Copertina
Autore Paolo Petrocelli
Titolo Il mandolino del Professor Pietro Celli
SottotitoloUna analisi politicamente scorretta della scuola riformata
EdizioneArmando, Roma, 2007, Scaffale aperto , pag. 80, cop.fle., dim. 13,5x21,4x0,7 cm , Isbn 978-88-6081-167-7
LettoreLuca Vita, 2008
Classe scuola
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Indice


Prefazione: Primo venne D'Onofrio                        9

1. Fannulloni fanatici                                  15

2. Abbassare il livello                                 19

3. Mal di scuola                                        29

4. Mamme in cattedra                                    37

5. Kultur                                               43

6. Le teste ben fatte                                   51

7. Un po' dono, un po' passione                         57

8. Vestali per sempre?                                  67

Conclusione: Libera, colta, partecipata                 73


 

 

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Pagina 9

Prefazione

Primo venne D'Onofrio


Primo venne D'Onofrio, ministro democristiano, a cominciare la stagione dei riformatori: agli inizi degli anni '90 decide di abolire gli esami di riparazione a settembre, giudicati inutili e lesivi del sano divertimento estivo dell'alunno. Ricordo le mie perplessità, di docente ancora giovane e fiducioso, di fronte alle sue dichiarazioni ostili verso quella che definiva "lobby" degli insegnanti, a suo dire tutta intenta a lucrare con il mercato delle ripetizioni. Non sospettavo esistesse una lobby di miei colleghi, più tardi l'ho cercata, e anche invocata, come forza che potesse opporsi a ciò che si stava preparando: invano, inutile dirlo.

La mia perplessità aumentò quando dovetti sperimentare cosa si andava sostituendo agli esami aboliti: praticamente, il nulla. "Falso!", obietterebbe l'ex ministro, nel frattempo dirottato (senza grossi rimpianti da parte della scuola) verso altri incarichi, "Falso! Gli esami sono stati sostituiti dai Corsi di recupero!". Ricordo ancora la mia smorfia, quando fui informato dalla segreteria che all'unico ragazzo che avevo rimandato toccavano, visti i fondi stanziati, tre (3) ore in tutto di recupero, nonché che sarebbe stato comunque "promosso", indipendentemente dalla frequenza e dall'impegno dimostrato. Andò a finire che si fece vedere una sola volta, fu tranquillamente ammesso alla classe successiva e si fece un'idea della serietà dell'istituzione scolastica che tutti possiamo facilmente indovinare.

Non voglio qui dilungarmi su come poi tali "corsi" sono stati modificati negli anni, basti dire che l'esiguo numero di ore, l'incidenza irrilevante sulla preparazione, lo scarso peso ai fini della valutazione finale sono rimasti un dato costante.

Poi toccò alla diade Berlinguer-Moratti, alla stagione della cosiddetta autonomia, inventata dal primo, consolidata, con l'aggiunta di varie razionalizzazioni (leggi: tagli) dalla seconda. La "scuola dell'autonomia", come da allora si amò definire, non era mai stata tanto dipendente: da finanziamenti, che arrivavano sempre più scarsi, e che erano indispensabili per un'"offerta formativa" che doveva essere sempre la più ampia, dalla concorrenza con altri istituti, dal "mercato degli studenti" (espressione sempre più in uso nelle riunioni collegiali), dall'improvvisa managerialità dei presidi, ora "dirigenti", dal mito dell'efficacia-efficienza, da quella suprema entità che diventò il territorio e dalle sue spesso bizzarre attività culturali, che si dovevano tutte inseguire, tutte le volte adeguandosi.

