Copertina
Autore Adriano Petta
CoautoreAntonino Colavito
Titolo Ipazia
SottotitoloVita e sogni di una scienziata del IV secolo
EdizioneLa Lepre, Roma, 2009 , pag. 340, dim. 135x210x23 mm , Isbn 978-88-96052-13-6
PrefazioneMargherita Hack
LettorePiergiorgio Siena, 2010
Classe narrativa italiana , storia antica , biografie
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Indice


  9 Prefazione
    di Margherita Hack

 13 Un raccontare senza pietà di Adriano Petta

 17 Nube fremente di atomi di Antonino Colavito


    Parte prima - La vita
    di Adriano Petta

 25 La Biblioteca e il Serapeo
    Alessandria d'Egitto, 1° luglio 391 d.C., p. 25
    - 2 luglio, p. 33
    - 3 luglio, p. 51
    - 4 luglio, p. 61
    - 11 agosto, p. 71
    - 12 agosto, p. 78
    - 13 agosto, p. 88
    - 13 agosto, p. 96
    - 21 agosto, p. 106.

121 Il Centro Studi in via del Sole
    - 15 novembre 392 d.C., p. 121
    - 23 luglio 393, p. 132
    - 15 dicembre 393, p. 147
    - 21 settembre 394, p. 164
    - 19 marzo 399, p. 179.

193 La cupola nera del Cesareo
    - 11 dicembre 414 d.C., p. 193
    - 25 gennaio 415, p. 208
    - lunedì 8 marzo 415, p. 222.

239 Conclusione degli accadimenti e risonanza nei tempi


    Parte seconda - I sogni
    di Antonino Colavito

245 Sull'avventura della coscienza
251 Sull'atomo
261 Sulla materia, sul moto, sulla forza cosmica
271 Sulla luce, sul tempo
283 Sugli oracoli, sul logos, sulle innumeri possibilità
291 Sulle immagini, sulla polis, sul divino auriga
303 Sulla gravita e sulla trasformazione
309 Intermezzo
317 Sul messaggio, sul suono, sull'artista
327 Ultimo sogno. Ma io sono in cammino
331 Opere delle quali si è fatto uso


 

 

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Pagina 53

L'aula grande del Centro Studi è una parte dell'ala destra della Biblioteca, ovvero del portico sotto il tempio di Serapide. È un insieme di banchi di legno scuro sistemati a diversa altezza, in forma semicircolare. Ha l'aspetto d'un piccolo teatro, e al posto della scena due grandi tavoli di marmo bianco, dietro ai quali è fissata alla parete un'enorme lavagna nera; in alto, scolpito su una lastra di marmo adornata con girali di acanto, a caratteri cubitali, il pensiero di Aristotele: «Tutti gli uomini aspirano per natura al Sapere».

Potrebbe contenere una cinquantina di studenti, ma adesso sono soltanto nove... e due sono ragazze! Ipazia, dopo avermi fatto conoscere uno per uno i miei futuri compagni di studi, ha voluto che sedessi in mezzo a loro. Penso che siano tutti poco più grandi di me, tranne — forse — una delle ragazze, Valeria, che sembra molto giovane.

Teone, dopo un breve discorso introduttivo teso a riassumere il significato di epistemologia, cede la parola alla figlia, mentre sulla sua faccia paffuta svaniscono le tracce d'una tensione interiore che cede il posto a una chiara soddisfazione. E mentre Ipazia parla, lui la segue attentamente, modellando con le labbra le parole che lei va scandendo, a volte precedendola.

«Sulla lavagna disegnerò uno schema che farà da riepilogo alle lezioni precedenti e in cui fisseremo alcune delle principali differenze tra le concezioni di Aristotele e Democrito, per poterle poi commentare con il vostro contributo. Dunque, sulla prima colonna scrivo "Un solo mondo..." sulla seconda, quella di Democrito, che devo scrivere?» e si gira, frugando tra gli allievi con i suoi occhi luminosi.

Un giovane che siede accanto a me, Nicandro, risponde: «Più mondi possibili».

«Puoi chiarire il concetto di Democrito, con poche parole?».

