Copertina
Autore Silvina Petterino
Titolo Vecchi da morire
SottotitoloAnziani in casa di riposo
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2011, Eretica , pag. 230, cop.fle., dim. 12x16,71,4 cm , Isbn 978-88-6222-157-3
LettoreLuca Vita, 2011
Classe salute , psicologia
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Indice


Premessa                                      3

La casa di riposo                             7
Punti di riferimento                         11
La mia esperienza                            23
Il salone                                    49
Rumori e grida                               54
Vecchiaia e carattere                        66
Pannoloni e igiene                           80
Autonomia                                    86
Amicizia, coppie, sessualità                 90
Il personale della casa di riposo           102
Cibo, sondino, PEG                          121
Piaghe da decubito                          141
Sedazione e dolore                          150
Le demenze                                  164
La morte e l'accanimento terapeutico        179
Svago, feste e animazione                   199
Dialogo, ricordi, relazione                 207
I familiari                                 213
Tra sogno e realtà                          221
Conclusione                                 225


 

 

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Pagina 3

PREMESSA


Quando, alcuni anni fa, ho ripreso il lavoro di infermiera professionale in casa di riposo, ero intenzionata a comportarmi a modo mio. Volevo dare alle persone l'attenzione della quale pensavo avessero bisogno, il dialogo, il contatto; non solo essere una brava 'tecnica'.

Da molto tempo m'interessavo di medicina psicosomatica, avevo letto riviste e libri che parlavano di come le emozioni influenzino il corpo e lo avevo sperimentato, durante molti corsi, su me stessa; inoltre praticavo la meditazione e tutto questo mi aiutava a percepire i bisogni veri, quelli più profondi.

Ero intenzionata a fare anche le cose in cui credevo, e a lavorare con il cuore.

Sapevo di dovermi adattare all'organizzazione, ma volevo privilegiare la relazione; sicura che fosse importante, sia per il personale che per gli anziani.

Ho perciò prestato attenzione ai corpi, ai gesti, ai lamenti, alle poche parole. Sono andata contro l'atteggiamento difensivo che si attua quando si lavora a contatto con la sofferenza: negare il più possibile, emozionarsi il meno possibile e considerare prioritario l'ambito curativo-terapeutico rispetto a quello psicologico-emozionale.

Secondo me tante emergenze, malori, agitazioni che si verificano in casa di riposo, sono conseguenze di questo atteggiamento ed è prestando attenzione a cose apparentemente insignificanti che si può evitare di trovarsi in seguito ad affrontare situazioni gravi, bisognose di molto tempo e risorse per essere affrontate e risolte. Lasciando gli ospiti della prima struttura nella quale ho lavorato, ho provato un grande, inaspettato rimpianto. Tornata a casa piangevo, rivedendo volti cari che mi pareva di avere 'tradito'. Successivamente a questa esperienza, ho cercato di affezionarmi meno agli anziani che conoscevo, ma i ricordi — toccanti, dolorosi, divertenti, curiosi — mi sono rimasti dentro, ed è nato il desiderio di non lasciarli morire.

Ho pensato di condividerli, di raccontarli in brevi ritratti, in semplici istantanee di momenti quotidiani nelle residenze per anziani; di rendere protagoniste per un momento persone che hanno vissuto nell'ombra, schive, inconsapevoli di poter suscitare interesse. Vecchi bauli dimenticati o di cui si è perduta la chiave. Spero di non dispiacere a chi potrebbe ravvisare in qualche ritratto, se pure sfocato, se stesso o un proprio caro, e mi auguro soprattutto di non suscitare inutili sensi di colpa per la scelta, qualunque ne sia stata la ragione, di ricoverare un parente anziano in una struttura.

Ho avuto cura di sostituire i nomi (tranne in un caso) e omettere particolari troppo personali.

Cambiare i nomi degli anziani mi ha messa in difficoltà: ciascuno di loro coincideva esattamente con il proprio e nessun altro gli si confaceva. Si trasformavano in vecchi sconosciuti e la mia mente li correggeva, ostinata.