È in questo clima che la componente moralista, sempre ben rappresentata nella scuola, rafforza e cerca di imporre l'idea che l'impegno dell'insegnante debba essere a tutto tondo. Non basta più insegnare bene una o più discipline, interessandosi allo studente come persona e ponendosi, per quanto possibile, come interlocutore positivo: occorre "farsi carico" (come si comincia a dire, con una buona dose di autocompiacimento) di ogni possibile problema adolescenziale, di pesanti situazioni familiari, di "malesseri" i più disparati. Come ciò fosse possibile, in classi sempre più numerose e con insegnanti che, alle superiori, dovevano vedersela anche con più di cento ragazzi, fu considerato dettaglio trascurabile: d'altra parte, spesso il moralismo ama scegliere il velleitarismo come suo compagno prediletto.

Il connubio più devastante, però, fu quello tra moralismo ed ideologia dell'organizzazione: tutto pareva potersi magicamente risolvere smontando e rimontando classi, spostando e ridistribuendo ore, accorpando istituti, "spalmando" orari di malcapitati professori anche su tre diverse scuole. Insomma, se qualcosa non funzionava, era certamente per un difetto nell'organizzazione: ecco la verità, sempre più somigliante al dogma, del novello riformatore.

Di più: la nuova organizzazione era pensata per un insegnante che doveva cambiare pelle: conoscenza della propria materia, preparazione pedagogica, sensibilità ed esperienza didattica divennero archeologia, secondo qualcuno persino deleterie, perché potevano fornire argomenti per resistere al nuovo che avanzava.

Coerentemente, gli aggiornamenti di approfondimento culturale o di didattica tendettero a scomparire, il dirigente-manager cessò di occuparsi di tale vecchiume e si diede (talvolta, va detto, anche obtorto collo) a frequentare stage sui temi dell'organizzazione, della razionalizzazione, dell'ottimizzazione delle risorse, specialmente di quelle "umane", disponendo la scuola di poco altro. I suoi collaboratori, che, con un provvedimento di carattere antidemocratico, figlio della legge sull'autonomia, ora egli stesso poteva scegliersi, quando prima erano eletti dal collegio dei docenti, i collaboratori del dirigente, dicevo, che andarono a formare quello che pomposamente cominciò a chiamarsi "staff", erano di preferenza scelti tra gli insegnanti giovani, meno legati alla tradizione, ma anche all'idea di una scuola in grado di educare.

Già, perché le cose andarono nell'unico modo in cui potevano andare: la tanto sbandierata centralità dello studente sfociò nella sua trasformazione in "cliente", che occorreva sostanzialmente intrattenere, poi, se si riusciva, istruire: quanto al proposito di educarlo, ben presto se ne persero le tracce. La scuola doveva essere sempre aperta, occorreva proporre di tutto, e questo tutto non bastava mai.

Lo aveva capito molto bene il preside (di lì a poco si sarebbe chiamato "dirigente") XYX: «Colleghi! — ci disse una volta ad un Collegio docenti — Qui sta cambiando tutto! Dobbiamo abituarci a pensare in modo diverso, a far scuola in modo diverso! Dobbiamo valorizzare altre cose! Altro che la didattica! Che so, se qualcuno di voi sa suonare il mandolino, lo porti a scuola!», discorso che, oltre all'origine meridionale e alla passione per la musica popolare, mostrava che il preside aveva letto e meditato, probabilmente in modo sofferto, le avanguardie di quello sterminato esercito di decreti, ordinanze, circolari che avrebbero regolamentato la "grande riforma".


Fu allora, in quel clima di disillusione, che venne "Prof". In quel libretto, un prof (senza puntino, a testimonianza della crescente perdita di prestigio sociale della categoria), il prof Pietro Celli, osservava con occhio disincantato manie, stanche ritualità, frustrazioni, ma anche le speranze (ricordo ad esempio che uno degli ultimi paragrafi era la trascrizione di un sogno) di una classe docente disorientata dai primi provvedimenti di un rinnovamento che poco assomigliava a quello tanto atteso.