«Gli atomi che, come ci hai spiegato, vogliono dire "indivisibile", muovendosi nel vuoto, incontrandosi e scontrandosi, aggregandosi e disgregandosi in una vibrazione o pulsazione eterna, generano mondi infiniti».

«Puoi completare tu, Valeria, questo concetto?».

La ragazza continua l'esposizione di Nicandro: «Quando gli atomi si muovono nel vuoto, creano dei vortici, e questi vortici generano dei mondi, infinitamente vari e diversi tra di loro. Questi mondi — composti di vuoto e atomi — sono destinati a scindersi e distruggersi».

«E quindi, cosa potremmo scrivere per riassumere?».

«Per esempio, parlando del vuoto, potremmo scrivere che per Aristotele è impossibile questo concetto, mentre per Democrito il vuoto è indispensabile».

«D'accordo, scriviamolo dunque...» e con il gesso completa il rigo sulla lavagna.

Nel breve trascorrere di due clessidre, coinvolgendo quasi tutti gli allievi, Ipazia riempie le due colonne. Poi depone il gesso sul bordo superiore della lavagna, si sfrega la punta delle dita e ci fissa con uno strano sguardo di sfida: «Guardiamo bene la tabella. Un ottimo lavoro riassuntivo che ci è servito a configurare due visioni alternative e conflittuali non solo della scienza, ma del mondo, della vita in generale... e della nostra vita. Infine, e non poteva essere altrimenti, abbiamo appena accennato e scritto nella casella di Aristotele "Esistenza di un livello soprannaturale" e in quella di Democrito, "Autosufficienza della natura". E qui potremmo cominciare una discussione che non avrebbe mai fine. Ma oggi ci siamo riuniti per affrontare una lezione di epistemologia, un... discorso intorno alla scienza e ai metodi usati dagli uomini di scienza» e sorridendo nella direzione di Valeria e di Ottavia «...e dalle donne di scienza, visto che qui siamo ben rappresentate, per accertare la validità delle nostre affermazioni. Nonostante le difficoltà in cui operiamo, malgrado siamo costretti a non studiare sui testi originali di questi grandi scienziati, di cui ci sono pervenuti solo dei frammenti o dei commenti, o dei commenti ai frammenti. E ora non torno a ripetervi del povero Giulio Cesare che incendiò la biblioteca madre, altrimenti la sua anima un giorno viene a turbarci il sonno! Ebbene, nonostante tutto siamo riusciti a concludere questo corso. Ma non siamo stati capaci di dare vita a qualche concetto originale, completamente nostro: noi non abbiamo aggiunto un solo elemento al sapere antico».

Mentre parla, Ipazia sembra trasformarsi. Dal finestrone in alto piove l'oro del sole che la inonda. I capelli sono legati a coda di cavallo da un fiocco rosso, tiene le mani racchiuse a pugno come se dentro nascondesse un segreto, è piccola di statura eppure è una figura grandiosa. «Noi siamo dei piccoli mondi, forse gli unici capaci di scavare nella nostra natura, nella nostra identità. Siamo dei piccoli soli che studiano e investigano sul come e sul perché bruciano ed emettono luce. Io devo molto a mio padre, così come noi tutti dobbiamo molto a tutti gli uomini di scienza che ci hanno preceduto. Siamo in pochi, è vero. Il resto del mondo in questo momento sta facendo la guerra, sta lavorando, si sta riproducendo, sta viaggiando, sta uccidendo, sta amando, sta soffrendo ed esultando. E questo da migliala di anni. Il perché, poi, solo pochissime creature si dedicano allo studio e all'indagine, non lo possiamo sapere. Ma una cosa è certa: il nostro intuito ci spinge a comprendere la realtà. È una fiamma che s'è accesa dentro di noi, nella nostra mente, nel più nobile dei nostri organi: qui c'è un motore tenuto in vita dal nostro desiderio di conoscenza... Questo motore, disse Protagora, è la misura di tutte le cose».