Le pagine che seguono possono apparire colme di una tristezza esagerata: ciò è dovuto al fatto che nel ruolo di infermiere si viene in contatto con situazioni critiche e dolorose. Queste occupano più spazio, anche perché la relazione con chi non ha patologie particolari è, per evidenti ragioni, generica e meno coinvolgente.

Mi è sembrato interessante contestualizzare le descrizioni e gli episodi narrati, per informare (con un linguaggio semplice e comprensibile) e stimolare riflessioni sulle strutture che ospitano gli anziani. Chi ne è lontano, non sa o si accontenta di luoghi comuni e, forse, preferisce non sapere.

La cura degli anziani è qualcosa di molto impegnativo. Di molto vicino e al contempo lontano dalla nostra vita ordinaria: per tanti anni può non riguardarci e improvvisamente (si tratti di noi stessi, di familiari o amici cari), ci troviamo a doverci pensare. A dover scegliere tra casa, cure parentali, badante o ricovero.

Ci riguarda anche la spesa da sostenere per occuparci dei vecchi, ma nessuno ne parla né ci chiede cosa ne pensiamo, perché è un argomento spinoso: non si sente parlare di cosa potrebbe accadere quando diminuiranno stanziamenti e pensioni, ma il mondo cambia in fretta ed è meglio limitarsi al presente.

La cura degli anziani è considerata un fatto privato che, a pensarci bene, privato non è.

A me preme raccontare di come ci si occupa degli anziani nelle strutture, per riflettere su temi rispetto ai quali si potrebbero modificare certi comportamenti attualmente in atto rendendoli più umani, più coerenti, più centrati sulla persona nella sua individualità.

Queste pagine sono scritte con il cuore e la testa.

Entrambi necessari nel nostro lavoro.

Sono scritte anche con la 'pancia'. Meno necessaria.

Ferno, estate 2009

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Pagina 66

VECCHIAIA E CARATTERE


                                            "Il carattere trapela dalle crepe".

                                          James Hillman, La forza del carattere



Si sa che la vecchiaia è caratterizzata da un decadimento progressivo e generale delle funzioni vitali variabile da individuo a individuo.

La salute è spesso compromessa, ma finché ci sono le energie, la capacità di camminare, di prendersi cura di sé, la voglia di coltivare interessi e fare cose, è come se l'età non contasse.

Tutti dicono: "L'età non conta. Contano gli anni che ti senti!".

La vecchiaia (brutta parola!) sembra essere uno spauracchio da allontanare, evitabile se ci si tiene in forma e non ci si lascia andare.

Non invecchiare è impossibile, a meno che si muoia prima.

Desiderare di invecchiare bene è naturale e possibile, ma non basta volerlo. Si dovrebbe iniziare... presto..., conducendo uno stile di vita sano e facendo scelte in sintonia con la propria essenza intima.

Ci vuole anche predisposizione genetica, impegno e fortuna per giungere in forma alla terza età.

Non esistono regole precise, ma è importante mantenersi attivi tramite lavoro, studio, impegno, passioni e svago. Essere curiosi di cose e persone. Creativi.

Fondamentali sono la vita affettiva e la capacità di darle comunque un senso, di adattarsi ai cambiamenti e alle avversità; di rielaborare i lutti; di riprendere in mano la propria vita e andare avanti.

La vecchiaia è anche tempo di ricordi e bilanci. Andrebbe accolta come un'amica che porta doni diversi e chiede di lasciare altre cose.

Che abbia o meno una fede religiosa, l'anziano potrebbe incamminarsi verso una verifica di ciò che ha realizzato e dei comportamenti assunti nelle varie circostanze della vita rispetto ai potenziali posseduti, ai progetti, agli ideali. Per fare pace fuori e dentro; ricucire strappi. Imparare a perdonarsi e a perdonare. Per manifestare le proprie ultime volontà e chiudere il cerchio della vita lasciando un senso di compiuto. Far questo è impegnativo, a volte doloroso e può essere impossibile senza un aiuto, un ascolto, una mano tesa per qualche possibile aggiustamento.