Si trattò per me, nonostante la brevità dello scritto, di un parto lungo e faticoso, ma che segnò un periodo intenso intellettualmente ed emotivamente. E, se è vero il detto orientale secondo il quale solo quando si è davvero pronti si può incontrare un autentico maestro, ebbene io lo, o meglio la, incontrai. Fu Elisabetta Fiorentini, ex insegnante e preside, autrice di numerosi interventi giornalistici sui problemi della scuola e di alcuni libri a mio parere tuttora fondamentali per far conoscere la condizione degli insegnanti, la svalutazione sociale del loro lavoro, la loro crisi di identità che si ripercuote sull'istituzione scolastica stessa.

Devo molto a questa donna, che purtroppo ebbi modo di incontrare solo poche volte, a causa della sua prematura scomparsa: molte sue idee mi hanno a lungo guidato e, direi quasi, accompagnato per mano. Già nei primi anni '90, ad esempio, aveva messo a fuoco uno dei nodi nevralgici della scuola, ancora oggi tutt'altro che sciolto, allorché denunciava, nei nostri adolescenti, la «mancanza di un'educazione culturale che dia senso al loro andare scolastico ed esistenziale». Si tratta di parole che vecchi e nuovi riformatori dovrebbero essere obbligati a mandare a memoria.


Ricordo che dedicai "Prof" "agli insegnanti che resistono e a quelli stanchi di resistere". Da allora, questi ultimi, credo, sono considerevolmente aumentati, è aumentato il loro disagio, la loro percezione della crisi. Quello che soprattutto li caratterizza è la passività, la rinuncia ad interagire con chi dirige le scuole e con chi stabilisce ed orienta il cambiamento. E in particolare questo che non riesco ad accettare, che mi fa più male.

Le pagine che seguono non intendono essere allora una difesa d'ufficio degli insegnanti. Certo, credo sinceramente che la gran parte di loro lavori in condizioni oggettivamente difficili con disponibilità e generosità. Detto questo, mi piacerebbe che fossero (che fossimo, il discorso riguarda anche chi scrive) un po' diversi.

Per esempio, meno condizionati e condizionabili dall'immagine esterna dell'istituto in cui insegniamo, dai giudizi di genitori e dirigenti, dalle pressioni dei potentati locali. Soprattutto, che trovassimo il tempo (potremmo ricavarlo da una sana autoriduzione dei tanti adempimenti burocratici) per riflettere sul nostro lavoro, confrontarci, vagliare con attenzione l'utilità e le conseguenze di certi cambiamenti.

Significherebbe valorizzare e potenziare la nostra capacità propositiva e probabilmente anche imparare a dire qualche no.

Somiglierebbero, questi no, a quelli che il genitore deve talora riservare al proprio figlio: allo stesso modo, infatti, aiuterebbero (sicuramente noi insegnanti e molti studenti, forse anche qualche dirigente) a crescere.

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Pagina 15

1. Fannulloni fanatici


Oggi come oggi gli insegnanti sono lo stuoino preferito dei politici. A sentire gente come Chester Finn, l'ex Vicesegretario all'Educazione nell'amministrazione di Bush il Vecchio, verrebbe da pensare che tutti i guai della nostra società siano da ricondurre a quella manica di pigri, lassisti e incompetenti degli insegnanti. «Se stilate una lista dei Dieci Più Ricercati tra chi sta uccidendo l'educazione americana, non sono sicuro di chi mettereste in testa alla lista: il sindacato insegnanti o il corpo dei professori» ha detto Finn.

Certo, ci sono un sacco di insegnanti che fanno schifo e che farebbero meglio a dedicarsi alle chiamate telefoniche di telemarketing per la "Amway". Ma nella stragrande maggioranza sono educatori votati al loro compito, che hanno scelto una professione che frutta loro meno di quanto non tirino su alcuni dei loro studenti spacciando ecstasy, e di fronte a questo spirito di sacrificio noi vogliamo punirli. Non so voi, ma io voglio che le persone che hanno la piena attenzione di mio figlio per un maggior numero di ore delle mie siano trattate con grande e partecipe cura. Sono i miei bambini quelli che stanno "preparando" ad affrontare il mondo, e allora perché cavolo dovrei sentirmi in animo di romper loro le scatole?

