della città retrostante, secondo una molteplicità di traiettorie visive: una transenna, una sorta di filtro tra la dimensione aperta della laguna e la complessa articolazione della trama urbana.

L'insieme, visto dall'alto, presenta lo stesso andamento ritmico di Venezia, l'armonica contrapposizione dei pieni e dei vuoti e un tessuto edilizio compatto variamente percorso, secondo una logica precisa, da calli, campi e canali.

L'Ospedale si pone come la logica estensione di questo «edificio unico», la città, e sembra svilupparla organicamente sull'acqua della laguna. Come dichiarò Le Corbusier in un'intervista:

La città di Venezia è là, e io l'ho seguita. Non ho proprio inventato niente. Io ho solo progettato un complesso ospedaliero che può nascere, vivere ed espandersi come una mano aperta: è un edificio "aperto", senza una sola facciata definitiva, in cui si può entrare dal di sotto, cioè dal di dentro, come in altri luoghi di questa città.


La forma è «aperta», non bloccata o immutabile, la sua immagine non è definitiva: non solo concettualmente ma anche da un punto di vista spaziale e organizzativo sembra possibile intervenire, modificare ed estendere questa struttura, senza per questo alterare in alcun modo il suo principio generatore e la concezione architettonica globale.

Osservando con attenzione gli schizzi e le note preliminari appare evidente che un ospedale, secondo Le Corbusier, prima di essere un organismo specializzato, un manufatto che deve rispondere a esigenze tecniche e funzionali è una «casa dell'uomo». Il problema è subito determinato – la chiave è l'uomo – considerato nella sua totalità, con la sua ragione, i suoi sentimenti, le sue necessità e le sue dimensioni fisiche: il punto di partenza sarà allora il suo alloggio all'interno di questa struttura, e cioè la stanza di degenza, la cellula. Qual è infatti la funzione primaria di un ospedale? Curare l'uomo malato: ma tutti gli uomini quando nascono sono uguali, e quindi ogni malato avrà una cellula individuale, senza distinzioni sociali, tra ricchi e poveri, variamente combinabile e aggregabile con le altre.

E in relazione a questa precisa scelta umana e figurativa, Le Corbusier individua su tre piani sovrapposti la localizzazione e la distribuzione delle attività e dei servizi medici. Non solo, ma per assicurare continuità, organicità e chiarezza a un processo architettonico che avrebbe dovuto svilupparsi nel tempo e prevedere una crescita per parti, ritiene necessario definire un sistema organizzativo complessivo, cioè una struttura logica dotata di un alto grado di mobilità interna destinata a essere la matrice costruttiva e la guida permanente e flessibile per lo sviluppo dell'organismo: propone cioè un «modello» spaziale formato da calli e campielli – le strade e le piazze veneziane – che collegano e servono unità modulari e autonome, recuperando virtualmente il tessuto storico della città e i ritmi del suo andamento distributivo.

Affermò a questo proposito:

[...] Bisogna capire l'andamento del sangue, come scorre il sangue nelle arterie e nelle vene per poter fare una "plastica", altrimenti il corpo umano respinge il corpo estraneo; si è nella circolazione vitale di questo organismo o non lo si è. Io ho riportato il modo di camminare a Venezia - calli, campielli, ponti – tutto questo modo di andare, il tempo delle percorrenze, l'ho portato dentro l'Ospedale. L'esito esterno è una conseguenza.


Appare dunque evidente che Le Corbusier mutua la sua opera dalla città e la città in un senso continua con l'Ospedale, in un rapporto reciproco e scambievole. Ma è anche chiaro che la città viene letta come un sistema «biologico», un insieme calibrato in tutte le sue parti, un organismo vivente in cui ogni elemento aggiunto deve trovare il giusto equilibrio con le condizioni preesistenti.