Ci vogliono silenzi... 'giuste' parole e azioni.

Ci vuole coraggio.

È un compito arduo. Meglio non aspettare troppo.


Quando un anziano manifesta il suo carattere, di norma infastidisce.

Dovrebbe corrispondere a un cliché che va dalla nonnina con il sorriso sulle labbra, discreta, che racconta le storie ai nipotini, al vecchio burbero ma buono che ricorda i tempi andati... magari brutte storie di guerra.

Ora gli stereotipi stanno cambiando: le nonne sono giovani ed escono con le amiche, viaggiano e vanno a ballare, i nonni preparano il pranzo scherzando con i nipotini... Le coppie fanno immersioni subacquee... si baciano rotolando nella neve...

Naturalmente stanno bene. Al massimo è consentito qualche problema di protesi dentaria, d'incontinenza (facilmente e commercialmente risolvibili), di memoria e qualche dolorino reumatico.

Quando il vecchio sta male davvero, scompare: dalla pubblicità, dalla televisione, un po' meno dal cinema, con qualche ammirevole eccezione. Se succede, fa di tutto per non farlo pesare; usa le energie residue per sistemare cose e affetti, e muore velocemente, dando il minimo disturbo e tanta commozione.

Nella vita no. Possono passare anni di cure, a volte estenuanti per figli e parenti, anni di decisioni da prendere, di frustrazioni; di visite specialistiche, medicazioni, analisi, farmaci da procurare e da assumere; di panni da lavare oltre ad aiuto, assistenza, spese, pazienza di ascoltare; questioni familiari e finanziarie da affrontare. Con la tristezza nel cuore, ben sapendo che il proprio congiunto alla fine morirà oppure con un senso di colpa per il malcelato desiderio, inconscio o meno, che Iddio provveda a risolvere presto tutte le questioni.

In una situazione così difficile, che l'anziano pretenda di conservare o mutare il proprio carattere, di esprimere le proprie esigenze ed emozioni, può sembrare una pretesa fuori luogo e lui non ci mette molto a capirlo: proibito arrabbiarsi, piangere, lamentarsi, pretendere, irritarsi, decidere, ricordare cose vecchie... occuparsi delle cose dei giovani, delle loro scelte: già è tutto così difficile, meglio evitare discussioni e dialoghi privi d'interesse. La cosa che più conta è che non perda la memoria. Soprattutto quella a breve termine.

L'anziano dipende da noi e deve fare quello che vogliamo noi. Deve adattarsi, fare posto ai giovani, iniziare a morire prima di esalare l'ultimo respiro. Altrimenti sarà di peso, di troppo. Sbagliato.

I vecchi trovano molte difficoltà a farsi da parte, a non esprimersi. Lo stesso carattere che ha permesso loro di andare avanti nella vita, affrontare tante difficoltà, fare scelte difficili, formare una famiglia e crescere i figli, farsi la casa o fare fortuna, lottare per i propri ideali, riuscire simpatici e socievoli o antipatici e determinati... non serve più.

Che sia questo uno dei modi che madre natura trova per costringere gli anziani a staccarsi dal proprio ego, dagli altri e dalla vita terrena?

Nelle case di riposo, nonostante i caratteri siano smussati da orari, regolamenti e circostanze, il problema rimane.

Il buon funzionamento delle strutture pare, infatti, risultare da un ambiente tranquillo, nel quale gli ospiti sono tutti al loro posto, adattati e omologati, rispettosi delle regole; altrimenti l'organizzazione ne soffre e un certo tipo di personale s'innervosisce. Ecco un generico ed esasperato elenco di giudizi, commenti e comportamenti conseguenti. Ironico e da non generalizzarsi. Riferito a vecchi benestanti e pieni di pretese.