Ci sarebbe da aspettarsi che l'atteggiamento della società fosse questo: cari insegnanti, grazie moltissimo per il fatto di dedicare la vostra vita a mia figlia. C'è QUALCOSA che posso fare per aiutarvi? C'è QUALCOSA di cui avete bisogno? Eccomi a vostra disposizione. Perché? Perché state aiutando mia figlia - LA MIA BAMBINA - a imparare e a crescere. Non solo sarete in larga misura responsabili della sua capacità di guadagnarsi da vivere, ma la vostra influenza avrà un peso decisivo sul modo in cui vedrà il mondo, sulle cose che saprà sulle altre persone di questo mondo, su come si sentirà di essere. Voglio che sia convinta di poter tentare qualsiasi cosa – che non ci sono porte chiuse né sogni irraggiungibili.

Vi affido la persona più importante della mia vita per sette ore al giorno. Per questo motivo, siete tra le persone più importanti della mia vita! Grazie.

No, invece ecco cosa si sentono dire gli insegnanti:

«C'è da diffidare di quegli insegnanti che proclamano di mettere l'interesse dei bambini al primo posto – per poi cercare di mungere a fondo il sistema a colpi di aumenti di stipendio» ("New York Post", 26/12/2000).

«Secondo una stima il numero dei maestri insufficienti ammonta a una cifra compresa tra il 5 e il 18 per cento dei 2,6 milioni totali» (M. Chapman, "Investor's Business Daily", 21-9-1998).

«La maggioranza dei professionisti dell'educazione appartiene a una comunità di fanatici... che seguono filosofie popolari invece di seguire le ricerche su quello che funziona e quello che non funziona» (D. Carminen, citato nella "Montreal Gazette", 6/1/2001).

M. Moore, Stupid white men


Qualche tempo fa, un collega insegnante mi raccontò questo aneddoto familiare: suo padre, di professione agricoltore, continuamente gli chiedeva di aiutarlo, la domenica, nella raccolta della frutta ed in altre attività campestri.

Alle sue rimostranze, volte a fargli notare come, dopo un'intera settimana di lavoro, avrebbe desiderato riposare, era solito così rispondere: "È tuo fratello che lavora, tu insegni".

Con la semplicità dell'uomo dei campi, il genitore esprimeva un antico pregiudizio, talmente radicato che molti della mia generazione lo hanno potuto ritenere indistruttibile: il mito dell'insegnante-fannullone, che osa per di più lamentarsi del suo stipendio (il quale, è ovvio, per quanto magro, è sempre superiore a quanto si meriterebbe).

Quel che è peggio, esistevano (esistono?) docenti che interiorizzavano tale stereotipo e se ne sentivano talmente colpevolizzati da non riuscire nemmeno a replicare. Così, quando ad una domanda, tipo: "Anche tu insegni?", veniva loro risposto, con disarmante candore: "No, io lavoro", rinunciavano a far valere le loro ragioni': mestamente, tacevano o portavano altrove la conversazione.


Ma qualcun altro, ed io tra questi, reagiva con rabbia, non sempre dissimulata, verso il barbiere che chiedeva sorridendo: "Anche oggi pomeriggio a casa?", o il giornalaio ammiccante che sentenziava: "Beato lei, a metà giugno, già in vacanza", quando magari stavi preparandoti ad entrare a far parte della commissione dell'esame di stato. Possibile, ci dicevamo, che non capiscano, possibile che sia così difficile comprendere che le fantomatiche "18 ore di cattedra" sono solo una parte del nostro lavoro, che sono la punta dell'iceberg?

Era possibile, non capivano.