Non sorprende che la città di Venezia fosse sempre stata per Le Corbusier il vero modello di riferimento, il paradigma fondamentale nella formulazione delle sue proposte per il disegno della città contemporanea: le sue caratteristiche morfologiche e spaziali – dettate dalla specificità del contesto fisico e affinate dalla partecipazione dei suoi abitanti – potevano fornire i parametri e le regole per configurare nuovi interventi. Sia nei disegni e negli appunti presi durante le sue frequenti visite – la prima risale al 1907 – che negli scritti degli anni trenta vengono infatti analizzate con cura le relazioni esistenti tra gli organismi architettonici e l'articolazione del tessuto edilizio, e appare evidente che tutto si gioca sul delicato rapporto tra terra e acqua. Vale a dire la gerarchia dei tracciati urbani, le traiettorie visive, gli ambiti e i margini degli assetti planimetrici, la sequenza e la giustapposizione dei volumi, l'armonica alternanza dei materiali e dei colori impiegati, l'incidenza e la qualità della luce.

Si può affermare che proprio su questi elementi e attraverso la sapiente e poetica integrazione delle stesse coordinate verranno selezionati, molti anni dopo, i principi e i segni che daranno forma ai piani del nuovo Ospedale di Venezia: si trattava di mettere a punto una strumentazione appropriata e creare una continuità con la struttura e gli elementi spaziali della città, un sistema logico e semplice – ma che offre possibilità complesse – e introdurli nel progetto. Non a caso, in una recente intervista, Guillaume Jullian de la Fuente, il suo ultimo e più stretto collaboratore, ha affermato:

[...] Questo progetto è una specie di témoin nel quale Corbu inserisce tutti i suoi principi e le sue teorie, e lascia aperta la porta per quello che viene dopo. In questo caso la sua architettura non è soltanto la soluzione di un problema specifico, ma è un'apertura... È tutta una vita, sai, ed è curioso questo eterno ritorno ai basic problems: l'Ospedale diventa l'opera che mette in ordine tutte le cose.


Nel mese di ottobre del 1962 Le Corbusier scrisse una lunga lettera al sindaco di Venezia. È opportuno riportarla – come conclusione – non soltanto perché non è mai stata pubblicata ma soprattutto per la sequenza dei pensieri e la preziosa testimonianza che fornisce rispetto al suo atteggiamento nei confronti della città di Venezia e, più in generale, al suo approccio urbanistico. In altri termini, il suo ultimo "manifesto".


Signor Sindaco, ho ricevuto la sua lettera del 24 settembre 1962. Lei mi chiede un messaggio, nell'interesse di Venezia. Eccolo:

Forte dello studio modesto, regolare, persistente, perseverante che ho condotto sui problemi dell'urbanistica moderna; forte anche della mia natura di artista appassionato; e forte, infine, dell'ammirazione profonda che ho sempre provato per la città di Venezia, le dico quanto segue (mi permetta di essere conciso e persino brutale):

L'autorità deve dichiarare Venezia "Città sacra".

L'industrializzazione non doveva mai essere introdotta a Venezia a causa delle sue fatali conseguenze distruttrici delle cose preesistenti. Per l'industria si sta aprendo un destino diverso. Ha già vissuto la sua prima era che ha prodotto il disordine e l'annientamento di valori secolari, ma si prospetta una nuova forma di urbanizzazione specifica: la città Lineare Industriale.

L'industrializzazione italiana, o quella della regione intorno a Venezia, può trovare solo sulla terra ferma delle localizzazioni favorevoli, di tipo lineare, e così potrà dare una soluzione armoniosa al suo sviluppo.

Venezia è una città compiuta; perché, e solo per questa ragione, è stata costruita sull'acqua: è "circondata" dall'acqua.

Venezia, sul suolo, non ha "ruote" (nessuna ruota!); è il più prodigioso avvenimento urbanistico esistente sulla terra. È un miracolo.

Venezia, senza ruote, è una città dove i nervi non vengono aggrediti e dove gli aspetti più irrilevanti, riflessi dal movimento dell'acqua, diventano prestigiosi. A Venezia il cuore della gente si apre!