Chi chiede è noioso; chi chiama disturba.

Chi grida, va sedato.

Chi piange, fa pena e lo si consola, poi si danno le gocce.

Chi chiama spesso e ha molte esigenze è sgridato, colpevolizzato, deriso.

Chi parla tanto, è psichiatrico.

Chi fa o dice cose apparentemente prive di senso, è demente.

Chi si muove oltre il necessario, è agitato.

Chi ti spiega quello che è successo, è bugiardo.

Chi cade, è da contenere.

Chi ha male, esagera o inventa.

Chi ha fame, ha appena mangiato.

Chi deve andare in bagno, è appena andato.


Le regole sono una necessità, in casa di riposo.

L'eccesso di regole può essere un metodo di contenzione psico-fisica dell'anziano.

Imbriglia il carattere dei vecchi (e col tempo anche quello degli operatori).

Una regola fondamentale in casa di riposo è che l'anziano la mattina debba alzarsi. A meno che abbia la febbre o stia proprio male, bisogna che le assistenti lo alzino all'ora prestabilita o lo convincano a farlo.

I geriatri pensano giustamente che restare a letto porti una serie di problemi di salute e poi c'è l'aspetto organizzativo che ha la sua importanza. Bisogna fare andirivieni con le terapie, con i pasti... ricordarselo... avvisare... giustificarne la ragione... La persona che resta a letto senza un serio motivo, pare versare in uno stato d'abbandono e si lascia andare; si deprime o si ammala.

Ci sono caratteri più indicati a vivere in casa di riposo, altri meno.

L'abitudine a vivere soli affrontando le piccole e grandi difficoltà della vita può rendere la permanenza in una struttura più accettabile.

E... più l'anziano accetta, più sarà accettato. Molto conta la capacità d'autonomia fisica. Persa quella, la qualità della vita può subire un grosso cambiamento.

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Pagina 71

PASQUALE

Seduto in carrozzina con la sua canna di legno impugnata nella mano, Pasquale sta protestando davanti all'ascensore. È arrabbiato perché non lo vogliono accompagnare in camera e rivendica con fermezza questo diritto. Sono le prime ore del pomeriggio e la regola vuole che in quest'orario lui, insieme alla maggioranza degli ospiti, resti a riposare in salone.

Solo alcuni anziani non autosufficienti sono accompagnati a letto dalle ASA.

Venuta a conoscenza del motivo per cui non è accontentato, anche se non lo condivido, cerco di farlo comprendere e accettare a Pasquale. Lui non sente ragioni, agita il bastone, lo picchia contro la porta dell'ascensore e grida; insiste: "Ho bisogno di andare nella mia stanza. Non mi interessa un bel niente dei vostri regolamenti! Avete capito? Avrò pure il diritto di andare in camera mia!".

Dopo un breve scambio d'opinioni con il medico, il quale come me non vede dove stia il problema, lo accompagno. Pasquale si tranquillizza un po', fa quello che deve fare brontolando e impiegando pochi minuti, poi è pronto a ritornare in salone: mezz'ora di tempo perduta per qualcosa che si poteva fare subito, anche se prendere iniziative e creare precedenti di questo tipo mi renderà la vita difficile.

Pasquale è il classico uomo d'altri tempi: serio, burbero, rude e di poche parole. Non cerca il dialogo con chi non conosce; la gentilezza sembra metterlo a disagio, ma è una brava persona.

Dignitoso nella sua vecchiaia, si adatta come può ai ritmi della casa di riposo, malcelando un rimpianto e una ribellione interiore per l'indipendenza perduta. Lo rivelano certi movimenti bruschi, certi sguardi, certe improvvise irritazioni o scatti d'ira.

Per il suo compleanno i familiari hanno portato le torte per festeggiare e lui in questa occasione sorride bonario: è fotografato con i figli e i nipoti; si vede che è contento a sentire la loro considerazione e il loro calore.

La notte della vigilia di Natale, alcune ASA lo hanno vestito da Babbo Natale, in testa un cappellino con le stelline che si accendono e si spengono.