E, proprio come loro, non capivano neppure giornalisti, politici, osservatori sociali che non vedevano (non volevano vedere?, fingevano di non vedere?) la nostra fatica.

Forse oggi le cose sono in parte cambiate, mi pare di notare sui giornali, nei pubblici dibattiti, ecc. qualche segnale positivo, vale a dire di verità.

Ma vedo che ancora, per tanti, gli insegnanti "pigri, lassisti, incompetenti" costituiscono un ottimo alibi, quantomeno una facile semplificazione, per non affrontare veramente i problemi. Fanno comodo per giustificare, nel grande, riforme che non migliorano, razionalizzazioni che sono coperture di tagli e, nel piccolo, difficoltà e insuccessi dovuti a situazioni che spesso non hanno affatto la loro radice nella scuola.

Meglio, insomma, prendersela con gli insegnanti: ci si risparmia quantomeno la fatica di analisi approfondite. Allora, proprio come nell'America di Moore, si parla di docenti che "fanno schifo" e quasi mai della "stragrande maggioranza" di "educatori votati al loro compito". Un "capro espiatorio facile", ha scritto Norberto Bottani, estremamente utile per "diluire le responsabilità politiche sull'andamento della scuola"?

Di più: proprio come afferma Douglas Carminen, citato dallo stesso Moore, pare che questi fannulloni siano spesso anche fanatici. Lungi dall'accontentarsi delle scientifiche "ricerche su quello che funziona e quello che non funziona", si abbandonano infatti alla bizzarra teoria secondo cui la scuola deve fare cultura, o perlomeno diffonderla. Da buoni dogmatici, non vogliono guardarsi attorno, e così neppure vedono (ma forse fanno finta di non vedere) che «[...] è quasi ovunque un persistente interrogarsi, un canto e un controcanto, su a che cosa serva studiare questa o quella materia, questo o quell'argomento».

Insomma, quella cultura di cui si riempiono la bocca, a che cosa serve?

Fanatici fino in fondo: se finiscono per affidarsi alle analisi dell'esperto, alla programmazione del politico, alle direttive del dirigente, quasi mai lo fanno per intima convinzione.

Molto più spesso si tratta di una resa dovuta a sfinimento psicofisico: da quel momento si trascineranno, sempre più stancamente, nell'attesa della pensione.

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5. Kultur


«[... ] l'individuo diventa insicuro, sgomento, non ha più la forza di avere fiducia in sé: sprofonda in se stesso, nella propria interiorità e cioè nell'oscuro abisso delle nozioni incapace di agire esteriormente, dell'erudizione che non si trasforma in vita [...]

L'uomo moderno, insomma, si trascina dietro una quantità enorme di sapere non assimilato, che, all'occasione, gli rumoreggia regolarmente nello stomaco [...]

La nostra cultura moderna non è vivente [...] Non è affatto una cultura, bensì una specie di conoscenza di ciò che è la cultura».

Friedrich Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita

Nietzsche, Considerazioni inattuali, n. 2


FEDRO: [...] Lo saprai se hai tempo di accompagnarmi un po' e di ascoltare.

SOCRATE: Ne dubiti? Non ti sembro il tipo [...] capace di preferire ad ogni occupazione l'ascolto?

Platone, Fedro


La scuola deve fare cultura, o almeno favorirne la diffusione: questa affermazione, evidente e scontata fino a qualche anno fa, oggi lo è molto meno.

È diventato, ad esempio, difficile definire esattamente cosa sia questa "cultura della scuola". A me, per dire, riesce molto più facile farlo in negativo.

Penso allora a qualcosa che non ha niente da spartire con un sapere erudito, "preso [...] senza fame, anzi contro il bisogno", per dirla con le parole di Nietzsche, foriero solo di confusione interiore. Così come la immagino assai lontana da quel nozionismo che condivide con l'erudizione la caratteristica fondante, cioè l'esteriorità, la lontananza dalla vita concreta. Neppure penso a conoscenze che, per così dire, passino sopra la testa dei ragazzi, ponendosi come qualcosa di troppo alto e irraggiungibile, buone (forse) per altri e in altri tempi.