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Pagina 106

21 AGOSTO 391


È notte fonda, il cielo stellato brilla d'un misterioso incanto. Mentre l'instancabile cavallo tira il carro e io abbandono l'isola di Pharos per affrontare l'istmo dell'Eptastadio, spira una brezza delicata, ristoratrice. Mi sento distrutto dalla stanchezza, è oltre una settimana che dormo solo due-tre ore al giorno. Quando ho raggiunto metà istmo, il fiotto di luce del Faro lumeggia un cavaliere che avanza verso di me. Ci riconosciamo solo all'ultimo momento, blocchiamo i cavalli, lui torna un po' indietro. L'alta figura è coperta da un mantello chiaro, gli occhi mi cercano con apprensione, il volto è scavato.

«Olimpio! Ch'è successo? Dove stai andando?».

«Fuggo, Shalim! Ho appena rifatto il sogno d'un anno fa: questa non è coincidenza...! Devo spezzare la catena che collega il mondo dell'ignoto al Serapeo! E l'anello di congiunzione sono io... io...». È un tono intriso di disperazione.

«Ma la situazione negli ultimi giorni è migliorata, non s'è sentito parlare di altri disordini. Si sta aspettando la risposta dell'imperatore in uno stato di relativa tranquillità». Cerco di essere più convincente possibile, perché il sacerdote è in uno stato pietoso.

«Non è così, Shalim, questa è solo calma apparente... un sogno così non può ripresentarsi a distanza d'un anno con gli stessi identici colori, volti, atmosfere, sequenze, orrore! Non è possibile, Shalim» e da uno strattone al suo cavallo che sta cercando di annusare il mio. «Voi, piuttosto, a che punto siete con l'evacuazione della Biblioteca?».

«Abbiamo riempito la nave. E Zosimo aveva ragione, non ci sono entrati nemmeno cinquantamila testi».

«È già qualcosa, Shalim! Addio, amico mio, salutami tutti... e che gli dèi - i miei e il tuo - possano proteggervi!».

«Dove vai, Olimpio?».

«Lontano, amico mio, a Roma, l'unica città dove ancora i miei dèi non sono stati scacciati del tutto! Fra poche ore parte una nave ancorata davanti al tempio d'Iside Pharia. Vi porto nel cuore...». Volge il capo verso l'isola, sprona il cavallo e s'allontana.

Il cuore ha preso a battermi forte, sprono il povero animale e attraverso la Porta della Luna. Devo andare a prendere Ipazia, Teone e Zeev. Quando il carro passa davanti alla tomba di Alessandro, regna la calma più assoluta. Sul marmo bianco sono state deposte delle grosse lucerne, le fiamme mostrano le chiazze di sangue rappreso. Ma è l'unico segno dei disordini e delle violenze della scorsa settimana. Per le strade non circola quasi nessuno, non ho incontrato nemmeno un soldato. Solo qualche cane, e parecchi gatti in amore, che levano alle stelle i loro lamenti appassionati.

È l'ora prima: li ho trovati tutti e tre già svegli, con parecchi sacchi vuoti da portare alla Biblioteca. Li avverto che nella nave di Zosimo ormai non entra più niente, ma per loro l'evacuazione deve continuare.

«Riempiremo tutte le nostre case» dice Teone mentre sale sul carro assieme a Zeev «e sistemeremo un po' di sacchi anche nel magazzino di Alon». La sua voce vibra con la forza di chi non s'arrende mai.

Aspetto che dal vicolo laterale giunga Ipazia. Ed eccola, in groppa al cavallo, mentre con una mano cerca di raccogliere i capelli dietro la nuca e con l'altra tiene le briglie. Si mette a cavalcare davanti al nostro carro.

La piazza davanti al Serapeo è deserta. I chiarori dell'alba svelano la maestosità del tempio. È tutto marmo: bianco il portico rettangolare che ospita la Biblioteca, bianca e bluastra la parte superiore, con le ampie finestre e la cupola su pianta rettangolare, così levigata che riverbera i primi raggi del sole. David è di guardia all'entrata sinistra del pronao, Erculiano a quella destra. I due ci vengono incontro e si occupano di portare i cavalli vicino alla colonna di Pompeo, lontano dalla piazza.

Nell'aula del Centro Studi troviamo Nicandro, il nostro compagno Olimpio e Samuel ancora al lavoro. Hanno ripreso a esaminare l'enorme catalogo e non sanno come continuare.