Sorride con loro un po'imbarazzato, Pasquale, dentro una fotografia che mi mostrano passate le feste.


LA SIGNORA BRUSATORI

La signora Brusatori ha un che di distinto nel portamento. Sta seduta dritta e rilassata. I capelli grigi ben pettinati all'indietro. Gli occhi chiusi. Parla poco e in un modo che la distingue dalle altre anziane. Con accento e tonalità diversi.

La signora Brusatori è milanese e ci tiene. Lo dice spesso. Ne è orgogliosa e ricorda la sua vita in città, i monumenti, le strade, il Teatro alla Scala, il Duomo.

Il suo viso traduce soddisfazione per avere vissuto in un posto grande e importante. Dietro gli occhi chiusi riesco a intuire le immagini della sua storia, che scorrono come se riprendessero vita.

I suoi occhi ora sono quasi ciechi. Lei dice: "Vedo solo delle ombre".

Le mani annaspano nello spazio quando è in piedi, e anche da seduta le muove intorno a sé cercando punti di riferimento, protestando indignata se le pare che qualcosa non sia al giusto posto. Spesso si convince di non essere al suo posto e chiama e non crede a noi, si muove da sola, cambia direzione alla sedia, brontola, si confonde. Piagnucolando si dispera fino a che qualcuno interviene a riportare le cose come erano prima.

La signora Brusatori è testarda. Non riconosce di sbagliarsi, quando succede. Al massimo afferma stizzita: "Ma io sono cieca, lo sa che non ci vedo!".

A tavola è un problema. Non trova le cose, protesta, ci chiama. Le capita di prendere per sbaglio le posate della vicina, che se le riprende; lei non si convince, va in confusione, protesta e ci chiama a voce alta. Vuole avere ragione.

Le altre ospiti hanno una certa soggezione di lei, forse perché è cieca; anche perché è milanese.

Ogni tanto la signora delira. Anche quando insiste di vedere cose sulla parete o che c'è un uomo nella sua camera, lo fa con stile: "Ma certo che c'è. Guardi bene. Lo vede adesso? Cosa crede, che mi invento le cose?".

È una signora da tenere d'occhio. Una signora da trattare con i guanti come si conviene a una cittadina. Bisogna accompagnarla rispettando il suo passo, altrimenti protesta, ma sempre con un linguaggio appropriato. S'inalbera, si offende.

Si annoia a starsene seduta per ore. Mi dice: "Ma cosa faccio io qui tutto il giorno, almeno parliamo, la giornata non passa mai e io sono cieca, lo sa? Mi annoio così a far niente!".

Quando discorro con lei e le altre a ruota libera o prendo spunto da riviste, è molto interessata. Si sistema sulla sedia aggiustandosi la gonna e si concentra. Commenta in modo semplice o saggio, ricorda qualcosa della vita delle artiste dei suoi tempi, qualche canzone, qualche vecchio film.

Ama anche i proverbi e li ricorda orgogliosa. Fa a gara con le altre a concluderli. Se sbaglia cerca di non mostrare l'umiliazione, si risistema sulla sedia e sul viso, a parte un cenno di disappunto, rimane una soddisfazione per le conversazioni nelle quali si sente protagonista e informata.

Con le gambe accavallate, la fronte aggrottata e gli occhi chiusi, riflette, sogna.

Perché, non possiamo dimenticarcene: "Io sono di Milano, lo sa?

Eh sì, ho vissuto a Milano, io!".


ROSANNA

Rosanna ha un carattere difficile.

La collega mi avvisa senza mezzi termini di stare attenta con lei perché, se non le vado a genio, avrò tanti problemi.

All'incirca settantenne, vicino alle altre anziane pare giovane. Si cura della sua persona, si trucca, si veste con gusto e si muove decisa e veloce. Può uscire dalla casa di riposo ma non racconta dove va. Tiene alla sua indipendenza.