Confusione interiore, lontananza dalla propria vita, sostanziale estraneità a ciò che si studia sembrano invece, oggi, inseparabili compagni di viaggio degli studenti. Quanto al nozionismo, che ne funge da tessuto connettivo, lo vedo ben presente tra i banchi, nonostante le tante battaglie e polemiche, a partire dagli anni '70.

Per evitare un possibile equivoco, voglio precisare che non critico affatto il possesso di nozioni, che sono anzi il veicolo indispensabile di ogni processo culturale, bensì la consuetudine di imparare fatti e concetti slegati, senza un nesso che li unifichi, né una motivazione che vada oltre la ricerca del bel voto o della semplice, mitica "sufficienza". Vedo qui gravi responsabilità del processo riformatore: quando, ad esempio, si modifica l'esame di stato introducendo una "terza prova" che può riguardare tutte le discipline studiate, quindi una notevole mole di conoscenze, e che spesso consiste in sintesi di 5 righe o addirittura in crocette, è difficile evitare di pensare che si miri ad apprendimenti "formato Bignami", se non alla semplice memorizzazione.

In ogni caso, la scuola del puntuale accertamento del possesso della singola nozione è francamente insopportabile, e non solo per gli studenti: le sue verifiche, da effettuarsi in "congruo numero" sono, da un lato, come ben sanno tutti i prof, sempre più difficili da portare a termine, per le forme di resistenza, le più svariate, messe in atto dagli studenti, dall'altro sono caratterizzate da modalità ormai molto vicine alla soglia della banalità: interrogazioni prenotate, compiti concordati, ecc. producono insoddisfazione generalizzata fra insegnanti e, ne sono certo, anche studenti.

Credo che la scuola debba andare da tutt'altra parte.

Certamente, non l'aiuta a cambiare direzione quella idea di efficienza (ma meglio dovremmo dire "efficientismo"), che, mutuata dal mondo aziendale e trapiantata tout court tra i banchi di scuola, è stata foriera di fraintendimenti, equivoci, danni anche gravi.

Non si intende qui discutere la validità dei suoi fondamenti (rintracciabili in competizione, velocità, quantificazione) nell'ambito dell'economia e dell'impresa; certo è che, applicati alla scuola, sono stati deleteri.

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Pagina 47

Resta, a completare il quadro, l'idea, potremmo chiamarla economicista, di considerare compito primario della scuola quello di preparare al lavoro. È una tendenza oggi in forte aumento, in particolare in alcune tipologie di istituti.

Se però non vuole rinunciare a fare cultura, la scuola, aprendosi al mondo del lavoro (e io penso debba farlo nella sua interezza, non limitandosi cioè, per essere chiari, a istituti tecnici e professionali), non deve accontentarsi del semplice addestramento, cioè della mera acquisizione di competenze ("spendibili", le chiama l'orrido linguaggio della nuova pedagogia). Il suo specifico è, e non può che continuare ad essere, la riflessione su esperienze formative signifive: ben vengano, dunque, quelle sui luoghi di lavoro, ma che lo siano, significative, e, soprattutto, che non siano fini a se stesse.

Per essere ancora più chiaro: mi pare che oggi, nei numerosi istituti che mettono in atto progetti di alternanza scuola-lavoro o cosiddetti "percorsi integrati" prevalga la logica di imparare cose (pratiche, comportamenti) che serviranno poi per lavorare.

A parte la ovvia considerazione che la velocità dell'innovazione tecnologica renderà ben presto obsolete tali acquisizioni, pare che ad essere sacrificata, talora nemmeno considerata, sia l'analisi delle problematiche di questo primo approccio al lavoro, il confronto con i coetanei, con i responsabili, con gli insegnanti, il collegamento con i saperi, anche quelli di tipo più teorico-astratto, già sedimentati.