Nicandro mi chiede a che punto è la situazione sulla nave di Zosimo. Lo metto al corrente, scuote la testa deluso. Si rivolge a Teone che s'è appena seduto. «Come proseguiamo? Abbiamo rivisto per sommi capi il catalogo e solo la sezione dedicata agli atomisti... - la sua voce scordata si colora d'incredulità — solo questa sezione contiene ancora quarantacinquemila volumi». Si mette le mani nei capelli, vampe di sconforto sul volto. «Per non parlare della sezione dei paradossografi in cui abbiamo scoperto testi d'incredibile interesse... come i discorsi sovvertitori di Pitagora! L'opera intera!

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Pagina 170

Agostino l'ha ascoltata seguendo con il movimento delle labbra la foga della mia maestra. Respira a fatica, è emozionato anche lui: «Troppo ho riflettuto e discusso sul significato del male. E comunque, ti posso assicurare che la sua vera accezione l'ho trovata proprio negli scritti neoplatonici. Tutto ciò che esiste è bene, mentre il male di cui cercavo l'origine non è una sostanza. Dio ha fatto tutte le cose buone e non esiste alcuna sostanza che non sia fatta da lui».

«E il male, allora?».

«Il male, Ipazia, è nient'altro che diminuzione o privazione del bene, e proviene unicamente dal peccato originale dell'uomo! L'uomo è indegno, è incapace d'operare il bene, impossibilitato a salvarsi senza l'aiuto di Dio! L'uomo non può scegliere, non può decidere: l'unica libertà che gli è concessa è quella di sottomettersi a Dio. Gli uomini non sono altro che massa damnationis. Solo pochissimi eletti, predestinati dall'infallibile giudizio di Dio, si salveranno» e ci fissa entrambi con uno sguardo imbevuto di fuoco. «La tua rabbia, Ipazia, la conosco bene: era la mia. Io cercavo la via per procurarmi la forza sufficiente a godere Dio, ma non l'avrei trovata fino a quando non mi fossi aggrappato al mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, poiché il Verbo si è fatto carne affinchè la sapienza di Dio, con cui creò l'universo, diventasse latte per la nostra infanzia. E non essendo umile, proprio come te Ipazia, non comprendevo l'umiltà del mio Dio, Gesù Cristo, né intendevo di che fosse maestro».

Ipazia lo interrompe, scuotendo la testa: «C'è qualcosa che non quadra nella tua religione, Agostino. Con Ambrogio è stato tutto semplice: mi trovavo dinanzi a un abilissimo uomo politico, al vero capo, nato per comandare anche gli imperatori. Unica caratteristica luminosa... la sua voce melodiosa. Ma i fatti sono evidenti. Un uomo è tale per ciò che fa e non per ciò che dice. Mentre tu, Agostino, per me ancora ti ammanti di un po' di mistero. Qual è la leva che ha mosso Ambrogio?» E scuote ancora la testa. «Io non dimentico la tua analisi e la descrizione dell'autonomo percorso della ragione. Tu asserivi che la ragione conduce all'intelligenza e alla conoscenza!».

«Certo. Ma facevo una premessa: l'autorità esige la fede e prepara l'uomo alla ragione».

«Non era questo che affermavi ad Alessandria! Questo te l'ha inculcato Ambrogio!».

«No, Ipazia. Il fatto è che ormai mi sto abituando a difendermi dagli attacchi di gente come te che s'accontenta di confidare nella sola ragione. La sola ragione, Ipazia, porta alla morte, tu lo sai. Noi abbiamo bisogno dell'autorità. L'autorità è lo strumento scelto dalla divina provvidenza per condurre l'uomo alla salvezza! L'autorità è complementare alla ragione, la precede ed esige la fede! Senza l'autorità non c'è speranza. E l'unica autorità è quella di Dio divenuto uomo. Una volta accettato questo mistero della fede, allora possiamo incamminarci verso il nostro destino lungo la nostra via: la felicità. Allora questa via possiamo percorrerla illuminati dalla vera filosofia e dalla vera religione».

Ipazia sembra rassegnata, stanca, poggia le mani sulle ginocchia.