Ha bisogno di cure, Rosanna; per questo frequenta molto l'infermeria. Ci entra disinvolta o prepotente a ogni occasione, più o meno necessaria. Passa avanti alle altre e va dritta al problema, al suo bisogno. Chiede spesso farmaci antidolorifici, chiede la terapia in anticipo, poi insiste che non l'ha avuta con la collega che è subentrata e la pretende di nuovo.

La sua simpatia per noi è subordinata al fatto di essere accontentata o meno nelle sue continue richieste.

Quando ho a che fare la prima volta con Rosanna per farle un'iniezione intramuscolare, è subito aggressiva e nervosa: chi sono? Cosa le devo fare adesso? Ma sarò capace? Che stia attenta a non farle male!

Il giudizio positivo su quel che le faccio non mi impedisce di considerare questa donna insopportabile. Mi irrita, mi innervosisce, perché sembra che il suo scopo sia di farmi perdere la pazienza. Se ottiene, ha subito un altro bisogno. Se può mettermi in difficoltà, meglio. Insiste, mente, minaccia di andare a riferire al medico o alla direttrice. Diventa maleducata e ferisce. Fa confronti con le altre infermiere. Riferisce le cose e mette zizzania tra il personale.

Capisco col tempo che fa così con tutte, ma all'inizio penso solo che non le sono simpatica. Ho provato a farmi accettare ma c'è un limite e la signora Rosanna, con me, un giorno, lo ha superato. Entra furibonda in infermeria e davanti ai presenti fa una sceneggiata: "Lei, si ricordi bene, ieri non mi ha dato le mie gocce. L'ho aspettata in camera, stavo male e lei mi aveva promesso che veniva e non s'è vista! Potevo morire! Dovrebbe vergognarsi. Ma l'ho detto alle altre. Lo dirò anche alla direttrice! Le altre non fanno così...".

Non è vero niente di quello che dice e già ho letto della polemica che Rosanna ha suscitato; non ho reagito, ma ora sono proprio arrabbiata e le ho risposto male. Le ho detto che lei con le sue bugie mi ha stancata, che si vergogni e che vada pure a protestare da chi vuole!

Essere accondiscendente non ha funzionato; essere diplomatica neppure; a essere paziente non me la levo più di torno. Diventa rispettosa da quando non fingo più una disponibilità che non ho. Da quando parlo chiaro e dico come la penso. Da quando le rifiuto cose senza patteggiare o dare spiegazioni. Con gentile fermezza. So che le sue minacce non hanno seguito, che la sua furia sbollisce.

Su questa base di autenticità riusciamo a costruire un dialogo; viene alla luce il suo bisogno di essere accettata, considerata; di parlare con qualcuno. Rosanna proietta sugli altri le frustrazioni di tutta una vita, e ne ha accumulate parecchie. Non si è sposata e non ha figli. È rimasta sola e ha lavorato tanto... È anche ammalata seriamente.

Parlandone, un giorno si commuove mentre dice di sentirsi sola e se ne vergogna, allontanandosi nervosa. Suo padre non voleva che piangesse, mi confida poi. Suo padre desiderava un maschio, invece era nata lei. Ma le voleva bene.

Le ho parlato di me (anche mio padre avrebbe preferito un maschio) e di come mi facevano sentire certi suoi atteggiamenti.

Non sfuggo più Rosanna, ora che la capisco; vado prima da lei, se posso. Mi fermo a parlarle, chiederle, a consolarla. Superato il nostro orgoglio, la comunicazione è possibile e anche la fiducia e il rispetto.

Dietro tante pene penso vi sia una verità scontata: l'essere umano ha soprattutto bisogno di amare e di sentirsi amato.


CLEMENTINA

Clementina è una donna riservata. Bella. Silenziosa. Discreta. Passa inosservata. Non chiede. Non suona il campanello. Non si lamenta.

Ci accorgiamo di lei quando sta male e rimane in camera. Non la vediamo seduta al suo posto, distinta ed elegante.