Ma dovete anche ricercare e trovare delle attività che siano utili per Venezia, una città unica al mondo:

Organizzate il turismo, ma un turismo "adorabile, ammirevole, umano, fraterno", per la gente semplice come per gli aristocratici e i miliardari (la gente semplice, gli aristocratici e i miliardari, hanno sempre le stesse dimensioni: gli occhi a 1,60 metri dal suolo; passano tutti attraverso porte alte 2 metri). L'attrezzatura alberghiera dei tempi moderni deve essere creata nel mondo intero e particolarmente a Venezia. Su questo aspetto potrei fornirle delle idee, dal momento che sono un viaggiatore impenitente da oltre cinquantacinque anni, in tutti i continenti e in tutte le circostanze.

Fate di Venezia un centro di riunioni multiple: convegni di ogni genere, nazionali o mondiali, congressi, ecc. Fate discutere l'avvenire del mondo a Venezia, città armoniosa.

Create dei luoghi capaci di ricevere e riunire le persone che vengono da lontano per parlare, convincere, battersi o combattersi se necessario. E queste persone di grande valore morale o tecnico sono sia poveri che ricchi, o meglio, in genere più poveri che ricchi.

Non avete il diritto di alterare il "profilo" di Venezia. Non avete il diritto di aprire la porta al disordine architettonico e urbanistico. I campanili di Venezia, le cupole di San Marco e delle altre chiese, costituiscono l'espressione gerarchica della città.

In linea di massima, i poveri hanno la stessa necessità dei ricchi per quanto riguarda l'altezza dei soffitti. Venezia, così mirabile per la sua "scala umana", è altrettanto ammirevole da percorrere lungo i suoi quartieri modesti che la Venezia dei palazzi di marmo. Lì voi avete un tesoro alla scala umana che sarebbe atrocemente criminale trasgredire, saccheggiare! E viene fatto così in fretta!

Datevi dei regolamenti precisi su queste coordinate biologiche dell'architettura: "illuminare", "aereare", "ventilare".

E dovete anche liberarvi dalle zanzare. (Io ho ottenuto questi risultati in situazioni climatiche molto difficili).

Quello che dovete ricostruire, realizzatelo con una architettura che sia la più moderna possibile. Fate stabilire per le facciate degli edifici, da chi ne ha la capacità, degli standard per l'illuminazione e l'aerazione. Impiegate il cemento armato e non cercate di copiare i mattoni fatti a mano della vecchia Venezia. Voi potete mettere al mondo i fratelli e le sorelle di Palazzo Ducale e delle Procuratie, gli eredi della famiglia illustre di Venezia: dei luoghi e degli spazi (dei "vasi" che accolgano delle funzioni o degli esseri viventi).

E qui, mi permetta una citazione personale. Io ho creato il "Modulor", su cui Einstein ha scritto queste parole: "Rende facile il bene e difficile il male". Altri hanno scritto che io ho aggiunto nel dominio delle proporzioni, ai tredici elementi della "Divina Proportione" di Luca Paioli, un "quattordicesimo effetto" (che e quello dello spazio "indicibile"): il rapporto tra le misure e l'altezza umana. Io ho messo l'uomo nel centro del dramma...

(Il Modulor non solo è gratuito, ma di dominio pubblico).

Signor Sindaco, potrei scriverle più a lungo, ma io sono angosciato nel pensare che Venezia potrebbe, a causa dell'invasione della dismisura, divenire un'atroce palude simile a tutte le città dell'America del Nord, dell'America del Sud e, adesso, dell'Europa. Si, è vero, io ho creato dei grattacieli alti 220 metri, ma li ho localizzati come si doveva. Non uccidete Venezia, ve ne supplico.

Accetti, Signor Sindaco, i miei sentimenti di rispettosa simpatia.

Le Corbusier

P.S. Come le ho detto, l'opera d'arte è un atto individuale, è nella natura dell'uomo essere un individuo. Lei non riuscirà a eliminare questo dallo statuto che ci è concesso su questa terra. L'arte non tollera né i compromessi, né gli arrangiamenti... Ma gli individui costituiscono la collettività. Il binomio ineluttabile è: "individuo"-"collettività". E l'architettura e l'urbanistica lo risolvono in favore dell'armonia.

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