«Stavo per declamare un elogio della ragione, volevo dirti che quando la ragione rovescia gli idoli, diviene essa stessa fonte di vita, ma mi rendo conto ch'è inutile sprecare tempo con te, è inutile».

Agostino, come se non avesse udito, s'alza, volge il capo verso il mare e riprende il suo panegirico da dove l'aveva interrotto: «Poiché il cammino di ogni vita buona e felice è posto nella vera religione, con la quale si venera l'unico Dio e, con pietà purissima, lo si riconosce principio di tutte le cose dal quale l'universo ha la sua origine, il suo sviluppo e la sua consistenza, in modo più evidente si scopre l'errore di quei popoli che preferiscono venerare molti dèi piuttosto che l'unico vero Dio e Signore di tutto, per il fatto che i loro sapienti, che chiamano filosofi, hanno scuole contrastanti e templi comuni. Perciò ci conviene venerare e conservare, col Padre e col Figlio, il dono stesso di Dio, ugualmente immutabile: Trinità di un'unica sostanza, unico Dio dal quale siamo, per il quale siamo e nel quale siamo; l'unico Dio per opera del quale fummo fatti, la sua somiglianzà, per la quale siamo formati all'unità, e la pace, mediante la quale aderiamo all'unità; il Dio che disse "Avvenga", e il Verbo, per mezzo del quale fu fatto ciò che di sostanziale e naturale fu fatto, l'unico Dio dal quale tutto viene, per il quale tutto esiste, che tutto racchiude: a lui la gloria nei secoli...».

«Amen» conclude Ipazia, ma senza ironia, con i segni d'un profondo sconforto sul volto e negli occhi. «Che tristezza, Agostino, per te e per tutte le povere creature indifese che t'ascolteranno. Quindi ogni uomo che vuol incamminarsi lungo una vita buona e felice deve necessariamente venerare il tuo dio, credere nella tua religione! Al di fuori del cammino da voi segnato, senza il vostro permesso, senza la vostra benedizione per i popoli della terra non solo ci sarà la dannazione eterna, ma in questa vita ci saranno persecuzioni e morte! Hai letto la lettera del tuo Ambrogio all'amico Pisidinio Remolo, vero?» e lo fissa con aria di sfida.

Per la prima volta Agostino abbassa gli occhi e fa un timido cenno affermativo con la testa.

«Il tuo Ambrogio, l'uomo che sta mutando il cammino della storia, giustifica tranquillamente il massacro dell'Esodo e fa capire chiaramente che tutti i pagani, tutti gli ebrei, tutti coloro che non si piegheranno a voi, tutti potranno essere legittimamente sterminati!» e scuote la testa mossa da quell'inguaribile amore per ogni palpito di vita. «Non avresti mai dovuto abbandonare le ricerche e la scrittura dell'enciclopedia delle arti liberali: invece che a Milano, dovevi venire ad Alessandria, con noi, con mio padre, nel nostro Centro Studi.

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Pagina 231

Su Alessandria è calata la sera. Nell'aria vibrano echi di pace come non ne sentivo da anni. Ipazia e io siamo passati sotto la Porta della Luna evitando di attraversare il quadrivio di via Canopica e via del Soma, percorriamo tutte stradine secondarie per tornare in via del Sole, cavalcando lungo il porto Grande e tagliando per gli obelischi di Cleopatra.

Il silenzio tremolante di pace e di primavera all'improvviso viene spezzato da urla bestiali: dal buio salta fuori una marea di monaci parabolani che, in un baleno, circondano i nostri cavalli. Non abbiamo nemmeno il tempo di spronarli, è tutto talmente rapido che Ipazia e io ci troviamo sbattuti per terra, eppure riesco a sfilare il gladio e il pugnale, grido come un indemoniato, riesco a trapassare il petto di due, tre, quattro maledetti, poi mi passano delle corde attorno al corpo, ferisco, lotto con tutte le mie forze, chiedo aiuto, mi vogliono imbavagliare, urlo il nome d'Ipazia, odo un suo grido strozzato che m'implora di fuggire. Altri monaci, mi batto disperatamente, mi massacrano di botte, ne ferisco e ne uccido altri ancora, ma la nuvolaglia infernale aumenta, anche gente comune, ne accoltello parecchi, ma continuano a darmi colpi in testa con i bastoni, riescono a strapparmi la spada, il sangue mi cola dal capo, dalla bocca, sono centinaia, mi portano via il pugnale, m'imbavagliano, anche a Ipazia hanno tappato la bocca, cerco di gridare ancora, botte in testa, prendono a trascinarci verso il Cesareo, ci portano all'interno della cattedrale, sono centinaia... centinaia.