La signora sta bene da sola, nella sua stanza, con i suoi ricordi. I suoi pensieri.

Quando ricorda, quando racconta (succede di rado), si rianima. I suoi occhi brillano. Il suo papà che amava, sua madre. La sua giovinezza.

Mi confida: "Sa, sono stata sempre pigra. Fin da giovane mi stancavo subito. Guardavo le montagne dalla finestra, ma non mi veniva voglia di andare, di camminare. Mia sorella, lei, era il contrario di me... Andate voi, dicevo ai miei. Sono proprio così!".

Lo dice tranquilla e, quando vado via raccomandandole di alimentarsi e di prendere la terapia, mi saluta gentile e rimane sotto le coperte. Non vuole che mi preoccupi per lei. Avrebbe mangiato; l'indomani si sarebbe alzata.

Invece, per un lungo periodo, Clementina resta in camera e non si alimenta quasi più. Dimagrisce e se glielo faccio notare, scrolla le spalle. Abbassa lo sguardo. Non le importa di star male.

Non ha paura di morire. Vive e si nutre di emozioni, solo sue.

Un pomeriggio cerco di convincerla ad andare a una festa in giardino per distrarsi un po', ma lei mi risponde di no.

Alla mia richiesta se vi avesse mai partecipato, sorride: "L'ultima volta che sono stata in giardino, mi è successa una cosa... è la prima volta che la racconto... Stavo per bere il tè e un piccione che passava ha fatto la cacca... ed è finita proprio lì nel mio tè!" ride di gusto Clementina, e io con lei. Aggiunge: "Ci pensa, con tutto il posto che c'era, proprio nel mio tè. Non sono più andata in giardino...!".

È l'unica volta che l'ho vista ridere.

Aveva scelto la malinconia, e la amava.


GIOVANNA

Giovanna è alta e magra; cammina dritta, decisa. Il deambulatore le serve per mantenere un'andatura sciolta e veloce. È orgogliosa di essere così in forma per la sua età, mi chiede di indovinare quanti anni ha e naturalmente sbaglio, così lei può correggermi e godersi i miei complimenti sinceri.

Giovanna ha novantanove anni.

Alle sei e quaranta del mattino, quando vado nella sua camera con la terapia, è già vestita e pronta per scendere, il rosario in mano. Le rilevo la pressione, lei chiede e poi controlla gocce e compresse, ogni giorno. Nel dubbio s'informa: "Questa è quella per il cuore, questa è quella per urinare...".

Spesso parla da sola. Discute di cose. Fa domande e si dà le risposte. Si arrabbia e si calma. Si sfoga. Sono andata a vedere pensando ci fosse qualcuno, invece no. Mi spiega: "Me l'ha consigliato un medico tanti anni fa, perché sa, vivendo da sola, non parlavo quasi più. Mi ero disabituata, che poi non riuscivo più a parlare neanche quando c'era qualcuno. Lui mi ha detto di parlare lo stesso, di tenermi in esercizio con la voce e con la testa! e io faccio così e mi trovo bene. Funziona, sa!".

È gentile Giovanna, quel tanto che basta.

È decisa. Brusca se necessario. Quando sta poco bene, avvisa che va in camera e si mette a letto, salta il pasto e l'indomani è di nuovo in forma.

In salone, dopo la colazione, condivide ogni novità e avvenimento con le sue conoscenti, poi sale e si siede in un angolo tranquillo a leggere e commentare il quotidiano. Senza occhiali.

Rimane a letto quando fa le trasfusioni e va un po' in ansia perché le sue vene sono piccole e difficili da trovare, ma capisce la nostra difficoltà e partecipa come può alla ricerca, poi attende la fine della sua sacca di sangue, in tempo per il pranzo.

Scende veloce, si accomoda a tavola e riprende subito a parlare, gesticolando...

S'informa di quel che è successo. È tutto sotto controllo.

Sembra non avere timore Giovanna, né della vita, né della morte.

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