Senza tutte queste operazioni, non si ha reale processo di crescita: l'esperienza/lavoro rischia di ridursi, per la scuola, ad occasione per darsi una patina di apertura verso l'esterno, per lo studente in una pura perdita di tempo, sottratta alla sua personale formazione. Va ribadito: è la scuola che deve tenere le fila; le esperienze lavorative vanno inserite in un progetto educativo armonico, di cui essa è la responsabile prima: ecco perché pensare di sostituire in modo rilevante o addirittura integralmente il tempo-scuola con esperienze di tipo lavorativo appare una scelta pedagogicamente inaccettabile. Tanto più per quei ragazzi deprivati, demotivati, a forte rischio di dispersione scolastica: occorrerebbe dare loro più opportunità di cultura (no di erudizione, né di sapere astratto e formale, né semplici nozioni): gliene viene offerta invece sempre meno, annacquata in tanto addestramento professionale.

È davvero fuori dalla realtà cercare di invertire tale tendenza?

Non la pensava così una legge del lontano 1969 che, mentre istituiva, presso gli istituti professionali di stato, dei "corsi speciali tesi ad accentuare la componente culturale", almeno nel primo biennio, li affidava «a personale fornito di particolare specifica preparazione culturale e di esperienza didattica».

Una legge talmente illuminata da restare lettera morta, almeno per quanto riguarda i provvedimenti relativi agli insegnanti: nessuno si è mai preoccupato, infatti, di favorire l'accesso ai corsi di quelli più preparati. Neppure l'ampio partito trasversale di coloro che, negli anni successivi, faranno della differenziazione, anche salariale, tra i docenti, la propria bandiera, avanzerà mai uno straccio di proposta per valorizzare o incentivare quei docenti che avessero voluto provarci.

Ma tant'è: forse in molti, ivi compreso qualche futuro riformatore della scuola, già da allora pensavano, non diversamente dall'immaginario professore descritto da Domenico Starnone, che "c'è chi è nato per studiare e chi per zappare'.

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Pagina 73

La vorremmo così, io e tanti miei colleghi: libera, colta, partecipata, non possiamo immaginarcela che così, la scuola in cui ci piacerebbe lavorare, quella che abbiamo pensato (pensiamo ancora?) di poter contribuire a costruire, se solo ci lasciassero lo spazio e le energie.

Libera dalle pretese dell'economia e dalla nuova mitologia del "territorio", dai linguaggi burocratico-aziendali che non parlano di persone ma di organizzazione, dal riformismo astratto di chi non trova né il tempo, né l'umiltà di ascoltare.

Colta, perché la cultura, che è qualcosa di diverso sia dall'erudizione fine a se stessa, sia dallo spicciolo nozionismo, serve alla vita, la riempie, la orienta e le dà senso, le insegna a convivere con il dubbio, la contraddizione, l'errore.

E poi, partecipata. Perché riconosce come suo elemento essenziale il coinvolgimento di insegnanti e studenti all'interno di relazioni umane fondate sulla dimensione del dono, sul piacere di trasmettere e di ricevere qualcosa di importante; perché si fonda sulla simpatia nel senso originario di condividere emozioni, accettando la fatica di crescere, di imparare, di spendersi in prima persona.

Ma partecipata anche perché insegnanti, studenti e in questo caso anche genitori, sono chiamati, ciascuno all'interno di ambiti da precisare con chiarezza, a costruirla, la nuova scuola. Non mi riferisco solo all'impegno all'interno degli Organi Collegiali, che, rimasti praticamente inalterati dalla loro introduzione, nel 1974, hanno sicuramente bisogno di modifiche sostanziali.

Penso a qualcosa di molto più ambizioso.

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