Chi comanda quest'esercito di uomini in tonaca è Pietro il Lettore, il gigante dai freddi occhi chiari e fauci rosse, il diacono-guardia del corpo di Cirillo. La chiesa è illuminata da centinaia di lampadari a trilumi e dalle torce accese dei monaci. Ci trascinano davanti all'altare posto al centro della cattedrale: un altare di marmo bianco cosparso di petali di giglio. Ipazia è a pochi passi da me, le hanno strappato di dosso il mantello, il cuore mi scoppia, i suoi occhi innocenti mi cercano. Pietro il Lettore si fa consegnare da un'ombra fremente alle sue spalle una grossa conchiglia affilatissima, squarcia la tunica bianca della mia maestra: in pochi attimi le strappa di dosso ogni indumento, lasciandola nuda. Ipazia tenta di girarsi verso l'altare, le viene impedito con schiaffi e calci da alcune belve di monaci che la tengono inchiodata di fronte a me.

Pietro il Lettore mi si pianta davanti con la sua faccia minacciosa mentre io — ormai legato mani e piedi — sono tenuto in ginocchio con la forza da una decina di maledetti. «Allora, Shalim, so che sei stato battezzato, so quasi tutto di te e di questa dannata... Guarda me, maledetto! Lasciala stare! Dunque, abbiamo già bruciato la biblioteca del Serapeo con i sotterranei, la nave di Zosimo e in questo momento sta bruciando anche il vostro dannato Centro Studi... Guarda me, maledetto!» e mi cala un colpo in faccia che mi tramortisce. «Ascoltami bene, maledetto eretico, ci manca l'ultimo nascondiglio: se mi dici dove sono nascosti gli originali dei testi scientifici, ti do la mia parola che con questo» e mi mostra il mio piccolo pugnale «con un solo colpo al cuore, senza farla soffrire, faccio giustizia come m'è stato ordinato e spedisco questa dannata alle regioni infere dei morti! Ma se non me lo riveli, Ipazia la maga raggiungerà comunque il suo Ade, ma con qualche difficoltà in più» e urla, e ride in modo sguaiato, e tutto il branco di iene urla, e Pietro s'avvicina a lei che tenta inutilmente di voltarsi, che mi fissa in quel modo che solo io conosco, facendomi capire di non dire nulla... nulla.

«Tu, Shalim, nonostante gli amici che m'hai ucciso e ferito avrai salva la vita» e torna ad accostarsi a me, sguardo feroce. «Solo perché così m'è stato ordinato!» voce rabbiosa «perché hai un compito da assolvere! Dovrai raccontare a tutti i tuoi compagni di studio, a quelli di Alessandria!» e tutto il branco ripete a voce alta «Alessandria!», «A quelli di Efeso!», «A quelli di Antiochia!», «A quelli di Atene!», «A quelli di Roma e del mondo intero... la fine che farete tutti! Tutti coloro che vogliono ficcare dubbi, incertezze e disobbedienza nella testa della gente!» e sul suo volto si dipinge un ghigno impregnato di potenza.

Ipazia con gli occhi mi scongiura di non rivelare nulla.

Pietro s'inginocchia, m'attanaglia il collo con la sua manaccia, quasi mi scanna con le sue dita che terminano a uncino con unghia arcuate, lunghissime, a punta. Mi scruta con disprezzo, nei miei occhi deve leggere lo stesso sentimento che provo per lui, capisce che può farmi qualunque cosa che tanto non parlerò, digrigna i denti gialli, sta per strozzarmi, soffoco... alla fine mi sbatte sul sarcofago di marmo accanto a cui mi stanno tenendo immobilizzato i suoi sgherri.

Si gira, torna da Ipazia, con la conchiglia affilata le rompe il bavaglio: «Tu non sei una pagana qualunque: il tuo sacrificio deve servire da monito, deve accelerare le conversioni in massa!

[...]

Pietro porge la sua conchiglia a un monaco che gli sta accanto, afferra Ipazia per i capelli dietro la nuca, la immobilizza con la mano sinistra, si fa aiutare dagli altri due... dio... dio! e con due dita dotate di quelle spaventose... amore! amore! e con due dita, con quelle unghie spaventose cava un occhio alla mia Ipazia, che emette un grido straziante... dio... dio ferma questo demonio! Provo a liberarmi, Ipazia urla, anch'io cerco di gridare, non posso, mi colpiscono in faccia, il carnefice getta sull'altare, tra i petali bianchi, l'occhio del mio amore. Ipazia emette rantoli disperati, rantoli ancora più strazianti mentre... dio! dio, no! mentre Pietro con le unghie grondanti di sangue le cava... dio! le cava l'altro occhio... grido, scalcio, Ipazia urla... amore mio... povero amore mio. Il carnefice butta l'occhio accanto all'altro povero globo senza vita... in mezzo ai petali di giglio... dio! L'ha straziata: al posto dei due piccoli soli ora ci sono due cavità sanguinolente! Ella geme, cerca di soffocare lo strazio nella voce, anch'io ho sangue dappertutto, negli occhi. Questo demonio non si ferma, riprende in mano la conchiglia tagliente, tuona, ordina di stendere Ipazia sul marmo dell'altare, in mezzo ai petali bianchi, le avvicina il grosso guscio di conchiglia al grembo, dagli sgherri le fa divaricare le gambe, prende a squarciarle il pube, a penetrarla con la conchiglia tagliente, Ipazia emette grida strozzate, disperate, la voce rabbiosa del demonio tuona nella cattedrale densa d'incenso e di strida indemoniate: «Tu non puoi essere uccisa come qualunque nemico! tu devi essere smembrata! Faremo a pezzi anche il tuo pensiero, i tuoi progetti, i ricordi di quel cielo che hai violato!» e continua a seviziarla, e il mio amore geme con uno strazio... oh dio, dio! «Tu sarai smembrata perché, oltre a tutto quello che hai detto e che hai fatto... oltre tutto questo» e infierisce con acuminata ferocia «...oltre a tutto questo tu sei donna!» e le squarcia tutto il basso ventre. «Donna! Donna! Donna...!». I rantoli strazianti di Ipazia... Cerco di urlare, bestemmio quel dio che sta permettendo questo... Pietro urla alla ciurma di monaci-assassini di non colpirla al cuore. Questo privilegio tocca a lui, e il branco assetato di sangue si lancia sul mio povero amore... oh dio, Cristo in croce! con le conchiglie affilate le mozzano... Cristo Gesù... le mozzano le dita! le staccano le mani! Ipazia è viva, lo strazio nei suoi rantoli di dolore, attaccano le sue gambe, Gesù Cristo! tu non sei mai esistito! le strappano i seni, le labbra, sangue, la divorano, le labbra della mia Ipazia. Provo a fracassarmi la testa sul marmo del sarcofago dietro di me, ma i figli di Satana me l'impediscono, cacciano urla sguaiate, i tuoi lamenti strazianti... amore mio... i figli del demonio m'obbligano a scavare con i niei occhi nello scempio del tuo corpo! Quasi me li cavano per tenermeli aperti, mentre a decine, a centinaia piombano sull'altare a strappare un brandello di quella povera creatura. Cristo! Cristo! a strapparle i rimasugli del ventre! Cerbero, aiutala tu! Pietro il Lettore, ebbro di sangue, si fa largo nel sangue, deve urlare... amore! sta per finire... gridare, i monaci non vogliono cedergli il posto, riesce a piombare sul corpo seviziato, alza la conchiglia affilata, solleva gli occhi sulla croce d'avorio e cala un colpo mortale sotto i brandelli del seno d'Ipazia squarciandole il cuore... un ultimo sussulto di vita... il macellaio non si ferma, scava, lo estrae, lo solleva... il cuore del mio amore... protende la mano insanguinata in alto, un urlo di gioia si leva dal branco assetato di sangue!

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